CHE L'ANNO COMINCI

Sono ancora in montagna, e sono presente sul blog in modo discontinuo. Solo questa mattina ho letto la discussione che si è sviluppata sulla pubblicità di Yamamay,  spesso con toni e accuse inquietanti. In ordine sparso: sessuofobia, puritanesimo, complicità con la sinistra miope e bigotta, poco acume strategico. Manca solo che qualcuno scriva – come  da altre blogger è stato fatto – che queste battaglie sono rivendicate da donne vecchie e brutte, e siamo tornati alla più vieta coda degli anni Settanta, quella dove il femminismo aveva i baffi e si opponeva per invidia al corpo nudo di Cicciolina.
Molto bene.
L’anno inizia dunque con una presa d’atto: fino a tre anni fa la discussione sulla questione femminile era espulsa per presunta parità acquisita. Oggi lo è, probabilmente, per saturazione: in questo paese, temo, le rivendicazioni durano quanto un telefonino. Non più di un anno, e si passa ad altro.  Liberissimi di farlo, naturalmente, e liberi di insistere sul frame “Femminismo=sessuofobia” che è anche molto comodo e procura parecchi consensi a chi lo diffonde. Libera io di continuare ad occuparmi degli argomenti che ritengo importanti.
Ma voglio iniziare il 2011 con un’altra faccenda passata di moda, come si conviene. Perché credo che in questi mesi sarà opportuno occuparsene, e a lungo. Voglio iniziare il 2011 pubblicando qui un appello che è apparso su Il Manifesto del 29 dicembre. Un appello che condivido.
Buon anno a voi.

Fausto Bertinotti, Sergio Cofferati, Gianni Ferrara, Luciano Gallino, Francesco Garibaldo, Paolo Nerozzi, Stefano Rodotà, Rossana Rossanda, Aldo Tortorella, Mario Tronti

Abbiamo deciso di costituire un’associazione, «Lavoro e libertà», perché accomunati da una comune civile indignazione.

La prima ragione della nostra indignazione nasce dall’assenza, nella lotta politica italiana, di un interesse sui diritti democratici dei lavoratori e delle lavoratrici. Così come nei meccanismi elettorali i cittadini sono stati privati del diritto di scegliere chi eleggere, allo stesso modo ma assai più gravemente ancora un lavoratore e una lavoratrice non hanno il diritto di decidere, con il proprio voto su opzioni diverse, di accordi sindacali che decidono del loro reddito, delle loro condizioni di lavoro e dei loro diritti nel luogo di lavoro. Pensiamo ad accordi che non mettano in discussione diritti indisponibili. Parliamo, nel caso degli accordi sindacali, di un diritto individuale esercitato in forme collettive. Un diritto della persona che lavora che non può essere sostituito dalle dinamiche dentro e tra le organizzazioni sindacali e datoriali, pur necessarie e indispensabili. Di tutto ciò c’è una flebile traccia nella discussione politica; noi riteniamo che questa debba essere una delle discriminanti che strutturano le scelte di campo nell’impegno politico e civile. La crescente importanza nella vita di ogni cittadino delle scelte operate nel campo economico dovrebbe portare a un rafforzamento dei meccanismi di controllo pubblico e di bilanciamento del potere economico; senza tali meccanismi, infatti, è più elevata la probabilità, come stiamo sperimentando, di patire pesanti conseguenze individuali e collettive.

