CARO TOMMASO, CARA ELSA

Continuo a non spiegarmi il motivo della sottovalutazione (non critica, certo: da parte dei lettori) di Tommaso Landolfi, di cui abbiamo discusso ieri a Fahrenheit. Non critica, ripeto, perché gli omaggi e le riflessioni continuano a esserci: da Alessandro Banda su Doppiozero a Michele Mari (qui il saggio tratto da I demoni e la pasta sfoglia sul sito del Centro studi Tommaso Landolfi), all’intervento di Veronica Raimo tratto dal lavoro di Carlo Mazza Galanti, uno dei critici più attenti e sensibili ai discorsi sul fantastico italiano, per Not, tutto da leggere. Ma forse è interessante leggere il carteggio tra Landolfi ed Elsa Morante, così come è stato ricostruito da Daniele Visentini, qui. Non è un rimpianto dei bei tempi, sia chiaro. Sono, come per il post di ieri, modelli.
Sotto questo punto di vista, la lettera che si rivela più interessante è la sua prima. In essa Landolfi, che ha da poco letto L’isola di Arturo, mostra una sincera ammirazione per le doti narrative della Morante: con la sua bellezza, il libro è riuscito a distrarlo dalle sue recenti preoccupazioni, e non solo. Quasi una rivelazione subitanea lo ha colto, a seguito della lettura: «A me è avvenuto come a un calzolaio […] di qui, che, vedendo sul giornale i numeri del lotto già usciti, esclama: “E pensare che son numeri così facili!”». Anche qui Landolfi utilizza il parallelismo tra la vita e il gioco d’azzardo, come spesso fa nei suoi libri, per evidenziare l’impossibilità di un controllo concreto sui meccanismi che regolano l’esistenza umana; se il gioco si esprime per il solo tramite di una volontà di potenza, del pari la vita è inesausta scommessa, ovvero imposizione del proprio anelito al di là di ogni esito finale, vincente o fallimentare che sia. Considerando L’isola di Arturo alla stregua di un numero indovinato, Landolfi non si sofferma quindi sui risultati, bensì «su ciò che li ha resi possibili».
Per spiegare questo ultimo punto è forse utile citare una pagina di Rien va in cui Landolfi, definendo i concetti di “Stato perdente” e “Stato vincente”, giunge a una conclusione oltremodo interessante sulla natura della volontà umana. Secondo lo scrittore:
Un certo stato del giocatore comporta senza fallo, senza margine di errore e con assoluta, matematica e ben più che matematica certezza la vincita; un altro stato con non minore grado di sicurezza la perdita, e così via. Dicesi stato generale e profondo, non relativo soltanto al gioco, ma a tutto; ossia sentimento del mondo.
È il «sentimento del mondo» della Morante ciò su cui Tommaso Landolfi punta al massimo la sua attenzione di lettore: il sentimento, cioè, che consente all’autrice dell’Isola di Arturo di plasmare le dinamiche della realtà esterna e d’adattarvi la finzione della favola, senza scarti. L’immediatezza e la felicità inventiva con cui Elsa costruisce gli intrecci dei propri romanzi sono sconosciute al suo amico. Egli, preso nel vortice di «giri gratuitamente istrionici», non può infatti che concepire l’intrigo come una difficoltà insormontabile; il suo rovello è uno, destinato a permanere irresoluto:
Dico: come o con qual forza trascegliere tra l’infinita varietà degli atti umani i veramente rappresentativi, gli indici, dei quali ciascuno riassumesse una categoria o un ordine di fatti? Di questa difficoltà di fondo io non sono mai venuto a capo in tanti anni.
La ragione dell’«infinita miseria» di Landolfi va individuata, allora, in questo perenne “Stato perdente” che gli impedisce di portare avanti i propri progetti letterari, nonché d’inviare qualche suo scritto a Elsa; la quale nota senza troppo imbarazzo la tendenza dell’amico a deprezzarsi e svela di percepire anch’ella, dentro di sé, una miseria «confusa e numerosa». Ma questo sentimento, per così dire, è di segno opposto rispetto a quello descritto da Landolfi: è commiserazione di una esistenza che, per acquisire valore, necessita d’essere reinventata. In tale ottica anche L’isola di Arturo è, in una volta, frutto della miseria e sperimentale antidoto a essa:
Per il mio capo, purtroppo, non passa che una confusa e numerosa miseria (per usare la Sua stessa parola). Non da altro che da una simile miseria […] è nata quella storia di Arturo, che, però, grazie a Dio, ha avuto il dono di piacerle. Miseria, allora, di riconoscermi adulta e sterile – e desiderio stravagante di essere un ragazzo.
Malgrado le differenze che le contraddistinguono – o proprio in ragione di esse –, dal rispecchiamento tra le “miserie” della Morante e di Tommaso Landolfi nasce una salda intesa, spinta sino allo sfogo di emozioni che, almeno per il secondo, solo di rado si rinvengono altrove. Per assecondare un genuino desiderio di comunicazione, l’eloquenza cui lo scrittore di Pico generalmente non sa torcere il collo sembra qui farsi da parte. Indicativo, in tal senso, è l’irrazionale struggimento con cui Landolfi presenta il proprio stato d’animo:
Cara Elsa, mi par proprio d’essere allo stremo delle forze: non per un’arte nella quale non ho saputo fornire che prove mediocri e marginali, ma per una vita anche oscura, anche indegna, com’è la mia.
Dal canto suo, Elsa Morante soccorre lo scrittore col manifestargli un’ammirazione affatto incantata. Quando replica al suo scoramento, anzi, ella dimostra di carpire alcune costanti caratteriali che Landolfi medesimo si attribuirà nelle pagine dei diari. Si osservi ad esempio come Elsa, prevista una certa incredulità nell’interlocutore, già nella sua prima lettera scriva: «Forse, Lei, che ha scelto di vivere isolato, non ha presentemente, nel Suo isolamento, una precisa coscienza delle proporzioni: voglio dire delle Sue proporzioni, e quindi non può misurare l’importanza che ha avuto la Sua lettera per me». In seguito all’amara risposta dello scrittore, poi, ella si fa ancora più esplicita, sino a indovinare la propensione di Landolfi al volontario svilimento di sé e della propria opera:
Lei pretende ch’io le confermi la Sua dichiarazione: che Lei è autore di opere mediocri e marginali, mi sforzerò di confermargliela. Però non ci riesco: perché diavolo di motivo, insomma, Lei vuol essere quel che non è?
Si rassegni, insomma, a non essere né mediocre né marginale.

