QUESTIONI DI SPOT

Tanto
perché non si dica che qui i libri vengono ignorati. Districandomi nella
consueta e ormai terrificante mole di arretrati, segnalo per ora tre titoli. ho letto ieri Solo con gli occhi di Wataya Risa
(fragilissimo ma singolare), ho finito con gioia le bozze del romanzo di Kai ZenLa
strategia dell’ariete
, di cui vi dirò, sto finendo E’ di moda la morte di Raul Montanari.

E ne approfitto
per pormi un quesito che non riguarda la letteratura, ma almeno
inizialmente il mondo della moda, lo
stesso esplorato da Montanari, e soprattutto il mondo della pubblicità.

Come,
credo, saprete, parecchi strali si sono abbattuti su
Dolce&Gabbana per un effettivamente discutibilissimo spot che evocava apertamente uno stupro. Peraltro, non il primo e
non l’ultimo ad utilizzare apertamente le modalità pornografiche (se ne
discusse a lungo nel molto citato X post):
ma comunque bruttissimo e volgare, non ci piove.

Però. La
questione che mi pongo riguarda il modo di obiettare: in Spagna, l’ Istituto
della Donna, ha parlato di “incitamento alla violenza”. Da questa immagine,dicono,
«si può dedurre che è ammissibile l’uso della forza come un mezzo per imporsi
sulle donne».

Io ho invece
la sensazione che i messaggi pericolosi siano quelli più sottili, tipo la già
citata pubblicità di abbigliamento giovanile con fanciulla in posa
masturbatoria che troneggia ovunque per le vie di Roma senza che nessuno se ne
accorga. E soprattutto, da antica e appassionata osservatrice della pubblicità,
mi chiedo perché scarseggi parecchio l’uso dell’ironia. Molti anni fa una mia amica (sì, ne ho un po’) mi raccontava,
assai divertita, di due commercials che in Italia sarebbero stati
immediatamente censurati. Ho ripescato il racconto (il porno non c’entra: riguardano entrambi  il Papa) e ve lo riposto, tanto per:

"Nel primo caso il prodotto da reclamizzare è un telefonino.
Lo spot dell’ americana At&t mostra Sua Santità alla guida di una candida
Cadillac: è solo, percorre la classica strada che si snoda nel deserto.
Improvvisamente, viene sorpassato da un camion condotto da due rozzi individui.
Lo riconoscono e iniziano a bersagliarlo con lattine, fumogeni, gesti osceni,
pernacchie. Il Papa non si scompone: tira fuori il cellulare e chiama, si
suppone, il proprio Superiore Gerarchico. Immediatamente il camion finisce
fuori strada e si disintegra in un dirupo". Secondo spot, questa volta di
una ditta di abbigliamento tedesca: "E’ domenica a San Pietro: mancano
pochi minuti alla Messa e Sua Santità è irreperibile. Disperati, i pretini si
radunano a stuoli per i corridoi vaticani, percorrono corridoi, aprono e
chiudono porte, ispezionano gli sterminati saloni. Niente. Finalmente, il Papa
si trova: è in uno stanzino appartato, davanti allo specchio, a provarsi vestiti
femminili della ditta pubblicizzata".

 

23 pensieri su “QUESTIONI DI SPOT

  1. Comincia la fase 2, auguri.
    “La crisi, dal punto di vista formale, è risolta. Massimo D’Alema aveva detto che se la sua politica estera non fosse stata approvata sarebbero andati tutti a casa. Ci sono andati per un fine settimana, poi sono tornati, tutti ai loro posti, D’Alema compreso. Però il governo identico a quello precedente non è politicamente lo stesso di prima. L’autosufficienza è come la verginità, una volta persa non la si ricostruisce, se non attraverso simulazioni della chirurgia plastica, ed è proprio a qualcosa del genere che il centrosinistra è costretto a ricorrere. Dal programma di 280 pagine si è passati alla cartellina striminzita dei 12 punti “impegnativi”, che è quasi una sconfessione generale di quel torrenziale documento preelettorale. In quello erano elencate quasi solo abolizioni di tutta o quasi la legislazione del centrodestra, si salvava solo la patente a punti. I 12 punti, invece, sono quasi tutti basati sulla conferma, almeno nella sostanza, di quelle scelte “berlusconiane”, dalle pensioni alla Tav, dall’Afghanistan ai rigassificatori. Dell’abolizione della legge Biagi non si sente più parlare, sui Dico il premier invita caldamente le sue ministre competenti a non creare allarme”.