La seconda ragione della nostra indignazione, quindi, è lo sforzo continuo di larga parte della politica italiana di ridimensionare la piena libertà di esercizio del conflitto sociale. Le società democratiche considerano il conflitto sociale, sia quello tra capitale e lavoro sia i movimenti della società civile su questioni riguardanti i beni comuni e il pubblico interesse, come l’essenza stessa del loro carattere democratico. Solo attraverso un pieno dispiegarsi, nell’ambito dei diritti costituzionali, di tali conflitti si controbilanciano i potentati economici, si alimenta la discussione pubblica, si controlla l’esercizio del potere politico. Non vi può essere, in una società democratica, un interesse di parte, quello delle imprese, superiore a ogni altro interesse e a ogni altra ragione: i diritti, quindi, sia quelli individuali sia quelli collettivi, non possono essere subordinati all’interesse della singola impresa o del sistema delle imprese o ai superiori interessi dello Stato. La presunta superiore razionalità delle scelte puramente economiche e delle tecniche manageriali è evaporata nella grande crisi.
L’idea, cara al governo, assieme a Confindustria e Fiat, di una società basata sulla sostituzione del conflitto sociale con l’attribuzione a un sistema corporativo di bilanciamenti tra le organizzazioni sindacali e imprenditoriali, sotto l’egida governativa, del potere di prendere, solo in forme consensuali, ogni decisione rilevante sui temi del lavoro, comprese le attuali prestazioni dello stato sociale, è di per sé un incubo autoritario.
Siamo stupefatti, ancor prima che indignati, dal fatto che su tali scenari, concretizzatisi in decisioni concrete già prese o in corso di realizzazione attraverso leggi e accordi sindacali, non si eserciti, con rilevanti eccezioni quali la manifestazione del 16 ottobre, una assunzione di responsabilità che coinvolga il numero più alto possibile di forze sociali, politiche e culturali per combattere, fermare e rovesciare questa deriva autoritaria.

Ci indigna infine la continua riduzione del lavoro, in tutte le sue forme, a una condizione che ne nega la possibilità di espressione e di realizzazione di sé.
La precarizzazione, l’individualizzazione del rapporto di lavoro, l’aziendalizzazione della regolazione sociale del lavoro in una nazione in cui la stragrande maggioranza lavora in imprese con meno di dieci dipendenti, lo smantellamento della legislazione di tutela dell’ambiente di lavoro, la crescente difficoltà, a seguito del cosiddetto “collegato lavoro” approvato dalle camere, a potere adire la giustizia ordinaria da parte del lavoratore sono i tasselli materiali di questo processo di spoliazione della dignità di chi lavora. Da ultimo si vuole sostituire allo Statuto dei diritti dei lavoratori uno statuto dei lavori; la trasformazione linguistica è di per sé auto esplicativa e a essa corrisponde il contenuto. Il passaggio dai portatori di diritti, i lavoratori che possono esigerli, ai luoghi, i lavori, delinea un processo di astrazione/alienazione dove viene meno l’affettività dei diritti stessi.

Come è possibile che di fronte alla distruzione sistematica di un secolo di conquiste di civiltà sui temi del lavoro non vi sia una risposta all’altezza della sfida?
Bisogna ridare centralità politica al lavoro. Riportare il lavoro, il mondo del lavoro, al centro dell’agenda politica: nell’azione di governo, nei programmi dei partiti, nella battaglia delle idee. Questa è oggi la via maestra per la rigenerazione della politica stessa e per un progetto di liberazione della vita pubblica dalle derive, dalla decadenza, dalla volgarizzazione e dall’autoreferenzialità che attualmente gravemente la segnano. La dignità della persona che lavora diventi la stella polare di orientamento per ogni decisione individuale e collettiva.
Per queste ragioni abbiamo deciso di costituire un’associazione che si propone di suscitare nella società, nella politica, nella cultura, una riflessione e un’azione adeguata con l’intento di sostenere tutte le forze che sappiano muoversi con coerenza su questo terreno.

59 pensieri su “CHE L'ANNO COMINCI

  1. Mah , Girolamo , di D’Alema , in generale di quella classe dirigente non c’è da fidarsi almeno dal 1997.
    Proprio per questo appoggio tutte le forze politiche e sociali che possano liberare nos a malo.
    Quindi sono con la Fiom contro i bonzi della destra sindacale e con tutte le riserve del caso sono con Vendola contro Bersani.
    Poi, un pò di politica ci vuole, altrimenti il mio nick non sarebbe Saint-Just, ma Hebert. Giacobino, non arrabbiato.

