CERCANDO UN ALTRO EGITTO, O COMUNQUE UN'ALTRA STRADA

Per il commentarium non presente su Facebook, segnalo una discussione, una bella discussione, avvenuta ieri pomeriggio. Lo status è questo:
“Franco Fortini diceva che bisogna combattere i draghi, non le lucertole. E aveva ragione. Ma i draghi, temo, si sono estinti, e in compenso le lucertole si moltiplicano e pensano di avere le ali e di sputare fiamme. Secondo esempio del pomeriggio. La solita sindaca di Monfalcone, Anna Cisint, quella del tetto ai bambini stranieri nelle classi, quella del divieto a burqa e niqab negli uffici comunali, scrive un post contro Bou Konate, un ingegnere di origine senegalese, residente in città da quarant’anni, ed ex-assessore all’Urbanistica con la giunta precedente, che aveva criticato giustamente il suo divieto. Andate direttamente a leggere cosa scrive (“scambia Monfalcone con Calcutta”, “torni a casa sua”).
Ora, io ci sto anche provando, a capire. Passo un po’ del mio tempo a sfogliare i profili delle donne che mandano cuori a Salvini. Non sono povere. Sono benestanti, grosso modo della mia età o poco meno, ben pasciute e ben pettinate. Non è la famosa rabbia dei penultimi a spingerle. E allora mi chiedo cosa le muova, queste lucertole e questi lucertoli (ugualmente pasciuti e ben motorizzati, stando alle foto profilo dove esibiscono automobili e motociclette che non potrei mai permettermi). Cosa? Il rifiuto? Il voler essere considerati, amati, apprezzati? L’idea che ci si deve innamorare di chi vince? Il sogno di un riscatto? In nome della Dea, contro chi stiamo combattendo?”
Quelli che contano, però, sono i commenti, tanti e pacati: per leggerli, qui.
Perché, credo, provare per l’ennesima volta non solo a capire le reazioni che non sono le nostre, ma  tentare una strada (nuova, luminosa, scriveva nei commenti Nicola Lagioia) che non sia semplicemente reazione allo stillicidio quotidiano fatto di divieti, alzate di testa, decisioni nefaste, è il compito che ci spetta, ed è il più importante.
A corredo, sempre per tentare di capire dove siamo, riporto qui un post di Christian Raimo, che a sua volta riprende uno scritto di Leonardo Sciascia. Leggetelo, pensateci.
“Una delle cose che più mi fece impressione nell’adolescenza, quando leggevo di tutto, continuamente, avidamente, ma già con un che di speculativo, con un’attenzione che propriamente speculava su come le cose erano scritte, su come sentimenti, pensieri e immagini restassero per sempre nella rete della scrittura; una delle cose che più mi impressionò, fu un breve capitolo di Virginia Woolf pubblicato nell’«Almanacco della Medusa» del 1934: Sulle lettere di Lord Chesterfield a suo figlio. Non sapevo nulla di Lord Chesterfield, delle lettere che costui aveva scritto a suo figlio Filippo; né ancora mi ero imbattuto nei libri della Woolf che erano già stati pubblicati in Italia. Lessi il saggio come un racconto. E mi parve bellissimo, come ancora mi pare quando lo rileggo. Più tardi, lessi della Woolf i due libri pubblicati nella collana della Medusa, Orlando e Flush, e proprio nel 1941, mentre giornali e docu-mentari cinematografici offrivano in continuazione immagini dell’Inghilterra bombardata e dalla città di Coventry distrutta si coniava l’orrendo neologismo di coventrizzare, lessi e rilessi la Gita al faro impa-reggiabilmente tradotta da Giulia Celenza. Reagivo alla brutalità degli avvenimenti, e alla repugnanza che non potevo esprimere se non in una cerchia ristretta e fidata, rifugiandomi nella trama sottile e fragile di quel libro. Era come un omaggio all’Inghilterra coventrizzata. Solo a guerra finita seppi