Categoria: Cose che accadono in giro

“Signora Albanese, lei è una strega. Questo rapporto è un’altra pagina del suo libro degli incantesimi. Ogni accusa è un incantesimo che non funziona, perché lei è una strega fallita”.
(il rappresentante dello Stato di Israele, Danny Danon, alla presentazione all’Onu del rapporto di Francesca Albanese “Genocidio a Gaza: un crimine collettivo”).
Sapendo che è inutile, sarebbe interessante che il signor Danon leggesse Carlo Ginzburg. In particolare, “I Benandanti, stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento” e “Storia Notturna. Una decifrazione del Sabba”. Dove si dimostra che i cacciatori di streghe vivevano nella stessa eresia che condannavano.
Sapendo che è inutile, sarebbe interessante che il signor Danon leggesse due testi di Silvia Federici, “Calibano e la strega” e “Caccia alle streghe, guerra alle donne”.
“La strega fu la comunista e la terrorista della sua epoca — un’epoca che necessitava di una spinta ‘civilizzatrice’ per produrre una nuova ‘soggettività’ funzionale alla disciplina del lavoro capitalista… La posta in gioco era distruggere non solo i corpi delle streghe, ma un intero universo di relazioni che erano alla base del potere sociale delle donne, nonché un vasto patrimonio di conoscenze trasmesse di madre in figlia attraverso le generazioni.”
Certo, non serve, perché anche se codesto signore leggesse, non avrebbe alcuna voglia di capire. Bollare una donna come strega dà la misura della persona e della politica che rappresenta.
Non abbiamo molto altro, noi che viviamo di parole, se non le parole stesse. Ma almeno usiamole. Come ha fatto ieri Arundhati Roy, come dovremmo fare tutti. Anche insorgendo chi osa ancora usare la parola “strega”.

Leggevo ieri sera sulla newsletter del Corriere della Sera che molte donne statunitensi stanno lasciando il lavoro. Scrive la sempre brava Elena Tebano: “Almeno 455 mila hanno smesso di lavorare fuori casa solo tra gennaio e agosto di quest’anno, secondo i dati dell’Ufficio di statistica del lavoro americano (che attualmente non vengono più aggiornati, a causa della chiusura del governo americano). Il dato è ancora più alto nel confronto con l’anno scorso: 600 mila donne in meno che lavorano. La Cnn la chiama «She-cession», un gioco di parole tra recessione e «lei» («She», in inglese). Un rapporto della società di consulenza Kpmg parla di «Grande Uscita». Si tratta di una svolta significativa, che inverte una tendenza quasi secolare”. 
I motivi? Mancanza di assistenza per l’infanzia, raddoppio dei costi degli asili nido (per dazi e inflazione), ma anche l’ideologia MAGA che vuole che le donne tornino a fare le donne. A casa.
Riguarda gli Stati Uniti e basta? Macché. In questi giorni mi inviano video di tizi italianissimi che dicono la stessa cosa: le donne tornassero a fare le donne, il femminismo è tossico (seguono varie declinazioni, alcune a opera di garbati, si fa per dire, comici televisivi che si fingono giornalisti), in soldoni è ora di dire basta.
Ce ne stiamo rendendo conto, spero, e spero anche nella consapevolezza che la faccenda sarà lunga, e che magari invece di legnarsi a vicenda bisognerebbe lavorare su questo. 
Tanto per rinfrescarci la memoria. Nelle prime pagine de “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood , Difred sbircia nello specchio del corridoio, si vede riflessa e si avvia “verso un momento di noncuranza identica al pericolo”. Esattamente come sta avvenendo a noi.