  2. Anch’io. E se così non fosse: per ora non cancello. Ma, per il futuro, sei pregato di tentare almeno di capire dove ti trovi e di cosa si sta parlando prima di commentare.
    Grazie.

  3. sarà che si avvicina l’8 marzo… ma credo che non ci sia bisogno di andare a cercare la fanciulla in posa masturbatoria per attribuire alle pubblicità una buona dose del sessismo che circola in giro (ok, diciamo che è un caso di circolo chiuso, società sessista produce pubblicità sessista che sprona e alimenta nuovi fenomeni sociali sessisti). ricordo con certo disgusto spot come: mi vuoi tutta ciccia e brufoli… e via così.
    altre due osservazioni:
    uno) non so se è mai arrivata in italia (non abitandoci) uno spot inglese in cui le donne affermavano che il fatto di sorridere o bere una birra con un tizio non sia un’autorizzazione allo stupro (quello che in germania viene chiamato definizionsrecht). provo a ricordarmi se anche là le donne erano secondo il prototipo “fighetta” (già solo su questo termine si potrebbe dar luogo una discussione alquanto produttiva)
    due) voglio assolutamente vedere lo spot del papa metrosessuale (mitrasessuale?). che ditta era?

  4. C’è qualcosa in più in quella pubblicità che ho visto in foto dal link fatto dalla Lippa: cioè che a “lei”, infondoinfondo, pare che piaccia essere stuprata. E’ quello che più di tutto mi inquieta. E’ quello il messaggio più schifoso.

  5. a gianni) messaggio che viene da sempre raccontato come una fantasia proibita delle donne. L’ho trovato strano proposto proprio da quegli stilisti. Per me il problema sta nei bambini e negli adolescenti che guardano. Colgono i messaggi alla velocità della luce. Ho sentito una ragazzina sull’autobus dire all’amica, parlando della borsa che aveva a tracolla “E’ da stupro!”. Se immagine e linguaggio sono così sincroniche, siamo in un bel guaio.
    elisabetta

  6. Ahimè, lo spot non l’ho visto. Se non quell’immagine iniziale che è rimbalzato su ogni sito.
    A me non sembra che ricordi uno stupro.
    Comincio a pensare che il vero problema sia la necessità di tutelare le donne ad ogni costo.
    Lavorando mistificatoriamente sul concetto di “correttezza” e negando davvero loro ogni (auto)determinazione.
    Magari oltre quell’immagine ce ne saranno di davvero disgustose ed offensive, ma la sensazione di disagio mi viene da questo sentirmi, come donna, considerata una “specie protetta” che non può avere il proprio gusto, la propria autonomia dello sguardo.
    Dice Elisabetta che il problema sta nello sguardo dei minori.
    Anche loro fanno parte delle specie protette.
    Forse perchè non sappiamo dar loro gli strumenti per difendersi.
    A me sembra che se una ragazzina dice “E’ da stupro” significa che ha percepito solo proprio quella negatività ed abitudine a cedere il diritto alla propria difesa ad altri.
    Secondo me servirebbe l’educazione a guardare con occhi diversi.
    Una cosa che dovrebbero insegnare a scuola.
    Invece dei ruoli sempre più confusi dal timore e dalla
    deresponsabilizzazione.

  7. io continuo a ribadire che a mio avviso il problema sta più a monte. il dire “è da stupro” è il sintomo… la malattia ha attecchito un paio di livelli più in profondità.