A distanza di soli sei mesi, un chiarimento su questo punto verrà offerto da una pagina di Rien va:
Di fatto sta che le qualunque forze della mia intelligenza son calate e quasi del tutto spente e che son giunto, come ho detto, a non avere spesso coscienza della mia condizione. Sarà un buon segno o un cattivo? Può l’avvilimento, l’avvilimento senso, non atto, menare a bene? Questa specie di rimbambimento è comunque il solo risultato per ora visibile.
Quell’inspiegabile avvilimento che lascia interdetta Elsa Morante, e di cui l’autore stesso rimarca i caratteri sfuggenti e contraddittori, è quindi condizione innata dell’indole landolfiana, ravvisabile tanto nelle sue opere quanto nella scrittura privata. E si vede bene come, al contrario di Landolfi che strappa le lettere prima d’inviarle, che ossifica la propria scrittura e l’avvilisce, la Morante invece fa scorrere con generosità parole su parole. Nella sua febbrile affabulazione, però, si insinua sempre il dubbio di non saper dire, di non trovare alcuno che la intenda. Anche da Tommaso Landolfi ella teme incomprensione, distacco, e lo fa capire con franchezza:
Così adesso sa pure quanto amo ricevere posta da Lei […] e ora che Le ho detto così, per la Sua naturale innocente contraddizione, forse Lei sarà avarissimo nello scrivermi e forse mi negherà il piacere. Ma io Le scriverò lo stesso, ché sono ormai tanto vecchia da essere guarita da certe innocenti contraddizioni.

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