Permettetemi il secondo post letterario in due giorni. Ieri sera ho visto la prima puntata di It-Welcome to Derry. Mi sono lasciata prendere fino alla fine. C’era qualcosa che mi disturbava, però, pur nella curiosità e nell’interesse di antica kinghiana. E me ne sono resa conto stamattina, dopo averci dormito su.
Accade quasi ogni volta (quasi) con le trasposizioni cinematografiche o televisive da Stephen King, ed è accaduto anche stavolta. Non bastano i colpi di scena, i mostri, il saltino sulla sedia. Perché dentro la scrittura di King c’è qualcosa che è molto difficile da restituire, tranne in alcuni casi (per quanto mi riguarda, soprattutto Le ali della libertà, Stand by me, Il miglio verde, Misery, L’ultima eclissi,  che non casualmente non sono horror e, Miglio verde a parte, neanche sovrannaturali).
Stavolta il problema è proprio Derry. Esistono città inventate, case inventate, luoghi che esistono solo nella mente di chi scrive e che però riescono a rappresentare il mondo intero. Come gli altopiani di Lovecraft. Come la Hill House di Shirley Jackson. Come le città di King, Derry o Castle Rock, luoghi dove sopra la televisione ci sono i quadri con Gesù e il gregge di pecore, e a volte, come in Tommyknocker, Gesù farà l’occhiolino alla padrona di casa e le spiegherà come uccidere il marito. Ci sono molte lattine di birra e fiere di paese e molti fallimenti. C’è povertà. Ci sono le case mobili dove le ragazze che si sono sposate giovanissime perché incinte mangiano scatole intere di cioccolatini e picchiano i figli, come in Salem’s Lot.  E silenzio. Nessuno parla a Derry, nessuno vede, anche se ragazzi e bambini scompaiono. La città prospera su quel silenzio e con quel silenzio nutre il male che cresce nel sottosuolo. Non funziona così, sempre? Non si prospera forse grazie al silenzio e all’indifferenza? Salvo poi venir distrutti, in un sol colpo, in quel 1985 che vede esplodere Derry mentre, nel mondo cosiddetto reale, Ronald Reagan iniziava il suo secondo mandato.
Ecco. In questa prima puntata della serie non ho visto questo. Non ho visto quel che è più importante in It e derivati: non ho visto che i cartelloni che danno il benvenuto a Derry ma non basta, ma è didascalico, e non ci fa capire quanto gli adulti siano indifferenti nei confronti del terrore. Mi rendo conto che è difficile. Aspetto la seconda puntata, ma intanto, come si immagina, rileggo.

Questa mattina ho letto con la solita avidità la newsletter di Lucy. Sulla cultura Piaceri sconosciuti, dove Nicola Lagioia racconta il mondo editoriale. O meglio, racconta un mondo editoriale che forse non c’è più, o forse esiste ancora o per dire ancor meglio resiste. E’ un bellissimo episodio della newsletter, dove Nicola sceglie episodi di vita personale per decostruire, da dentro, quell’atteggiamento di gioia feroce che serpeggia quando si parla di editoria, come se il cammino in discesa in cui si è avventurata negli ultimi tempi fosse motivo di soddisfazione generale. Faccenda che, pur rendendomi perfettamente conto della situazione, infastidisce anche me.
Ho letto e riletto la newsletter, questa mattina, pensando che sì, le scie luminose ci sono ancora, nel mondo editoriale, che ci si creda o meno. E che esistono ancora le passioni, le follie, gli entusiasmi. Esiste la dedizione, scrive Nicola, anche nella ripetizione. Questo c’è, o non ci sarebbero quei libri che ci fanno passare velocemente, come è successo a me, cinque ore di treno in mezzo a un turbinio di bambini vocianti con Peppa Pig d’ordinanza dai cellulari dei genitori.
Però ammetto di vedere anche altro. Ovvero, l’ombra dei diagrammi a torta. Certo che ci vogliono pure quelli, e certo che l’editoria è fatta di aziende, e le aziende hanno i libri contabili e pure i diagrammi a torta che non ho mai capito, e forse, colpevolmente, mai capirò. E spesso chi invece li maneggia con perizia, e soprattutto proviene da altre realtà aziendali, che producono, che so, caffettiere o rigatoni o maglioncini di lusso, non riesce a capire che quella scia luminosa, quella dedizione, quella capacità di rischiare con un libro che ad altri risulta poco vendibile e dunque turba il diagramma a torta, o i grafici, o quel che volete voi, sono l’essenza stessa dell’editoria, e che non porci attenzione, e amore, e non considerare degne di attenzione e amore le persone che si impegnano in quei gesti di ripetitività che si muovono attorno a un libro, beh, è un bel guaio.