  8. La malattia è diffusa, certo, ma il sintomo a questo punto, è da ricovero immediato. Terapia intensiva. Altro che videogiochi. Serve capire che tipo di cura. E forse un’analisi sul linguaggio fatta nelle scuole servirebbe almeno a capire che cosa stiamo dicendo quando parliamo…
    elisabetta

  9. Vorrei dare un contributo sul linguaggio dei giovani e il ruolo della scuola. Per esperienza diretta posso dire che sempre più spesso si lavora con giovani che usano un linguaggio povero e ripetitivo e non è sufficiente proporre attività di riflessione e arricchimento. Altre agenzie educative hanno, in questo senso, maggiore presa sui ragazzi. Il problema è tutto qui.
    La scuola è vissuta dai giovani come un dovere inutile, a cui si *sottomettono* senza però credere alla sua reale validità. La scuola è un momento della loro giornata/vita che non ha un riscontro nelle *cose importanti* (amicizie, interessi,…): i problemi, gli argomenti trattati a scuola non hanno ricadute dirette e immediate nella loro vita quotidiana (anche se gli effetti educativi arriveranno, inconsciamente, a più lunghe scadenze).
    A questo declassamento della scuola – e del suo ruolo formativo – ha contribuito e contribuisce una società che, evidentemente, dalla scuola è stata delusa ed ha di essa un’immagine molto negativa. Io credo che bisognerebbe fare quadrato intorno alla scuola, darle fiducia e difenderla dai troppi attacchi selvaggi che contribuiscono a screditarne l’immagine. Solo da questo punto si può partire per parlare seriamente del ruolo della scuola nella formazione dei cittadini di domani. E se le altre agenzie educative (famiglia, media,…) continuano a proporsi come modelli maggiormente validi, attraenti, facili, protettivi e che per di più sono *nemici* della scuola, allora temo che per essa continuerà a non esserci una seria presa in considerazione da parte dei giovani.
    E certi spot continueranno a passare: osservati e non compresi nella loro pericolosità.

  10. Tuuto vero quello che, nell’intervento precedente, riguarda “il generale”. Ma non mi risulta che la scuola dell’obbligo abbia ore di lezione che riguardino i nuovi media, il linguaggio pubblicitario, i videogiochi come simulazione o come materiale di apprendimento (sto sparando titoli a caso, ma che abbiano contenuti riconoscibili). E non lo fa perchè le insegnanti non sono preparate per farlo, non hanno strumenti idonei e nemmeno, spesso, frequentazioni e curiosità personali. Quanto ci vorrebbe, per esempio, ad aprire un blog di classe? Insegnando a usare la rete (altro argomento sul quale servirebbe istruire)? Ho almeno cinque nipoti alle medie (a Milano) e credimi, nessuna ha mai fatto una sola ora di lezione che riguardasse questi argomenti. Le mie nipoti stanno a scuola dalle 8.30 del mattino alle 17.00 del pomeriggio. D’accordo c’è la famiglia ma non credo che l’infelice frase sentita sull’autobus sia ripetuta alla propria madre, molto più probabile ascoltarla all’interno di una classe. Forse è grave. O no?

  11. @ elisabetta: per favore non essere una *nemica* della scuola e non generalizzare. Potrei portarti tanti esempi di insegnanti curiose e preparate!
    In ogni caso, tra i compiti della scuola c’è quello di sviluppare abilità, anche critiche, a prescindere dai singoli contenuti. A vario livello, gli alunni imparano a leggere e capire testi di diversa natura (scritti, orali, iconici,…) e poi anche produrli con mezzi differenti e magari con originalità.