che in quel 1941 Virginia Woolf era uscita dalla vita con meticolosa discrezione. Non aveva resistito alla guerra che quotidianamente dal ciclo si abbatteva sull’isola, alla paura dell’invasione tedesca, alla preparazione dello scontro disperato e definitivo che si credeva sarebbe avvenuto. Mai l’avvenire dei molti è stato affidato a così pochi, diceva Churchill ai piloti della Raf. Ma Virginia Woolf non se l’era sentita di continuare ad assistere a quella impari lotta, né aveva fiducia nella resistenza e vittoria dei così pochi. Era, anzi, per la non resistenza. Per una sensibilità come la sua, tutto era troppo: non solo la guerra, i bombardamenti, le case distrutte, l’incombente sbarco dei tedeschi; ma anche la volontà di resistere, il patriottismo, i profughi, lo stesso Winston Churchill. I tedeschi la terrorizzavano; ma c’è da credere che un certo spavento glielo ispirasse anche Churchill con la sua durezza, la sua caparbietà, la sua inattaccabile volontà di resistere e vincere. Nelle poche note di diario del 1941, alla data del 26 gennaio scriveva: «C’è una pausa, un respiro, nella guerra. Sei notti senza incursioni. Ma Garvin dice che la battaglia più grossa è per venire, diciamo fra tre settimane, ed ogni uomo, donna, cane, gatto, parassita persine, deve cingere le armi, la fede, e così via. È l’ora fredda, questa: prima che scattino le luci. Qualche bucaneve in giardino. Sì, pensavo: viviamo senza futuro. Questa è la cosa strana: coi nasi schiacciati contro una porta chiusa». La retorica del cingere le armi e la fede, l’annientava quanto la paura dell’invasione tedesca. In uguale misura, la debolezza e la forza dell’Inghilterra, la debolezza delle armi e la forza della volontà, la allontanavano ed estraniavano da ogni cosa.
La mattina del 28 marzo 1941, una di quelle mattine terse e fredde della campagna inglese che lei tante volte aveva descritto fino alle quasi impercettibili sfumature e vibrazioni, Virginia Woolf, dopo avere scritto tre lettere, uscì di casa silenziosamente. Attraversò i prati, raggiunse il fiume. Posò il bastone da passeggio sulla riva, si mise in tasca una grossa pietra: e scese nelle acque per andare incontro a quella che lei diceva «l’unica esperienza che non descriverò mai».
Tre anni prima, reduce dalla guerra di Spagna, George Orwell aveva scritto: « E finalmente l’Inghilterra: l’Inghilterra meridionale, forse il più mite paesaggio del mondo. È difficile, quando la si attraversi, soprattutto mentre ci si riprende dal mal di mare, col velluto di un treno internazionale sotto la testa, credere che qualcosa stia accadendo nel mondo… L’Inghilterra della mia infanzia: la linea ferroviaria scavata nella parete rocciosa e nascosta dai fiori di campo, i prati profondi dove i grandi cavalli lustri pascolano meditabondi, i lenti rivi orlati di salici, i verdi seni degli olmi, le peonie nei giardini dei cottages; e poi l’immensa desolazione tranquilla della Londra suburbana, le chiatte sul fiume limaccioso, le strade familiari, i cartelloni che annunciano gare di cricket e nozze regali, gli uomini in cappello duro, i colombi di Trafalgar Square, gli autobus rossi, i policemen in blu: tutto dormiente del profondo, profondo sonno dell’Inghilterra, dal quale temo a volte che non ci sveglieremo fino a quando non ne saremo tratti in sussulto dallo scoppio delle bombe». Un risveglio cui Virginia Woolf non poteva resistere.”
(Leonardo Sciascia)
“Non c’è nessun motivo di essere nervosi”
ti dicono agitando i loro sfollagente,
e io dico “Non può essere vero”
e loro dicono “Non è più vero niente”

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