Il problema di un libro come La fame di Martin Caparròs, che avrò l’onore di intervistare sabato sera a Vicino/Lontano, a Udine, in occasione del conferimento del Premio Terzani, è che ti indigna, ti coinvolge, ti fa ripetere le stesse domande che l’autore pone come intercalare. Come cazzo riusciamo a vivere. Sapendo queste cose, intende.
E qui, certo, arriveranno come sempre quelli che ce l’hanno col buonismo e con la retorica e con la brava gente, e che un giorno, magari, ci spiegheranno cosa significa essere cattivisti, e in concreto a quali pratiche porti, e come cazzo riescono a vivere col cattivismo. Non lo faranno, diranno tu che ne sai, tu hai il culo caldo, sempre la solita, casta, blablabla.
Però Caparròs lo sa benissimo. E scrive:
“Quando c’era una teoria generale del cambiamento si poteva pensare che quel cambiamento, quella società radicalmente diversa avrebbe dato a ciascuno quello di cui aveva bisogno. Adesso non più.
Siamo altri. Per un paio di decenni i grandi obiettivi ci sono sembrati troppo grandi – e allora abbiamo accettato queli piccoli: vivere dignitosamente, migliorare il nostro quartiere, prenderci cura dell’ambiente, rispettare le minoranze, sostenere le buone cause. Tutto molto bello, molto valido; ci siamo trovati bene a vivere in un’epoca piccola. Forse questo la rendeva più ragionevole, più realista; la rendeva, senza dubbio, più piccola”.
Poi, appunto, è arrivata l’indignazione. Contro i buonisti di cui sopra, contro le banche, contro la politica, contro e ancora contro. Ecco, Caparròs sa anche questo:
“Il movimento degli indignati è la quintessenza della versione più attuale di partecipazione politica delle buone intenzioni: la reazione difensiva”.
Il problema, scrive, è che non abbiamo progetti. Non riusciamo a pensare un modello diverso di società, e dunque, quando a un progetto arriviamo, non ci crediamo neanche.
“Una cosa è progettare politiche; un’altra ben diversa progettare desideri. Ma se le politiche non si immaginano come modo di realizzare quei desideri, non sono altro che mera amministrazione della tristezza, della mediocrità”.
Detto questo, e naturalmente in oltre settecento pagine c’è molto altro, io continuo a chiedermi come sia possibile che un libro come questo, uscito un anno fa, sia stato praticamente ignorato, con poche eccezioni. Ma pazienza.
Io quando leggo queste cose mi rincuoro, penso ma allora qualcosa si sta muovendo, qualcuno sta finalmente prendendo coscienza dell’apocalittico inganno che ci ha confuso tutti, quando ci hanno convinto che un altro mondo non sia possibile. Comincio a pensare che queste idee si diffonderanno e infine il futuro tornerà. Ma poi mi viene il tremendo dubbio di aver semplicemente trovato – io – un approdo che prima ignoravo, l’approdo che da sempre ospita quelle e quelli come me, e che non sapevo esistessero né dove si trovassero. Ora lo so, e questo mi conforta. Ma, appunto: temo di di aver trovato qualcosa che già esisteva, illudendomi invece di aver visto nascere qualcosa che non c’era. Mi piacerebbe tanto avere torto.
“Detto questo, e naturalmente in oltre settecento pagine c’è molto altro, io continuo a chiedermi come sia possibile che un libro come questo, uscito un anno fa, sia stato praticamente ignorato, con poche eccezioni. Ma pazienza.” Forse proprio perché è di settecento pagine…
E certo. Perché noi si legge solo breve, certo, certo.
E magari si leggesse solo breve.
Comunque complimenti per il libro “Il bazar dei brutti sogni di King. Due cosettine ine ine qui http://theblogaroundthecorner.it/category/ospiti/letture-al-gabinetto/
A proposito di cose lunghe (e fantastiche): un grazie infinite per La Scuola Cattolica di Albinati. Un vero piacere perdersi dentro. Da tempo non trovavo un’opera così.
Io sulla fiducia mi segno pure Caparros. 700 pagine possono pure essere poche se si scava a fondo sul ristretto orizzonte dei nostri sogni