  12. benchè la degenerazione dello stesso sia probabilmente il sintomo di qualche disagio mentale(cfr Tom),l’uso sbarazzino del linguaggio non dovrebbe fare paura di per se,diversamente le campagne elettorali sarebbero una goleada di avvisi di garanzia.I nuovi modelli espressivi sono il frutto delle dinamiche sociali che quagliano per flirtare.Per i fatti resta il buon senso ed eventualmente il codice penale(la prevenzione solitamente è una mezza cazzata come insegna Goethe nelle prime pagine su “le affinità elettive”)

  13. a Paola) non temere, parlo così perchè “ci entro” spesso nelle classi. Ma la scuola credo proprio sia il posto in cui i casi particolari sono “i più segnalati” del mondo. Ora se vogliamo possiamo elencarli, ma non basta. La faccenda spot non si risolve con la censura, e soprattutto riguarda troppo il portafoglio, ma i programmi ministeriali si possono cambiare. Ora, considerarli una priorità e condividere questa premessa, senza trincerarsi dietro al “ma io sono bravo” delle eccezioni, potrebbe aiutare, forse. Metterli al primo posto nelle priorità del paese, potrebbe forse aiutare a risolvere svariati problemucci dei nostri “poveri giovani”. (visto che ultimamente se ne sono accumulati parecchi). Comunque uscendo dal dedalo scuola, rimane che anche a me non piace quella pubblicità e l’unica cosa che posso fare è boicottare il prodotto. (Anche senza fatica…)
    elisabetta

