Ancora in avvicinamento a Vicino/Lontano, che è uno degli appuntamenti più belli dell’anno. Domenica 8 avrò l’onore di parlare con Filippo Focardi, Igiaba Scego e Chiara Volpato su questo tema. L’idea della discussione nasce da qui, dal blog, dal famigerato post su Colonia che ha portato gli organizzatori del Festival a volerci ragionare ancora. Per capire di cosa si parla, riporto l’incipit di un intervento, “Italiani brava gente”-Effetti di un mito storico sulle relazioni sociali contemporanee, a firma di Chiara Volpato, Luca Andrighetto,Silvia Mari, Alessandro Gabbiadini e Federica Durante, e pubblicato nel 2012 in “Dietro il pregiudizio. Il contributo della psicologia sociale all’analisi di una società multiculturale”, Liguori, a cura di A. Miglietta e S. Gattino.
Negli ultimi anni il canale di Sicilia si è trasformato in un cimitero marino, nel quale migliaia di persone hanno trovato la morte per naufragio (Bellu, 2004; Delle Donne, 2004; Zizek, 2009), come i 73 eritrei annegati nell’agosto del 2009 al largo di Lampedusa. L’indifferenza dei governi italiano e maltese fece in quell’occasione dire al quotidiano cattolico Avvenire che l’Occidente chiudeva gli occhi di fronte alle stragi dei migranti allo stesso modo in cui, durante la Shoah, aveva volutamente ignorato i convogli piombati diretti verso i campi di sterminio (Corradi, 2009).
Come nel caso citato, molte vittime del mare provengono dai territori delle ex colonie italiane del Corno d’Africa, territori caratterizzati da profonda miseria, persistente instabilità politica, incessante stato di guerra; per questo dovrebbero essere accolte in qualità di profughi. La loro morte viene, invece, liquidata dagli ambienti politici, dai media e dall’opinione pubblica come una delle tante tragedie di clandestini, vale a dire di esseri soggetti a un particolare tipo di deumanizzazione, la deumanizzazione per invisibilità (Volpato, 2011a). Quasi nessuna voce si leva per notare la provenienza di queste persone, il particolare legame che le unisce all’Italia, e per porre l’accento sulle responsabilità e sui doveri che il nostro paese ha nei loro confronti a causa del passato coloniale, durante il quale ha conquistato e mantenuto manu militari le terre da cui provengono.
Il colonialismo italiano è stato un imperialismo minore, una variante, non un’eccezione, del potente imperialismo europeo (Labanca, 2007). E’ iniziato tardi e ha raggiunto la sua massima espansione quando le altre potenze coloniali avevano già avviato il processo di decolonizzazione. Si è trattato di un fenomeno circoscritto nel tempo (sessant’anni, dalla fine dell’Ottocento alla seconda guerra mondiale) e nello spazio (Libia, Eritrea, Somalia, Etiopia), rivelatosi poco redditizio sul piano strategico ed economico. Non si è discostato comunque dalle pratiche di soggezione tipiche dei paesi di più antica tradizione, in particolare per quanto concerne i trattamenti inflitti alle popolazioni colonizzate. Durante l’invasione dell’Abissinia, della Libia e dell’Etiopia, gli italiani hanno massacrato migliaia di civili, fatto uso di armi chimiche (Del Boca, 1996), rinchiuso masse di popolazione in campi di concentramento, trasformatisi in alcuni casi in campi di sterminio (Del Boca, 1992), usato violenza a donne e bambine, colpite da una triplice stigmatizzazione: di razza, di classe, di genere (Volpato, 2009). Nonostante la documentazione ufficiale sia ancora pesantemente carente, gli storici stimano che in Libia le vittime del nostro colonialismo siano state circa 100.000, in Etiopia ed Eritrea 400.000 (Del Boca, 1976-1984, 1986-1988), al punto che oggi il termine “genocidio” viene ritenuto adeguato per descrivere gli eccidi commessi (vedi, ad esempio, Salerno, 2005).
L’Italia non si è però mai fattivamente interessata ai danni causati dalla sua avventura coloniale. Ha contribuito a questa mancanza la sistematica rimozione degli eventi voluta dalle istituzioni e accettata dall’opinione pubblica. L’analisi storica del nostro passato è stata tardiva e soggetta a censure, distorsioni e strumentalizzazioni politiche (Labanca, 2007). La memoria del passato coloniale è stata permeata dal mito auto-assolutorio degli “Italiani brava gente,” una credenza che descrive gli italiani come colonizzatori tolleranti, umani, miti, incapaci di comportarsi in modo crudele verso i popoli colonizzati (Del Boca, 2005; Burgio, 2010; Labanca, 2005).
