Categoria: Cose che accadono in giro

Leggendo un vecchio editoriale di Vittorio Giacopini sul ruolo delle riviste (si parlava, nel caso, di Linea d’ombra) penso a chi darà voce alle linee d’ombra di oggi.
Come molte e molti, penso a Gaza. Ma anche a quello che avviene in Italia, al solito binomio piazze piene-urne vuote e mi interrogo, mi chiedo se non avrebbe oggi senso una nuova Bolognina. Ma diversa. Non “socialdemocratica”, non “riformista”. Una “cosa” che riunisca davvero le anime della sinistra, e che magari torni a dare senso a questa parola, “sinistra”, e ponga fine ai mille contorcimenti interni del Pd, che, nonostante la buona volontà, non riesce ad appassionare, a far sentire viva e nobile la politica.
Sono soltanto piccole riflessioni di chi ha sempre amato la politica da quando aveva vent’anni, e continua a farlo nonostante l’irrisione di qualche intellettuale da salotto e da tastiera verso i boomer che guardano con speranza alle giovani persone (loro che giovani, nonostante l’anagrafe, non sono stati mai, ma pazienza).
Quanto il Pd perse le ultime elezioni politiche, scrissi del suo programma elettorale. Dove non c’era solo il famoso elefante di George Lakoff,  ma l’intero corteo degli elefanti rosa di Dumbo (quelli che hanno terrorizzato varie generazioni di bambini con la canzoncina “Son qua… son qua… i rosa elefanti siam”). Nella lunga premessa, infatti, si evocava continuamente la destra, ma non è possibile fare politica seguendo le agende degli altri.
E dunque? E dunque l’astensione non è l’unica via: la via è essere consapevoli che la società che sogniamo dobbiamo costruircela tutti e tutte, e non solo trovarla scritta in un programma. Come diceva Eliot ne Il canto d’amore di Alfred Prufrock, questo l’invito, questo il primo gesto:

Allora andiamo, tu ed io,
Quando la sera si stende contro il cielo

E’ persino superfluo ripetere che è la scuola il luogo dove si formano cittadine e cittadini, dove si educa alla libertà di pensiero e di azione, dove si mettono in atto i primi passi della democrazia.
Bene, ci sono due iniziative, un disegno di legge (numero 1627) e una mozione (numero 7-00309) che sembrano invece prefigurare quell’idea di supremazia dell’Occidente già delineata nelle famigerate indicazioni, dove, nei fatti, si immagina una dicotomia bene-male dove sono altri a decidere dove sia l’uno e dove sia l’altro.
Il disegno di legge è stato presentato in agosto (ed è in discussione in commissione) dal senatore Maurizio Gasparri. Come ha scritto Simone Alliva, “Il testo stabilisce che i ministeri della Difesa, della Giustizia, dell’Interno, dell’Istruzione e dell’Università «promuovano corsi di formazione iniziale e progetti di formazione continua» su cultura ebraica e israeliana, sulla storia dell’antisemitismo «incluso l’antisionismo»: criticare le politiche dello Stato di Israele, dibattere sulle sue scelte internazionali o sulla situazione nei territori occupati potrebbe essere considerato equivalente all’odio razziale. Prevista anche una formazione per le Forze dell’ordine su come redigere verbali di denuncia”.
Veniamo alla mozione. Viene presentata da Rossano Sasso, Lega, e nei fatti intende limitare gli incontri e le riflessioni sull’Islam, lasciando intendere che parlare di Islam significa nei fatti incitare al terrorismo:

“la libertà di insegnamento è sancita dall’articolo 33 della Costituzione italiana, ma non può essere considerata assoluta in quanto devono essere rispettati alcuni limiti per garantire che l’insegnamento sia svolto in modo responsabile e rispettoso dei diritti e delle libertà altrui, in primis esso deve essere conforme alla Costituzione e alle leggi vigenti in Italia, non deve violare i diritti e le libertà altrui, come la libertà di religione, di pensiero e di espressione e non deve incitare all’odio e alla violenza contro persone o gruppi di persone”.

Suona come “il diritto internazionale conta fino a un certo punto” di Tajani, lo so.
Queste non sono iniziative che riguardano solo la scuola: ci riguardano tutte e tutti, e vanno almeno raccontate, diffuse e infine contrastate.