  14. Le affermazioni di Paola, che condivido, aprono un vasto orizzonte di riflessione e pongono l’accento, credo, su più di un aspetto fondamentale per considerare l’argomento scuola in generale, quale contesto di riferimento (anche questo, ma non il solo evidentemente) dentro cui leggere criticamente l’oggetto del post.
    A Elisabetta, pregandola di accogliere la mia indicazione per quello che è e che vorrebbe essere, un modesto contributo informativo, suggerirei di lanciare, con un motore di ricerca, “media education” o, meglio ancora, “educazione ai media”. Scoprirà, se già non lo conosce, un mondo di esperienze che la scuola dell’obbligo ha introdotto, ad un livello ormai non più sperimentale (qualcuno sta pensando, se non erro, anche ad un possibile curricolo per l’introduzione della media education nella scuola dell’obbligo stessa), attuate con i nuovi media, di studio del linguaggio pubblicitario, di approccio critico ai media, vecchi e nuovi, di lavoro con i media, di studio sui media. Potrei essere più preciso nell’indicazione dei link diretti di accesso ai siti in argomento, ma temo di scivolare in qualche forma di spam che non vorrei mai compiere e soprattutto non avrei l’intenzione di esagerare con l’esortazione all’approfondimento.
    Infine, poiché sono giunto al tempo in cui “[…] *lungo* ha la memoria il corso […]” (chiedo scusa per la citazione e per l’intervento sul testo leopardiano), mi piace talvolta lasciarmi trovare e sorprendere da testi che attingo dal passato remoto. Come questo: “ Il giornale può essere utile alla Scuola perché avvicina idealmente ad essa la vita: il lavoro delle fabbriche, dei campi, degli uffici, l’attività ed il movimento della strada, gli avvenimenti del giorno, le cose viste e vissute dal giovane stesso e rende questi partecipe del grande disegno che nella società di oggi vuole tutti impegnati, giovani ed adulti, nella costruzione concreta e duratura di un mondo sempre più ardito e migliore.
    E non vi è dubbio che al conseguimento di un tale obiettivo la stampa può e deve portare un suo insostituibile contributo che varrà ad educare soprattutto i giovani al senso di quelle libertà civili che sono a fondamento di una società veramente democratica”.
    Retorica d’antan, parole destinate a non avere alcun seguito nelle cose? Manifesto per un progetto attuale di educazione con i media? Il pezzo, datato gennaio 1970, porta la firma dell’allora Ministro della Pubblica Istruzione Ferrari-Aggradi. Mentre ancora mi interrogo su questo brano, tratto dall’introduzione scritta per il volume “Il nostro amico quotidiano”, autore Egidio Sterpa, ecco che mi imbatto oggi in altre parole, scritte questa volta nel presente. “Si sente debitore nei confronti di Harry Potter? «Se devo essere sincero, senza di lui avrei fatto una vita di m***a». Be’, certo, osserviamo: il successo, i soldi…«No, non è questo: è che senza Harry Potter sarei dovuto andare a scuola ». (“Scandaloso Radcliffe. Tolgo i vestiti di Harry Potter, e anche i miei”, Craig McLeen intervista Daniel Radcliffe, in “Io Donna”, 3 Marzo 2007).
    Quanta educazione al pensiero critico sarà necessaria ad un insegnante, mi chiedo, per staccare la dignità maieutica del proprio impegno e la essenzialità del curricolo disciplinare dalla icastica affermazione di un idolo della finzione filmica? Di quanta persuasione interiore avrà bisogno un insegnante per instillare, posto che lo voglia, nel cuore dell’allievo la convinzione che le cose non stanno come l’interprete della retorica filmica sostiene? Intanto, il fatto è che, senza sedersi nei luoghi che gli ispirano metafore cambronniane, anzi proprio in virtù del fatto di non avervi sostato a lungo, egli gode di una condizione di eccellenza (se non altro mediatica): parola di Harry Potter (o della sua incarnazione cinematografica che infiniti consensi attinse agli dei mediatici, incurante di Lari e Penati curricolari). Pensieri estremi, certo, stimolati da un esempio paradossale e comunque paradigmatico di una condizione reale.
    Quale allineamento vi è dunque fra quelle che Paola definisce le diverse *agenzie educative*? E quali sono quelle “primariamente” accreditate presso gli allievi –Paola offre già una probabile risposta- ed anche in non pochi adulti, per la verità: la scuola? i media, la famiglia? Poi passerà, e certo la scuola semina per un raccolto pronto nei tempi lunghi: ma intanto fra i curricoli e la messa in scena della vita sembra non esservi partita. Forse è sempre stato così, il potere attrattivo della “vita in fieri” ha sempre esercitato su tanti un fascino superiore a quello emanato da una “conoscenza in vitro” che sembra essere cara a pochi. Ed è forse inutile chiedersi dove siano le nevi di un tempo, tanto belle solo perché avvolte dalla amabile luce della nostalgia.
    E anche se così fosse, e per me non è così, quali sono oggi i modelli di riferimento dei percorsi di crescita, quelli che ci scegliamo e quelli che ci vengono proposti?
    Non si tratta di mettere le “braghe” agli artisti in scena o, metaforicamente, a tutto quanto non risponde in modo adeguato alla nostra sensibilità. Si tratta di capire se tra la vita e la sua rappresentazione sui media è ancora possibile un utile esercizio di mediazione maieutica, se la scuola è in grado di compierlo e se è la scuola il luogo adeguato a realizzarlo. E se sì, a quali condizioni e in quali condizioni lo può fare? Secondo quali modelli (il cittadino, ma non solo, di domani) e lungo quali percorsi? Si tratta di interrogare prima di tutto se stessi, a partire dalla testimonianza coerente che si è in grado di dare rispetto alle cose in cui si dice di credere.
    E se i modelli vincenti sono quelli che sono, e non vi è dubbio che siano oggi spesso, e per una larga maggioranza, quelli che godono di ampia visibilità sulla scena mediatica per meriti, direi, extracurricolari, modelli non di rado condivisi da giovani e adulti, come si può sostenere con persuasione interiore e con speranza di futuro la verità di esempi altri, spesso invisibili o marginali, che abitano “solo” la scena feriale dalla quale sembra che tutti (non di rado anche gli adulti stessi) vogliano fuggire e della quale sognano di liberarsi al più presto per librarsi anch’essi nel cielo di una più ampia (visibile?) rappresentazione di sè?
    Inutile citarne di espliciti. Ormai è quasi banale stigmatizzarli. Il problema non sono le parole di sdegno, di condanna, di meraviglia, di indignazione. Se è ancora lecito dire, con un vocabolo desueto, il problema sono gli esempi (i modelli?). Non si tratta di tentare di imporne di univoci (o, peggio, di un unico modello). Si tratta di proporne in maniera persuasa uno proprio, facendolo in modo il più possibile coerente con se stessi e senza infingimenti relazionali. Chiedendosi se e come possano eventualmente convivere (entrare in una relazione critica fondata) Manzoni e Dolce e Gabbana, Harry Potter e Leopardi, il rock e Beethoven, i nuovi media e i tomi composti in linotype. Facendolo secondo una visione responsabile di sé e delle conseguenze che sono frutto di una propria scelta. Senza guardare sempre altrove con l’indice accusatorio puntato, per chiedere ad altri quello che noi stessi per primi non vogliamo. O accusando genericamente l’universo mondo di colpe presuntamene remote che allignano e traggono invece linfa nei comportamenti quotidiani di ciascuno. Allora, forse, anche le diverse agenzie educative inizieranno a parlarsi con il linguaggio, ciascuno coerente con la propria missione, di una responsabilità condivisa.