I libri degli altri: oggi si va un po’ di fretta, dunque posto qui la recensione a Il miracolo di Lorenza Sabatino, uscita su Linus nello scorso agosto.
Coi miracoli, certo, si può giocare, letterariamente parlando, come fece Arthur Machen con gli Angeli di Mons, che secondo la leggenda da lui creata apparvero in cielo con grandi ali meccaniche e un lungo arco d’argento, facendo impazzire i cavalli e inginocchiare guerrieri. A permettere la ritirata dell’esercito britannico accorso al fianco di Belgio e Francia, il 23 agosto 1914, sarebbero infatti state le anime degli arcieri che ad Azincourt e Crécy, nel IX secolo, decretarono la vittoria dell’esercito di Re Alfred contro i Normanni, salvando l’Inghilterra. Machen, che era stato corrispondente di guerra, dopo poche settimane dall’episodio scrisse un racconto, The Bowmen (Gli Arcieri) su un quotidiano di Londra. Ebbe un grande seguito, al punto che molti soldati inglesi scrissero di aver davvero visto, fra le nubi, gli angeli giunti in loro soccorso, diafani e pallidi, e circondati da un alone luminoso, che fecero imbizzarrire i cavalli dei tedeschi.
Anche quando non sono truffe o beffe, i miracoli sono sempre complicati, come ben sapeva Niccolò Ammaniti quando scrisse la serie televisiva che parlava proprio di un miracolo classico, una statuetta della Madonna che piange sangue.
Il romanzo di Sabatino, invece, usa un miracolo per parlare sia di dinamiche familiari sia di come si percepisce il miracolato dopo il cambiamento: siamo negli anni Ottanta, a Napoli, in un albergo di Chiaia dove si festeggia un battesimo. Annibale è il proprietario, affiancato dalla moglie Eugenia: il figlio Gerardo desidera solo passeggiare per i boschi, la nuora Luisa è una grande lavoratrice, la quindicenne Mimì vorrebbe altro per sé, e infine c’è un bambino di sette anni, pestifero, di nome Tommaso.

E’ molto interessante leggere i commenti sui social, soprattutto su X, quando provo a parlare di educazione sessuo-affettiva. Bannando gli insultatori o i Bot evidenti, e lasciando perdere gli autori di elzeviri su cui si tace per gentilezza, emerge sostanzialmente una questione: non ci toccate i bambini nostri.
Mi fa abbastanza impressione ripetere da anni la stessa cosa, che poi è una semplice domanda: chi si oppone a quella che viene chiamata ideologia in nome della libertà di educazione è consapevole che l’educazione, per quanto riguarda genere e appartenenza e al di fuori della scuola, non è affatto libera? Che esistono stereotipi che si abbattono su bambine e bambini già dalla nascita? E ancora: perché identificano l’educazione sessuo-affettiva con le drag queen o l’imposizione di una sessualità fluida? Da dove traggono queste convinzioni? Hanno almeno idea di come sono fatti questi corsi? 
I figli appartengono alla vita stessa e alla comunità di cittadini in cui sono chiamati a muoversi. Se le vostre idee verranno accolte dai vostri figli, bene.  Potete discuterne insieme, ma non lasciarli nell’ignoranza. Potete dire la vostra, ma non pretendere che la pensino come voi. La famiglia collabora con la scuola, non può sovrapporsi alla scuola stessa o  contrastarla: altrimenti, care e cari, teneteli a casa (homeschooling, esiste) o scegliete la scuola (privata) che corrisponde al vostro credo, e guardate che non sarete affatto garantiti sul risultato, perché io sono andata a scuola dalle suore ed eccomi qua, novella  satanassa.
Quel che avviene, ed è persino banale scriverlo, è che in uno dei pochissimi paesi europei dove non è prevista l’educazione sessuale e affettiva nelle scuole (con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti) una spaventosa campagna di disinformazione e terrorismo psicologico (sui dirigenti scolastici, sugli insegnanti, sugli stessi genitori che fanno capannello davanti alle scuole chiedendosi “è vero che vogliono fare il gay pride in classe?”) ci ha già rigettato in un passato oscuro, oltre che oscurantista.