Il mito degli “Italiani brava gente” è nato nelle prime fasi dell’avventura coloniale italiana. Era già presente, infatti, nei discorsi con cui, nei primi mesi del 1885, l’allora ministro degli esteri, Pasquale Stanislao Mancini, accompagnò l’invio nel Mar Rosso di un contingente di truppe che avrebbe portato alla conquista dell’Eritrea, la “colonia primigenia”. L’Italia era presentata come portatrice di civiltà, in virtù del primato intellettuale, morale e civile che le derivava dall’eredità romana; il suo sarebbe stato quindi un colonialismo più umano e benefico di qualsiasi altro (Del Boca, 2005). Dopo queste prime apparizioni, il mito del bravo italiano avrebbe continuato a impregnare la propaganda italiana entrando stabilmente a far parte dell’immaginario del paese. Anche le classi dirigenti fasciste si servirono di tale mito per connotare positivamente la politica di conquista e differenziarla da quella delle grandi potenze coloniali, come mostrano le analisi condotte sulla Difesa della Razza, in cui grande risalto è dato all’umanità del colonizzatore italiano, dipinto come sensibile, generoso, amante della pace, provvisto di doti morali e spirituali che lo rendono incapace di brutalità (Volpato & Cantone, 2005; Volpato, Durante & Cantone, 2007).
Durante la seconda guerra mondiale e negli anni immediatamente seguenti, il mito degli “Italiani brava gente” si è arricchito di nuove componenti, relative al comportamento dei militari italiani e al comportamento tenuto dalla popolazione civile verso gli ebrei durante l’occupazione nazista. Una componente, quest’ultima, che ha permesso per anni a pubblicisti e opinione pubblica di sottovalutare il fatto che il governo italiano avesse promulgato, e il paese sostanzialmente accettato, le pesantissime leggi razziali riguardanti i popoli delle colonie e la minoranza ebraica (Sarfatti, 2000).
Nel dopoguerra, anziché dissolversi per la sua inconsistenza, il mito si è rafforzato perché funzionale alla restaurazione dell’immagine nazionale italiana, pesantemente compromessa dal consenso concesso alla dittatura fascista, dall’alleanza con il nazismo e dalla sconfitta bellica. Si è così diffusa un’immagine positiva dell’italiano, basata sull’enfatizzazione di tratti legati al calore e alla competenza dei singoli. Caduta la possibilità di distinguere positivamente il gruppo nazionale per le sue qualità collettive, la ricerca di un’immagine positiva si è affidata allo stereotipo individuale dell’italiano intelligente, artista, umano (Volpato et al., 2007). A questi tratti è stata affidata la ricostruzione postbellica dell’identità sociale italiana: proprio perché individualisti, gli italiani saprebbero dare il meglio di sé nei compiti creativi e nelle relazioni interpersonali, in cui dispiegano la particolare “umanità” che li contraddistingue. In questo modo il mito degli “Italiani brava gente” si è trasformato in un vero e proprio “mito legittimante” (Sidanius, Levin, Federico & Pratto, 2001), diffuso dai media e accettato anche fuori dal paese. Si pensi al successo di film quali Italiani brava gente (1964), Mediterraneo (1991), Il mandolino del capitano Corelli (2001), che hanno proposto immagini assolutorie del comportamento dei soldati italiani nelle campagne di Russia e Grecia.
Nel 1994 un piccolo libro di David Bidussa, Il mito del bravo italiano, ha riaperto la discussione e invitato l’opinione pubblica a riflettere sulle funzioni consolatorie e giustificatrici del mito, partendo dalla considerazione del comportamento tenuto dagli italiani nei confronti degli ebrei nel periodo fascista. Bidussa ha denunciato la persistente banalizzazione della persecuzione antiebraica e la parallela enfatizzazione dell’aiuto ricevuto dalle vittime. Il mito vorrebbe quindi gli italiani attori di un colonialismo umano e di un antisemitismo “leggero”, in virtù del paragone salvifico che, accostando il nostro comportamento a quello dei tedeschi, ci permette di invocare le attenuanti dal tribunale della storia. Il pamphlet di Bidussa ha avuto il merito di focalizzare l’attenzione su tali credenze e di stimolare una serie di contributi che, in ambito storico, hanno mostrato l’assoluta infondatezza del mito, concentrandosi in particolare su quanto avvenuto negli scenari coloniali e bellici (Burgio, 2010; Del Boca, 1992, 2005; Labanca, 2007; Rodogno, 2003).