  15. breve sguardo al giornale on line qualche momento fa. parlo di un quotidiano tutto sommato serio come la repubblica.
    trovo notizie e foto sui seguenti argomenti: galeotto tedesco che dopo essersi rinchiuso sulla torre della tv scende perché riceve foto in topless della moglie, spogliarelliste promettono show gratis a chi ritrova il loro cane, moda trasparente in portogallo…
    insomma una bella scorpacciata di tette per chi lo desidera.
    ora, mi chiedo, se ci acciungo la più volte fotografata michelle, alla fine che quadro generale dell’immagine femminile mi viene proposto?
    la scuola, programmi ministeriali o no, rimarrà un luogo di riproduzione di questa cultura – che palle doverlo ripetere! eppure non ci sono alternative – sessista.

  16. Ciao,
    scusate il disturbo, c’è bisogno di aiutare Benito, un senzatetto che vive sotto un ponte e malato di diabete.
    Se puoi e vuoi, passa per il mio blog e dai voce all’iniziativa fra i tuoi contatti.
    Un grande grazie.
    Morgan

  17. Il fatto è che la scuola, assieme a tutti gli altri luoghi dove si organizzano i modi di guardare, i luoghi comuni e le abitudini, sembrano rispondere sempre e comunque ad una volontà, ad un rigore, ad una visione che non tiene mai presente l’evoluzione di mezzi, modi e pensieri.
    Ci sono dei “protocolli” da applicare (e ti viene da chiederti se non sia perchè così si formano i cervelli all’ammasso…) e quelli si applicano.
    Da non più di un decennio le parole d’ordine sono diventate “tutela”, “solidarietà”, “sostegno”.
    Si sono invece perse “tolelranza” “autonomia” “determinazione”, oppure fanno da damigelle d’onore ad un linguaggio che non si perita di essere limitante e violento.
    Credo che però la scuola sia il luogo migliore per cambiare le regole, per essere “eversivi”, per orientare in una maniera non abituale gli allievi (ed in particolare le allieve).
    Non mi piacciono le visioni negative, catastrofiche; non mi piace il lamento e l’invocazione dei numi.
    Mi piace poter pensare che ci siano gli strumenti e qualche chilo di coraggio per utilizzarli.

  18. Mi si nota di più se rilancio(a casaccio)sulla ”mediazione maieutica” o se bevo in pubbliche circostanze la risciacquatura delle stoviglie?(ioci causa of corse.Semmai uno di questi giorni,”un po’ per celia e un po’ per non morire”, discutiamo sul come la brevità coercitiva potrebbe rianimare il fenomeno,spero non transitorio,della scrittura in rete)

  19. biondillo, se le piace non è uno stupro. e anch’io ho avuto questa sensazione: che le piaccia. ecco perché tutto questo polverone mi lascia perplesso.

  20. Già che si parla di spot e messaggi pubblicitari, cosa ne pensate della campagna di Oliviero Toscani sulla Calabria? Dalle mie parti se ne sta (s)parlando molto, a causa dei messaggi oggettivamente ambigui (cito a memoria: “Terroni? Criminali? Incivili? Si, siamo calabresi!”) il tutto aggravato dal fatto che tutta l’operazione è stata commissionata dalla stessa regione Calabria. Se volete un pò di informazioni in più cercate “Oliviero Toscani” sul sito del quotidiano on line http://www.calabriaora.it Ciao

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