Proprio perché oggi è il 7 ottobre occorre non solo piangere tutti i morti, tutti gli e le innocenti caduti per un disegno a cui sono estranei. E bisogna anche ricordare che nessun orrore giustifica altro orrore, la distruzione di città, l’assassinio di altre decine di migliaia di persone, il genocidio.
Proprio perché oggi è il 7 ottobre so che ogni parola verrà soppesata e molto spesso strumentalizzata, ripropongo  quello che venne scritto, 70 anni fa, in un documento che abbiamo dimenticato, il Manifesto Russell-Einstein.
“Non stiamo parlando, in questa occasione, come membri di questa o quella nazione o continente o fede religiosa, ma come esseri umani, membri della specie umana, la cui sopravvivenza è ora messa a rischio.
Quasi chiunque abbia una coscienza politica nutre forti convinzioni a proposito di una di queste posizioni; noi vogliamo che voi, se è possibile, mettiate da parte queste convinzioni e consideriate voi stessi solo come membri di una specie biologica che ha avuto una ragguardevole storia e di cui nessuno di noi desidera la scomparsa.
Dobbiamo cominciare a pensare in una nuova maniera. Dobbiamo imparare a chiederci non che mosse intraprendere per offrire la vittoria militare al proprio gruppo preferito, perché non ci saranno poi ulteriori mosse di questo tipo; la domanda che dobbiamo farci è: che passi fare per prevenire uno scontro militare il cui risultato sarà inevitabilmente disastroso per entrambe le parti?
Ci attende, se sapremo scegliere, un continuo progresso di felicità, conoscenza e saggezza. Dovremmo invece scegliere la morte, perché non riusciamo a rinunciare alle nostre liti? Facciamo un appello come esseri umani ad altri esseri umani: ricordate la vostra umanità e dimenticatevi del resto. Se riuscirete a farlo si aprirà la strada verso un nuovo Paradiso; se non ci riuscirete, si spalancherà dinanzi a voi il rischio di un’estinzione totale”.

E’ un lunedì diverso dal solito, perché arriva dopo giornate a loro volta molto diverse dal solito. Da cui, qui, traggo una considerazione che è nei fatti una domanda: come reagisce il mondo della cultura e soprattutto della letteratura a quanto sta avvenendo? 
Intendiamoci, le adesioni individuali a quello che è un inizio di (movimento? ecologia?), ci sono eccome. Ci sono da parte di scrittrici e scrittori, e anche di librerie. Ma come altro si interviene? Con i libri? Con i discorsi pubblici? Con quali azioni?
Lascio nell’aria le domande e vi invito a leggere l’articolo di Maria Teresa Carbone sul Manifesto. Articolo importante, uscito lo scorso 2 ottobre,  dal titolo “Librerie e centri di militanza quotidiana”, che mostra come sia possibile percorrere altre strade.
Carbone riporta stralci di un’intervista rilasciata da una libraia, Mathilde Charrier, nella sua veste di coordinatrice dell’Association pour l’écologie du livre.
Vi consiglio di leggerla tutta: perché rende giustizia a tutte e tutti coloro che sostengono da anni che la sovrapproduzione di titoli è dannosa per ogni frammento del sistema editoriale, che, come dice Charrier, è “basato fin dagli anni ’80 su una crescita irragionevole della produzione”:
“Oggi, in Francia, durante l’anno, vengono pubblicati in media trecento nuovi libri al giorno, in tutti i settori editoriali. Dal punto di vista ecologico, questa produzione non ha senso, poiché tutti i libri invenduti finiranno, nella migliore delle ipotesi, in magazzino, ma più spesso al macero L’attenzione rivolta alle uscite letterarie di settembre e gennaio corrisponde, a nostro avviso, a un tentativo di svendere una produzione eccessivamente ampia”.
Quest’anno è stata lanciata una tregua sulle nuove uscite, e ha funzionato.
Quel che possiamo dedurre è che un altro mondo editoriale è possibile, che fare rete non è un’utopia e che non dobbiamo in alcun modo ritenere che il predominio dei filoni, delle ripetizioni e dell’imperativo dei grandi numeri sia inamovibile. Ovviamente, con tutto il rispetto e anche il piacere nel leggere libri più lievi: ma senza uccidere in culla tutto il resto, che si chiama bibliodiversità.
Pensiamoci su.

