Esempi di discussioni di cui avere profonda nostalgia. Da Storia di una cassetta degli attrezzi, a proposito di Un’ambigua utopia. Antonio Caronia e Giuliano Spagnul.
Con la fantascienza non pensavamo di evadere dalla prigione, ma di distruggere quella prigione, o per meglio dire, di avere uno strumento in più per farlo. Il fatto è che eravamo convinti che la fantascienza fosse la forma narrativa più adatta ad esprimere la sensibilità di una società industriale matura. Ballard l’aveva detto prima di noi, sin dai primi anni Sessanta, e restò fedele sino alla fine a questa convinzione, anche quando ormai non scriveva più fantascienza. Nella sua autobiografia, scritta l’anno prima di morire, nel 2008, diceva:
“Io pensavo allora, e lo penso ancora adesso, che da un certo punto di vista la fantascienza sia stata la vera letteratura del XX secolo, e che abbia avuto una grande influenza sul cinema, la televisione, la pubblicità e il design dei prodotti di largo consumo. Oggi la fantascienza è il solo luogo dove sopravvive il futuro, come la fiction televisiva in costume è il solo luogo in cui sopravvive il passato ( I miracoli della vita, Feltrinelli, Milano 2009, p. 162)”.
La fantascienza era il tipo di letteratura che meglio esprimeva la mediazione fra natura e cultura messa in atto dalla società industriale, ma proprio per questo era anche quella che meglio ne esprimeva la crisi. Se nei primi decenni del Novecento il suo immaginario era un inno alla tecnologia come prolungamento potenzialmente infinito dell’uomo e delle sue capacità, con Ballard, con Dick, con il primo Vonnegut, più ancora forse con la visionarietà barocca di William Burroughs, cominciava ad emergere un’altra visione e un’altra pratica, con cui la fantascienza avrebbe accompagnato la trasformazione dell’economia e della società in senso postfordista, registrando e proiettando la crisi di quel modello titanico e prometeico, cantandone il tramonto e l’avvento di nuove preoccupazioni e di nuovi scenari dell’immaginario, quelli che poi si sarebbero espressi negli anni ottanta nel movimento cyberpunk (che della fantascienza fu in effetti il canto del cigno).
Ma, paradossalmente, era proprio la sua nascita “sporca”, erano i pulp americani degli anni venti e trenta, era la sua impossibilità di aspirare a natali più nobili (una scorsa ai pretesi ascendenti storici, a partire da Luciano di Samosata, si commenta da sola), era tutto questo che ai nostri occhi rendeva la fantascienza suscettibile di un ventaglio di approcci estremamente variegato. In quella discarica di immondizia in cui ci si poteva imbattere in rifiuti tossici per lo spirito, per la razionalità o per la semplice igiene fisica e mentale, con i suoi superuomini, mutanti, alieni e invenzioni altamente improbabili, in quella sorta di fiera del cattivo gusto estesa a dimensioni galattiche, qualcosa tendeva però ad emergere in superficie urlando la propria indisponibilità alla salute del mondo. Un mondo malato che necessitava disperatamente di un pharmakon in grado di salvarlo.Una componente indispensabile di quel pharmakon si trovava proprio in quel monte di immondizia,tra quella nauseante puzza di rifiuti.
I seguaci della fantascienza, i sacerdoti e i semplici devoti di quel monte, hanno saputo vedere la componente salvifica di quell’enorme simulazione della messa in crisi del mondo e di tutte le possibili forme di cura dello stesso. Assecondare la lacerazione del tessuto della realtà per evidenziarne i punti di rottura e porvi rimedio. La fantascienza, al contrario del fantasy, non costruisce altri mondi in cui trasmigrare, lasciando andare alla deriva quello che si abita realmente. È terribilmente gelosa della propria appartenenza terrestre. La datità è il grande Moloch a cui si sacrifica, e se la mette in discussione è solo per meglio rafforzarla. Ma è un gioco sul filo del rasoio, e alla lunga questo mettere in crisi per risolvere produce come scarto un’ansia che si accumula sempre più, fino a trasformarsi in vera e propria paura senza riscatto. Alcuni autori, o semplici appassionati come noi, hanno intravisto, poco importa quanto consciamente, come questo vero e proprio sintomo della crisi del mondo fosse sottovalutato e usato male, e da alleati della cura ci siamo fatti alleati della malattia.
