CELEBRITY

Per esempio. Mi raccontavano giusto ieri che in alcuni negozi di biancheria intima i tre volumi delle Cinquanta sfumature fanno bella mostra fra calze e tanga. Alt. Fermi. Buoni. Se pensate che da qui partirà la tirata della femminista moralista e avete già smesso di leggere, mi dispiace contrariarvi: perché  trovo l’idea ottima.  Di più: andrebbe estesa. I romanzi di Kawabata  nei take-away di sushi e  Mrs Dalloway nei negozi di fiorai sarebbero assai auspicabili, in un’ipotetica collaborazione con la libreria più vicina al fioraio e al sushi-bar.
Perché la questione della visibilità, sottolineata in uno dei commenti al post di ieri, non è affatto secondaria quando si parla di numeri e di successo di vendita: se si tirano cinquecentomila copie di una trilogia, è molto difficile non vederla. Non sempre vedere è sinonimo di acquistare, ma aiuta parecchio.
Discorsi obsoleti ai tempi di Internet? Forse sì. Ma anche essere visibili in rete, quando si parla di libri, è difficilissimo, come ricordava quest’estate Ewan Morrison sul Guardian.  Morrison è uno scrittore inglese che ha deciso di mettere in pratica i consigli del bravo autopromotore, in compagnia di alcuni colleghi spinti al marketing fai da te dai propri editori.  Dunque, cosa fa? Intanto,  cerca di capire come funziona davvero una delle prime regole dell’autopromozione via web, quella dell’ 80/20, secondo la quale (parola dei vari guru) un autore deve trascorrere il 20% del proprio tempo a scrivere e l’ 80 ad autopromuoversi su Facebook e Twitter. Ma di questo 80%, viene specificato, solo il 20 deve essere impiegato a lodare i propri libri, per non offendere troppo gli eventuali acquirenti: dunque, l’ 80% dell’ 80% va utilizzato per parlare di quel che ai navigatori piace. Gatti. Cibo. Sport. «Quanto tempo resta per scrivere? Dal momento che molti autori autopubblicati hanno un lavoro, tre ore al giorno. 1095 ore l’ anno. Se le riduciamo a quel 20% da dedicare alla scrittura, 219 in un anno. Diciotto giorni».
Ammettiamo che siano sufficienti, e proviamo a utilizzare la maggior parte del tempo sui social media, cominciando da Twitter. «Solo il 10% dei tweet vengono ritwittati», scrive Morrison. Colpa dell’ utente? È quello che viene sostenuto dalle compagnie di marketing che si sono trasferite in rete e che propongono di insegnarti a usare Twitter per centinaia di sterline, o di farlo al tuo posto: cinque tweet al giorno da cinque account diversi. 29 dollari al giorno, 10.000 sterline l’ anno. Non funziona ancora? Ti viene consigliato di «innescare gli algoritmi di Amazon», cercando di ottenere trenta o cinquanta o cento recensioni favorevoli. «Te lo spacciano come un trucchetto segretissimo, ma il concetto è quello di contattare tutti i tuoi amici di Facebook chiedendo loro di postare recensioni», scrive ancora Morrison. Peccato che non funzioni: «Finchè “facebolla” controlla le tue azioni online, non importa se hai mille amici o cento, vedrai gli aggiornamenti solo di due dozzine di persone che hai recentemente contattato». Insomma, il rischio è di rivolgerti ai compagni di scuola e ai parenti, e di sprecare il tuo tempo a vendere non più di dieci libri. Puoi fare altro. Comprare annunci a pagamento su Facebook («un mio collega, in due mesi, ha ottenuto 490 “mi piace” e venduto tre libri»). Uno studio Reuters, inoltre, dimostra come quattro utenti Facebook su cinque non abbiano mai comprato nulla dopo aver letto un annuncio o un commento. «Facebook non è in grado di monetizzare i suoi novecento milioni di utenti. Come dice Pat Kane, l’ idea di trasformare Internet in un business è un terribile equivoco». Certo, puoi insistere. Puoi comprare recensioni per Amazon: «su Fiverr c’ era un annuncio di questo tenore: “scrivo due recensioni da due account diversi per cinque dollari, su qualsiasi testo”. Uno dei miei editori è stato avvicinato da una compagnia che gli ha offerto trenta recensioni per cento sterline». Puoi anche provare la via della parziale gratuità: «un altro collega ha pubblicato un libro gratis e ha ottenuto 700 download in quattro ore. Il giorno dopo ha dato un prezzo al libro, 4,99 sterline. Nelle successive tre settimane, non ha venduto neppure una copia». Ci sono i dati, del resto: anche se le vendite degli e-book crescono del 366%, nel 2011 solo settanta autori self-published hanno venduto più di 800 copie al mese. La metà degli scrittori autopubblicati guadagna meno di 500 dollari l’ anno, 320 sterline, 87 pence al giorno. «Se scendi in strada tutti i giorni con il tuo libro in mano e provi a venderlo a 88 pence, guadagni di più». Di fatto, denuncia Morrison, nella “nuova” self-editoria si ripropone lo stesso meccanismo di quella tradizionale: pochi che vendono molto, molti che vendono pochissimo. La differenza è che le multinazionali della rete possono capitalizzare milioni di piccole vendite da milioni di piccoli autori. E allora? «Vuoi spendere l’ 80% dell’ 80% del tuo tempo parlando di gatti su Facebook nella speranza di incrementare del 2% le vendite di un libro che hai scritto in diciotto giorni e facendo propaganda all’ industria dei social media?O vuoi essere al cento per cento uno scrittore?».
Come per quanto riguarda la scelta di far parte o meno della schiera di autrici al lavoro di cui parlava ieri Donnini, massimo rispetto per chi intraprende una o l’altra delle strade. Basta saperlo.