Era il 2011. In un suo intervento, Wu Ming 1 disse:
“In Italia come in poche altre nazioni, non c’è nulla di più facile che spingere l’impoverito a odiare il povero”.
In queste ore ne abbiamo la riprova. Basta dotarsi di pazienza e andare a leggere le decine e decine di commenti contro “il weekend lungo” (definizione con cui la presidente del consiglio ha bollato le manifestazioni spontanee e organizzate nella maggior parte delle piazze italiane contro il sequestro dell’equipaggio della Flotilla): a scagliarsi contro gli scioperanti sono piccoli e medi imprenditori, indignati contro “i lazzaroni” (cit. da un’imprenditrice bresciana) e quelli che non hanno voglia di lavorare, e, ancora una volta, “i figli di papà” (cit., di nuovo, dalla presidente del consiglio). Dire che non sanno di cosa parlano è ovvio, ma non serve: in molti casi ripetono le parole dei personaggi che vengono invitati in televisione non a ragionare ma a inanellare slogan contro il nemico di turno ( e, scusate tanto, in molti casi i figli di papà sono proprio loro). In moltissimi altri casi c’è solitudine, c’è disperazione, anche, c’è la povertà vera e non semplicemente l’impoverimento: solitudine e disperazione e povertà che fin qui non sono stati intercettati dalla politica, in tutta onestà. 
In questi commentatori, quando non siano bot aizzati dalle varie “bestie” social della destra, c’è una domanda comune: perché non scendete in piazza per noi?
Quello che sfugge è che scende in piazza in queste ore lo fa anche per loro: certo, la prima e urgentissima istanza è per far sapere  che si sta compiendo un genocidio, negato ancora e al più travestito da un “piano di pace” quanto meno dubbio. Ma anche per far sentire una voce comune, finalmente collettiva, contro la deriva autoritaria che investe l’Italia e mezzo mondo. Perché la vostra infelicità, o il vostro impoverimento, non è colpa dei manifestanti, non è colpa degli immigrati, non è colpa dei “comunisti”  e di coloro verso cui è facile indirizzare l’odio. E’ colpa di qualche decennio di scelte politica sbagliate, dal Berlusconi che si vantava “Nelle mie aziende non c’è mai stata un’ora di sciopero”, a Monti, a Renzi, a Draghi, e ora a Meloni.
E ora chi è in piazza prova a ripetere questo, che tutti e tutte hanno diritto di vivere una buona e bella vita. A Gaza, in Ucraina, ovunque ci sia una guerra (e sarà presto molto vicina), e anche in Italia. Già.

Dunque, oggi esce per la terza volta Mozart in rock (lo ripubblica Tlon, con una bellissima copertina): è ancora attuale a distanza di oltre trent’anni? Direi proprio di sì: ma se un giorno uscirà per la quarta volta forse bisognerà fare altre considerazioni.
Provo a spiegarmi.
Nel 1990 scrissi Mozart in Rock a pochi mesi dal bicentenario dalla morte di Mozart. Occasione a parte, si era nel pieno di un dibattito sulla fruizione della cultura negli anni della postmodernità. E quel libro si ostinava, tramite Mozart, a ritenere il nomadismo dei saperi una forma di conoscenza non meno legittima (e spesso non meno elevata), e a indagare incroci, crossover, mondi che appaiono tra i flutti, anche se destinati ad essere inghiottiti prima di poter diventare Atlantide.
Il nomadismo dei saperi è quello che mi ha sempre attratto, così come mi sono sempre interessata della diffusione della cultura attraverso canali imprevisti. Ci credo ancora, ma pongo una questione, che sviscererò nei prossimi giorni insieme a un’altra scrittrice.
Ovvero: quanto quel nomadismo, allo stato attuale, viene insidiato dal mercato? Perché le cose sono cambiate ancora, e cambiano settimana dopo settimana. Quanto il mercato, oggi, fagocita quella libertà dei saperi condivisi e ne fa una regola? Perché una cosa, per dire, sono le tazzine con la faccia di Mozart o il profilo di Jane Austen. Un’altra cosa è sostenere che Fedez vale quanto Mozart e il best seller romance in testa alle classifiche vale quanto Jane Austen. Tutto non è uguale a tutto, e sostenere la legittimità della fruizione popolare non significa perdere di vista il valore artistico. Ma questo è un discorso lungo, appunto (quanto necessario e importante nel momento in cui i saperi sono stati appiattiti).
Sono ancora convinta che l’accademia e la critica sono indispensabili per restituirci il pensiero e l’opera di un autore o autrice. Ma che il cosiddetto pop aiuti a veicolare quegli autori e quelle autrici: magari avvicinando, in un passo successo, all’accademia stessa. Purché non si confonda il discorso sulla qualità, però.
Buon vento a Mozart, dunque.