D’altra parte questo fu l’uso della fantascienza che non proponemmo, alla fine degli anni settanta, solo noi, ma tutto un nutrito settore della cultura underground, e anche alcuni filosofi visionari e radicali come Baudrillard. Se la fantascienza di Dick, di Ballard, di Burroughs, ebbe la capacità di distanziarsi dal suo tempo per vedere i germi di un futuro che si stava preparando e che presto non sarebbe più stato futuro, ma onnipresente presente, se seppe “ricevere in pieno viso il fascio di tenebra che proveniva dal suo tempo„ (per usare un’espressione di Giorgio Agamben) senza indulgere ad alcuna tentazione salvifica, fu perché essa sapeva vedere nel contingente il suo rovescio, fu perché sapeva rovesciarne il linguaggio. Perché sapeva mentire. Perché sapeva costruire degli obbrobriosi falsi, e in questi falsi sapeva illuminare di luce obliqua e radente la verità che pareva nascosta, e invece era lì, a disposizione di chiunque volesse vederla.
Il valore della fantascienza, anche di quella più miserabile e rattoppata, consisteva in fondo in due punti fondamentali. In primo luogo, essa minava – a volte apertamente scardinava – la nozione più ristretta di “realtà„, metteva in dubbio che la realtà potesse identificarsi con l’esistente,reintroduceva a vele spiegate il possibile come irrinunciabile elemento costitutivo del reale (secondo un programma già espresso anche da Robert Musil negli anni trenta). In secondo luogo la fantascienza, traducendo in termini molto accessibili la crisi del soggetto narrante impersonale e onnisciente su cui si basava il romanzo realistico ottocentesco, introduceva nella narrazione il punto di vista del futuro (o del passato, o del presente alternativo): ma così facendo contribuiva a mettere in discussione la neutralità della narrazione, e mostrava più in generale che ogni discorso viene enunciato da un luogo preciso, da un tempo determinato, da un corpo concreto. E che quindi è illusorio – e quasi sempre mistificante, e prevaricante – assegnare a certi racconti, a certi saperi, a certe enunciazioni, un valore assoluto e universale, svincolato dalle condizioni storiche econtingenti delle narrazioni, dei saperi, delle enunciazioni. Che ogni sapere ha (per usare il terminedi Foucalt) un’epistéme, che ogni discorso è prodotto da una “formazione discorsiva„. Che ogni conoscenza è “situata„. Le stesse cose che, più o meno negli stessi anni, andava scoprendo il pensiero femminista, per rivelare le mistificate radici maschili e fallocentriche del pensiero occidentale. E questo lega la fantascienza (nella sua accezione più radicale e davvero immaginativa)alla critica corrosiva del fake, alle identità immaginarie e collettive, alla guerriglia mediatica. Che è quella che praticò per breve tempo il movimento studentesco del 68 a Parigi come a Roma e a Berlino (prima di finire frantumato e immiserito nella diaspora dei presuntuosi e impotenti gruppettidella sinistra sedicente “rivoluzionaria„), quella che continuò a vivere con l’endemica rivolta dei giovani operai italiani ed europei per tutti gli anni settanta – nella quotidiana ricerca di invenzioni per realizzare il rifiuto del lavoro, quella che deflagrò come pratica condivisa e unica forma possibile di insurrezione in Italia tra la fine del 1976 e il marzo del 77.
Papini praticava la fantascienza affrontando il tragico quotidiano come un pilota cieco,spesso non potendo fare altrimenti.Esemplare in tal senso quel suo racconto in cui un vanaglorioso nerovestito(eravamo nel 40.Ma non faticherebbe a trovare casi similari,mascherati da cravatte diverse nel nostro presente)si presentò a casa sua proponendogli l’abbattimento di tutte le forme di vita,a suo parere parassitarie,esclusa quella umana,lasciando che lo stesso di fronte al suo diniego rifece le scale al contrario chiedendosi,per interpolarci con flaiano, cosa non fosse stato apprezzato del suo ottimismo
ottimo articolo,complimenti
Non ho la preparazione adatta per dissertare, diciamo così, ontologicamente sulla fantascienza.