3 pensieri su “CELEBRITY

  1. Credo che i fondatori di Facebook, ebay e Amazon abbiano capito esattamente come trasformare la rete in un business, e anche piuttosto grosso.
    Pare che Facebook abbia superato i 3,8 miliardi di dollari di raccolta pubblicitaria nel 2011. Solo che non ha nessun interesse nel dividerli con gli inserzionisti e/o preoccuparsi del ROI degli investimenti di questi.
    Oltre al tuo gustosissimo esempio delle cifre percentuali (80% dell’ 80%) che indica un dato quantitativo, vorrei aggiungere che, per un autore, non basta acquistare recensioni o passare del tempo sui social network a parlare di gatti, cibo e sport, perché in tutto questo, manca la costruzione di un’autorevolezza che, invece, è il motore del Word of mouth (il vecchio passaparola).
    Sono quindi d’accordo che un’autore dovrebbe concentrarsi al 100% sul testo, perché indipendentemente dalla promozione, è la performance che conta. E in questo caso, stiamo parlando di libri, di storie.
    Penso che, tra qualche anno, non ci sarà velo tra la vita reale e quella digitale e che i nuovi autori saranno in rete più o meno ciò che sono al bar. E forse l’attenzione sarà riportata sul contenuto. O sui gatti.

  2. Cara Lipperini,
    Se da una parte mi pare ovvio che gli scrittori di oggi, se vogliono essere davvero espressione del proprio tempo, dovrebbero conoscere e usare gli strumenti social – primo fra tutti il blog – dall’altra il problema dell’equilibrio non e’ affatto banale.
    Una prima domanda e’: quanto vogliamo/dobbiamo dedicare, come scrittori, alla presenza online?
    La seconda domanda e’: siamo proprio sicuri che bisogna usare i social network per fare promozione? Lo scopo non dovrebbe essere, invece, “to share” e “to connect”?
    Non ho risposte precise al momento, prima o poi ne parlero’ su Scrittore Computazionale, quello di cui sono sicuro e’ che quando parliamo della presenza online dello scrittore stiamo assumendo che:
    1) Lo scrittore scrive.
    2) Lo scrittore scrive un’ottima storia.
    Senza 1 e 2, la discussione sui social network non ha piu’ molto senso.
    Arturo
    Ps: perdona l’assenza di accenti e l’eccesso di apostrofi. E’ tutta colpa della tastiera tedesca.

  3. Personalmente, un solo libro in vendita in maniera totalmente de-contestualizzata (senza che in qualche modo si riesca ad entrare in contatto col suo contenuto, con l’autore, col mondo stesso del libro), è difficile da capire. Andrebbero bene le agenzie di viaggio che vendessero anche libri di viaggio ad esempio, o come già si vede nelle enoteche, i libri di enogastronomia… ‘bibliotechine’ su certi argomenti, ovunque, e la loro vendita. In un contesto, e soprattutto in varietà. Ovvero vari libri in tema, secondo i gusti del negoziante.
    Ma la visibilità per un libro, ottenuta con la sua distribuzione nei posti più impensati, a tappeto, con colonne di 2 metri quadri di base, in locali che ospitano tutt’altro, ha il problema secondo me che non dice nulla sul contenuto. Che sarebbe la vera ‘cosa’ in vendita. Allora il libro diventa un oggetto, e già ci sono le scatole-libri, le tende-libri, i contenitori-libri, ecc. Insomma, i libri possono stare ovunque, un solo libro no.

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