Tranquilli, non vi tocca il post di analisi del voto, o il mea culpa di sinistra e tutto quello che immaginate dopo la vittoria delle destre nelle Marche.
Vi tocca un post di memoria, invece.
Dire che ero certa del risultato elettorale di ieri  pare un’ovvietà. Ma non lo sapevo perché in possesso di misteriosi sondaggi segreti: lo sapevo perché ricordo tutto quello che è successo nelle Marche dopo il terremoto del 2016. E così come so bene che ha saputo sfruttare il sacrosanto malcontento con promesse e fondi l’attuale commissario alla ricostruzione Castelli, gran regista di queste elezioni, secondo alcuni futuro governatore dopo Acquaroli.
Lo sapevo e potete saperlo anche voi se avete la pazienza di andare a rileggere le circa duecento Storie dai borghi con cui dal 2016 in poi provavo a raccogliere la voce delle persone che avevano perso casa, salute, speranza.
Ricordo la querela minacciata da Ricci a una terremotata di Muccia. Ricordo l’indifferenza dell’allora governatore Ceriscioli verso i boiler che non funzionavano, e la parola “sciacalli” gridata ai terremotati dalla sua vicepresidente Anna Casini. Ricordo i soldi investiti in pubblicità per il turismo.
Certo che le destre sono peggio. Certo che le destre, in questa campagna elettorale, hanno promesso l’impossibile, sono state ultrafinanziate e hanno ultrafinanziato. Certo che hanno cavalcato e cavalcano il risentimento verso gli immigrati, come e più di prima.
E infine, certo che avrei votato Ricci se avessi la residenza delle Marche, pur di non infliggere ai marchigiani altri cinque anni neri. Ma lo avrei fatto con lo stomaco sottosopra: e quello che vorrei è che la memoria comune, specie di chi sceglie i candidati, fosse nitida. Vorrei che non si andasse nei territori solo in campagna elettorale. Vorrei che fosse chiaro che le persone non dimenticano: magari credono, forse ingenuamente, a chi oggi promette. Ma come fanno a credere a chi non li ha ascoltati?
Nel 2017 un uomo che sa ascoltare, Tomaso Montanari, diceva: “Dobbiamo pensare che quei luoghi possono aiutare noi, e non viceversa. Bisogna rivoltare il nostro punto di vista. Ci vuole veramente una rivoluzione”.
Fin qui, non c’è stata. E che peccato.

Un lungo post sulla questione delle saghe “al femminile” dove, in risposta a un intervento di Francesca Giannone, provo a spiegare perché “abbiamo un problema”.
Perché la cannibalizzazione dei filoni ha avuto almeno tre precedenti: dopo l’uscita di Gioventù cannibale, nella seconda metà degli anni Novanta, quando ogni editore cercava il suo cannibale, o pulp a seconda di come veniva chiamato, purché fosse giovane e “disturbante”, qualunque cosa voglia dire. Dopo l’uscita di Harry Potter, quando la letteratura per ragazze e ragazzi è stata invasa da protagonisti un tempo osteggiati, e dunque bambine e bambini con poteri magici e animali fantastici al seguito. Dopo Twilight, quando non c’era editore che non pubblicasse storie, in genere d’amore, con vampiri, licantropi, zombie (giuro) e tritoni. 
Nei tre casi, una volta finita la sbornia, nessun editore voleva sentir parlare di questo tipo di romanzi: non vende più, era quasi sempre la risposta.
E perché questa non è una questione di genere, né letterario né di appartenenza di chi scrive: è una questione di mercato. E il mercato editoriale riguarda, o dovrebbe, tutte e tutti coloro che intorno ai libri gravitano. Perché chi scrive e chi legge forse dovrebbe sapere come funziona. E tutte e tutti dovremmo porre attenzione a quella che si chiama bibliodiversità. Certo, in primis dovrebbero farlo tutti gli editori: che, mi rendo conto, sono aziende e devono vendere, e vendere il più possibile in tempi in cui d’abitudine non si vende niente, o molto poco. Ma, come mi ha scritto un’amica geniale, tropizzare i libri è un guaio grosso: e se si spinge (a Francoforte, per esempio) solo un tipo di romanzo, sì, abbiamo un problema. A meno, certo, di non occuparsi soltanto delle proprie vendite: il che è molto legittimo e in alcun modo condannabile. 
Per chi, come me e altre e altri, osserva il mondo editoriale, però, indossare le vesti di Cassandra come da un decennio a questa parte entra in quel che si chiama lavoro culturale: perché alla fine i filoni si asciugano. E prima che questo avvenga, può succedere che fra decine e decine di titoli di quel filone non si riesca più a distinguere fra l’uno e l’altro.
(Le risposte non sono facili, le domande necessarie. Le pozzanghere c’entrano, come spiego alla fine)