Sette anni fa, in una delle ricorrenti aggressioni contro la possibilità di introdurre l’educazione sessuo-affettiva a scuola, si discusse e si discusse. Certo, le destre e il ministro hanno oggi buon gioco a dire che non proibiscono nulla, che vogliono solo il consenso informato e il blocco delle associazioni ideologiche (ahah: e quali sono? chi sono quelle non ideologiche? non è dato sapere). Si discusse e si discusse e poco accadde, perché ci ritroviamo sempre qui, con un gruppo di deputati e movimenti in parte animati dal sacro fuoco del “difendiamo la patria e la cultura”, come mi ha urlato una tizia su X. In parte con un altro sacro fuoco nelle vene, quello della visibilità da ottenere a tutti i costi, perché, ahinoi, certa politica insegue più quella che quello che un tempo si chiamava bene comune. 
Sette anni fa, dunque, intervenne Girolamo De Michele nella discussione medesima. Ed è bene riportare qui parte del suo intervento.
“Se è consentito parafrasare un grande poeta (che è stato anche uno straordinario insegnante), Claudio Lolli: certo che il mantello di don Milani «è sempre in prima fila lì sull’attaccapanni» della sala insegnanti, e il suo fucile «è lì nascosto in quel libro di racconti: però che non diventino ricordi o fantasie, che non sia caricato solamente a sogni». Che lo si armi con una didattica che si rivolge non a singoli individui, ma al comune che apprende (e, why not, contesta e confligge), all’interno di uno stile di vita che al grigiore impiegatizio, alla frustrazione e alla sottomissione, sostituisca la cooperazione sociale: una scuola militante”.

Cosa mi è mancato questa mattina a Pagina3, o meglio: cosa non ho trovato sui quotidiani? Uno scrittore o una scrittrice che commentasse la tragedia di Castel d’Azzano, e che non parlasse soltanto dell’ingiusta, orribile morte dei tre carabinieri, ma provasse a ragionare sulla vita infelicissima dei tre fratelli Ramponi e del mutuo ipotecario firmato nel 2014 che aveva distrutto la loro vita e le loro menti. Mi piacerebbe che questo scrittore o scrittrice avesse raccontato questa storia con lo sguardo che aveva Romolo Bugaro (a proposito di Nord Est) quando ci restituiva la speculazione edilizia in Effetto domino.
Mi piacerebbe anche che lo scrittore o la scrittrice in questione avesse fatto un’altra connessione che riguarda la povertà, e che avesse parlato del settantenne di Sesto San Giovanni che neanche dieci giorni fa si è lanciato dal sesto piano perché sotto sfratto. Mi piacerebbe che si provasse almeno a delineare un quadro più vasto sui terrori e la follia a cui la povertà e la mancanza di tutto e i debiti possono spingere.
Mi piacerebbe che i quotidiani provassero a raccontare anche questo, perché abbiamo bisogno di sguardi che ci costringano a guardare oltre la cronaca secca.
Magari succederà. Magari sta già succedendo.
Ps. Le puzzole sott’acqua vengono da Furore di John Steinbeck, ovviamente.