Il mito degli “Italiani brava gente” non costituisce tuttavia una peculiarità italiana. Ogni colonialismo europeo è stato accompagnato da analoghi strumenti di autoassoluzione nazionale (Labanca, 2005; Vala, Lopes & Lima, 2008). Dopo un certo periodo, però, questi strumenti sono stati oggetto di analisi storica e di discussione politica, che hanno condotto le maggiori potenze coloniali ad assumersi, almeno parzialmente, la responsabilità delle azioni passate. La Gran Bretagna, ad esempio, ha stabilito attraverso il Commonwealth un diritto preferenziale di migrazione verso il proprio territorio per i cittadini provenienti dalle ex colonie. Allo stesso modo, la Francia ha per decenni facilitato l’immigrazione e il diritto di cittadinanza agli immigrati provenienti dai territori d’oltremare. Quello che distingue la situazione italiana è, invece, la durata della rimozione, l’impermeabilità dell’opinione pubblica di fronte agli inviti alla riflessione critica sul comune passato, la straordinaria persistenza del mito del bravo italiano e la sua capacità di continuare a influenzare opinioni e comportamenti. L’Italia non ha mai posto in atto sostanziali strategie di riparazione nei confronti delle ex colonie. Il governo italiano è stato criticato nel 2010 dalla Human Rights Watch e da altre agenzie europee per aver indiscriminatamente respinto migliaia di migranti provenienti da Eritrea, Somalia, Etiopia. Le strategie di riparazione attuate dalle istituzioni italiane sono state sporadiche e prevalentemente simboliche: il governo si è limitato a scusarsi nel 1997 con il presidente etiope per i crimini passati e, solo dopo molti rinvii, ha restituito all’Etiopia l’obelisco di Axum.
Il mito del bravo italiano opera quindi ancor oggi profondamente nella coscienza della nazione; particolarmente importanti sono i suoi effetti sugli atteggiamenti e sui comportamenti degli italiani nei confronti degli immigrati. Come è noto, nei primi anni Novanta l’immigrazione ha investito prepotentemente e, per quanto riguarda l’opinione pubblica, inaspettatamente, una società italiana impreparata e ancora una volta in ritardo rispetto a quelle società europee che avevano già da tempo accolto al loro interno numerose comunità immigrate. Di fronte all’imponenza e alla subitaneità dei flussi migratori, la nostra società ha reagito facendo ricorso al patrimonio coloniale di immagini, credenze, atteggiamenti, un patrimonio che si credeva scomparso, ma che si è invece rivelato ancora vitale. Lo prova una ricerca, condotta con strumenti antropologici da Paola Tabet (1997), la quale ha mostrato come i bambini nati negli anni Ottanta ponessero in atto, di fronte agli immigrati, atteggiamenti e vissuti che attingevano direttamente all’immaginario attivo nella prima metà del Novecento, nel quale l’Africa appariva come un Eden selvaggio e incontaminato – il regno di Tarzan – popolato da abitanti primitivi e bisognosi di tutto. Da queste “caverne immaginarie di un’Africa preistorica” parevano arrivare i neri, “chiamati extracomunitari” e “creati poveri”, presenze inquietanti che suscitavano sentimenti di rifiuto, paura e disgusto, misti al desiderio di insegnare loro “la vita degli esseri umani”. Il lavoro di Tabet pone alla ricerca psicosociale una serie di interrogativi, non ancora risolti, sulla persistenza sotterranea delle rappresentazioni sociali del passato e sulla loro capacità di incidere sul presente, al di là della consapevolezza degli attori sociali.
La presenza attiva del mito del bravo italiano nella nostra società si è coniugata con pregiudizi di lunga data, come quello della presunta superiorità “culturale” degli italiani rispetto agli immigrati, contribuendo così alla formazione di una rappresentazione sociale che salda la vecchia immagine dell’indigeno con quella odierna dell’immigrato (Blanchard & Bancel, 1998) e che impedisce di vedere nei nuovi abitanti del nostro paese dei cittadini dotati della capacità di rinnovare e arricchire la vita della collettività (Volpato, 2011b).