Allora, non è la prima volta che la premier gioca la carta del vittimismo, come ha fatto in queste ore a proposito della Global Sumud Flotilla, accusata di utilizzare “la sofferenza del popolo palestinese per attaccare il governo italiano” (ehm, è una missione internazionale), e protestando per il fatto che in molti “mi accusano di essere complice di quello che accade a Gaza, che ho le mani sporche di sangue, che sono un’assassina”. Aggiungendo di non aver mai usato un linguaggio simile  quando stava all’opposizione e qui per carità cristiana rimandiamo alla rete che serba memoria.
Ricordo soltanto quello che avvenne mesi fa, quando Meloni bacchettò  Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione familiari delle vittime della strage di Bologna, ribadendo che è grave sostenere che le “radici di quell’attentato oggi figurano a pieno titolo nella destra di governo”. Si potrebbe rispondere, citando una frase di Tolkien che Meloni ha deformato a proprio uso e consumo, che le radici profonde non gelano. Più semplicemente, è vero che il neofascismo degli anni Settanta e il postfascismo degli anni Venti non sono identici: ma è molto difficile negare che siano due lingue della stessa fiamma (non è una metafora).
Il problema che il vittimismo governativo funziona come ha funzionato la campagna elettorale che ha portato all’elezione di Meloni: perché chi li vota non aspetta altro che di essere rassicurato sul fatto che la colpa è sempre, sempre degli altri, e mai sua.

Fra pochi giorni si vota nelle Marche, e chissà come andrà. Oggi, in uno di quei prevedibili avvitamenti della sinistra, ma anche degli osservatori e commentatori della sinistra, si riflette non su un punto chiave, ovvero la presenza della sinistra medesima nei territori, che con qualche eccezione recente sono stati abbandonati alla destra che avoca a sé anche le sagre e le tavolate un tempo semplicemente popolari, ma su come si vestono le donne di sinistra. In questo caso la sindaca di Genova, Silvia Salis, rea di aver indossato un abito “da sirenetta” per i suoi 40 anni. Era accaduto anche con Elly Schlein ai tempi dell’affaire armocromista.  Mancano soltanto, ma arriveranno, i rimpianti per Moro che passeggia sulla spiaggia in giacca e sulle borsette di Nilde Jotti. 
Che poi, basterebbe leggere il bellissimo “Ersilia e le altre” di Lucia Tancredi, appena uscito per Ponte alle Grazie, per capire che anche Anna Kuliscioff amava gli scialli di cashmere, le sottovesti di seta e i vestiti di Rosa Genoni, senza che questo sottraesse niente al suo pensiero e al suo essere vicina al popolo.
Sì, si chiama populismo. Che è una cosa molto diversa dall’essere vicini al popolo: perché essere vicini “al popolo” significa andare nelle periferie e non soltanto a tagliare nastri e inaugurare luoghi arcani come avviene dalle mie parti. Essere vicini al popolo significa prendere i mezzi pubblici, andare al mercato e al supermercato, andare in un pronto soccorso fra i pazienti che aspettano per ore o chiedono un appuntamento che verrà assegnato fra mesi se non anni, parlare con le persone, ascoltare le persone, prendere posizione, rischiare, sbagliare, ricominciare, sbagliare di nuovo, provare a capire, restituire.
E sinceramente se si fa tutto questo in abito di raso o in jeans e maglietta poco mi interessa. 
E, sì, l’esibizione di purezza mi ha stufata: preferisco quelli e quelle che sbagliano, anche perché in genere le patenti di purezza vengono autoattribuite da chi se ne sta a casa sua, e non fra il popolo.

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