Quel che so da lettore è che un romanzo di fantascienza – grosso modo come quelli horror – accendono le grandi domande filosofiche. E’ come aprire uno squarcio all’interno del nostro io che altrimenti ci resterebbe precluso.
Cosa accadrebbe se? Forse questa è una delle domande fondamentali.
Qualsiasi lettore avrà notato come i “futuri” prospettati dalla syfy siano perlopiù delle distopie, anche quando sono presentati come utopici, in realtà ciò che scoprono i protagonisti è il marciume che si nasconde dietro quei sistemi.
C’è quindi una sorta di bisogno morale dietro la syfy. Anche un grido di dolore, talvolta, quando è impossibile sfogare altrimenti le nostra necessità.
E’ un bellissimo giocattolo. E penso che, attraverso la manifesta bugia che è alla base di ogni forma d’arte ivi compresa la letteratura, possa fornire delle risposte non certo definitive ma alquanto stimolanti per la nostra crescita come esseri umani.
da lettrice – non certo da critico – ti dico una cosa ,Ekerot : l’horror – in senso ampio – ha a che fare con il porsi del sè nei confronti dei vari gradi e passaggi dell’ esistenza . in questo senso l’horror è solipsistico perchè presuppone esclusivamente il sè nella sua interiorità e nel suo evolversi( o involversi) in senso autonomo. la fantascienza è già un gradino più avanti ( in senso ontologico) in quanto presuppone il sè nel suo relazionarsi con la realtà esterna e con la percezione di questa mediata dalla costruzione filosofica che sempre – anche in quella di bassa lega.. – la sottende. Non so se tutto questo favorisca la crescita di quegli esseri umani appassionati di parole.. Ma certo offre una formidabile chiave di lettura che – in un verso o nell’altro , letteralmente – ci conduce verso una o l’altra interpretazione della realtà . Certo supporta il nostro stare al mondo come soggetti rielaboranti e non solo come ricettacoli di passività.
Serena, sono d’accordo con la tua osservazione, anche se ovviamente esistono valide eccezioni alla norma.
L’horror, in quanto esplorazione delle paure più profonde e radicate all’interno dell’io, si manifesta in una dialettica tra eroe e mostro, in cui il mostro quasi mai ha valenze “sociali” (intendendo le relazioni, i sistemi di potere su larga scala, etc…).
La fantascienza riesce ad andare oltre, come scrivi tu. E poi, secondo me, esiste anche un altro fattore che rafforza il suo fascino: la sua natura “profetica”. Se io vedo “Blade Runner” io ho l’occasione di osservare uno dei futuri possibili, un futuro nero, ma assolutamente credibile. E immediatamente nasce in me l’angoscia, la rabbia per evitare che quel destino si avveri. Detto molto banalmente, la syfy ci spinge ad essere migliori (come tutta la buona letteratura, ma con una marcia in più).
Non so se sia stata l’idea di poter avere una “profonda nostalgia” per una discussione datata 2010 a farmi provare uno strano senso di sfasamento temporale, come se io e Antonio avessimo scritto quella “Storia di una cassetta degli attrezzi” quarant’anni invece di soli quattro anni fa. Fatto sta è vero, sono vecchio e Antonio da sei mesi non c’è più. Con lui ho “nostalgicamente” discusso ancora solo l’anno scorso nell’introduzione alla ristampa di “Nei labirinti della fantascienza”, in cui vedevamo nell’irriducibilità delle nuove lotte, nella resistenza dei ragazzi (nel bene e nel male senza più utopie), una rinnovata capacità di creare conflitto. E’ nostalgico tutto questo? Con autentica nostalgia riporto una dedica di Antonio sul frontespizio di un libro: “Sai che niente esiste naturalmente? Sai che ogni cosa che esiste, esiste solo in virtù di una sfida che ad essa è lanciata, e a cui essa è obbligata a rispondere?” Tanti anni sono passati, le utopie sono finite, la domanda, per fortuna, resta.