Cosa possono fare scrittori e scrittrici in giorni come questi? Come possono contrastare la prepotenza, l’espulsione da ogni discorso (oltre che dalla vita) di decine di migliaia di morti? Cosa dire mentre Trump, come scrive Il Manifesto, è volato in oriente per firmare il nuovo piano regolatore di Gaza e regalare a Netanyahu la totale impunità per il genocidio commesso nella Striscia? 
Intanto, far sì che le parole del passato tornino a risuonare oggi. Quella che segue è una parte del discorso di Susan Sontag per l’accettazione del Jerusalem Prize (già) nel 2001 (già).
“Ci preoccupiamo delle parole, noi scrittori. Le parole significano. Le parole indicano. Sono frecce. Frecce conficcate nella ruvida pelle della realtà. E più sono astratte e imponenti, più finiscono per assomigliare a stanze o a gallerie. Possono espandersi o franare. Possono riempirsi di cattivi odori. Spesso ci fanno ripensare ad altre stanze, in cui ci piacerebbe vivere o ci sembra di vivere già. Possono diventare spazi inabitabili perché perdiamo l’arte o la saggezza necessaria per viverci. E alla fine quelle cubature di intenzioni mentali che non sappiamo più abitare verranno abbandonate, sprangate chiuse per sempre.
Che cosa intendiamo, per esempio, con la parola “pace”? Intendiamo forse assenza di conflitto? Oblio? Perdono? O forse una grande stanchezza, un esaurimento, il prosciugarsi di ogni rancore?
A me pare che per la maggior parte della gente pace significhi vittoria. La vittoria del proprio schieramento. Per loro vuol dire questo, mentre per gli altri significa sconfitta.”
“Mentre la parola “individualità” diventa sempre più sinonimo di egoismo, l’incessante propaganda che oggi si fa in difesa dell’ “individuo” mi sembra, infatti, profondamente sospetta. Le società capitalistiche hanno ogni interesse nell’esaltare un’individualità e una libertà, che finiscono per significare poco più che il diritto alla continua esaltazione di se stessi, e alla libertà di fare acquisti, comprare, usare, consumare e rendere obsoleto.
Non credo che la coltivazione del proprio io abbia un valore intrinseco. E credo che non ci sia cultura (e uso il termine in senso normativo) senza un principio di altruismo, di considerazione per gli altri. Credo invece che ci sia un valore intrinseco nell’allargamento della nostra capacità di comprendere quel che può essere una vita umana. Se c’è stato un progetto in cui la letteratura mi ha impegnata, prima da lettrice e poi da scrittrice, si è trattato del progetto di allargamento delle mie simpatie verso altri esseri, altri campi, altri sogni, altre parole, altri territori di interesse.”

DITE, AMICI

Questa mattina a Pagina3 ho letto l’intervista che La lettura ha fatto a Geoffroy de Lagasnerie, Didier Eribon e Édouard Louis. Molte delle cose che hanno raccontato sono presenti in 3.Un’aspirazione al fuori-Elogio politico dell’amicizia, pubblicato da L’Orma quasi un anno fa nella traduzione di Annalisa Romani. Se non lo avete letto, procuratevelo, perché è davvero il racconto di un possibile contropotere, un modo di condividere non solo le idee e la quotidianità ma anche la creatività (un esempio di casa nostra lo abbiamo da anni, con il collettivo Wu Ming). In una precedente intervista a Limina de Lagasnerie ha detto:

“Nella storia, in generale, la creazione artistica e quella relazionale sono spesso unite. Scrivere nuove forme letterarie presuppone avere nuovi legami. La scrittura è di per sé un atto auto-formativo, «Scrivo a modo mio», ma serve anche inventare relazioni che sostengano questa forma di scrittura. Nella nostra cultura abbiamo spesso l’idea dell’artista come di un essere solitario, invece un artista per creare deve circondarsi sempre di amici per avere più stimoli, più visioni. Pensiamo a Sartre e Beauvoir, a Violette Leduc; il consiglio più giusto da dare è «Se volete scrivere, circondatevi di amici».”.

Ora, anche se non si scrive, è interessante e importante recuperare il senso dell’amicizia, che troppo spesso equivochiamo nella nostra vita sui social: dove pure le amicizie nascono eccome, ma troppo spesso si sfilacciano proprio perché non c’è il senso del progettare insieme. 
E qui approfitto per ricordare quante amicizie abbiamo perso negli ultimi cinque anni, prima per il Covid, poi per l’invasione dell’Ucraina, infine per Gaza. Persone che abbiamo conosciuto, frequentato, che ci sono piaciute e che abbiamo amato, e che improvvisamente vediamo lontanissime, su sponde non conciliabili, dove anche parlarsi diventa un’utopia.

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