  2. Eccallà: lei non sa quel che so io.
    Grazie a dio mi funziona ancora tutto, tranquillo.
    Wu Ming: io parlo di rabbia sociale, di coscienza di classe che va fuori dei cancelli della fabbrica. Di coscienza dei lavoratori, tutti, non di questa o di quella categoria. Gambizzassero pure chi gli pare, creassero pure un altro martire; fessi e miopi.
    Non so se ti sei accorto ma di questa protesta non frega niente a nessuno perchè nessuno ci si identifica; ognuno è inguaiato col suo specifico problema, col suo specifico, sozzo, indegno, contratto di lavoro. Agli occhi dei precari – tanto per prendere un esempio – garantisco io a te che la battaglia della FIOM fa venire le lacrime agli occhi: ma d’invidia.
    E così agli occhi dei collaboratori a progetto, degli stagisti laureati, dei giovani professionisti, e persino degli altri stessi lavoratori.
    Questi signori devono aggiornarsi e aggiornare le loro proposte politiche.
    Il mio termometro empirico mi dice piuttosto che non siamo più nel ’68, che non c’è più una coscienza di classe, che non esiste più un dramma collettivo e condiviso, e che quindi ogni intenzione politica che continua a porsi come interlocutrice del mondo del lavoro tout court, a trattarlo come un pastone unico, a) non ha capito una cippa, b) è per questo destinata a fallire.
    “Vidave centvalità al lavovo”: come se ne esistesse uno solo.
    Le categorie deboli, oggi, non sono più riconducibili solo al paradigma dell’operaio in fabbrica e del lavoratore subordinato.
    Volete capirlo, sì o no? Volete capire che esistono diversi problemi per ciascuno dei quali vanno date soluzioni ideologiche e tecnico-giuridiche dif-fe-ren-zia-te?
    Sennò facciamo salotto; all’aperto coi picchetti, ma sempre salotto.

  3. Favoliere, ma che senso ha dire “volete capire che…?” e poi far seguire autentiche banalità di base che tutti andiamo dicendo da almeno una ventina d’anni? Coi precari e la precarizzazione, con la frantumazione delle figure del lavoro, con la fine dell’assetto fordista ci abbiamo scritto tutti una pila di carta che arriva da qui agli anelli di Saturno, io il primo numero di “Luogo comune” (non il sito che esiste oggi, ma la rivista su cui scrivevano Virno, Modugno, Negri, Piperno, Agamben, Colombo etc.) lo comprai nel ’91. Mo’ arrivi tu a spiegarci cose che, peraltro, la stessa FIOM dice tutti i giorni? La situazione che descrivi tu nel tuo commento la descrive pari pari Landini nel video che ho linkato sopra, che sarebbe il suo comizio alla manifestazione d’ottobre. Che era gremita di gente, a conferma, come dici tu, che “a nessuno gli frega”.
    La frantumazione non va semplicemente enunciata: va combattuta con le lotte, e va fatto capire che *questa* lotta è già di per sé la lotta di tutt*. Se non si capisce questo, e si rimane nel proprio bozzolo di risentimento, si è belli che fottuti. C’è chi può permettersi di crogiolarsi nel proprio essere belli che fottuti, e chi invece permetterselo non può.

  4. Wuming, tu sei polemico ed io al cubo; tu sai ed anch’io so; tu non sei cretino ed io nemmeno; questo non è un forum e noi tutti lo sappiamo. Quindi facciamo un patto: saltiamo la parte del flame e veniamo al nocciolo.
    *
    a) Non ho preteso l’esclusiva su quel che ho detto. Quindi l’elenco di chi, cosa e dove è stato detto prima di me lascia il tempo che trova. Non ho aspirazioni profetiche o pastorali. Se dico “volete capire” è perchè vedo che si va in direzione opposta. Era retorico, non didascalico: pensavo fosse evidente.
    b) L’argomento della folla del comizio di Landini è suggestivo, ma purtroppo non serve affatto a sostenere quel che vuoi sostenere tu. E sai anche perché. Posso restituirti l’accusa di banalità.
    c) Tu puoi aver scritto quel che vuoi, ma non hai letto quel che ho detto: la frantumazione non va combattuta. E’ proprio questo il punto. Non bisogna creare un movimento sociale-barcone su cui caricare tutti i disgraziati, da mandare poi all’assalto di Cartagine con la bandiera dei lavoratori. Io dico – o ripeto, se ti fa sentire più tranquillo – che un interlocutore politico “di sinistra”, oggi, per essere credibile deve avere più voci. Deve smetterla di parlare di tutti i problemi come fossero riducibili ad uno solo. Deve evitare – e prima che saltino fuori le obiezioni solite: sì, io ci sto provando nel mio impegno politico; e no, non ho una risposta definitiva sul come fare – di identificarsi in *una* battaglia.
    La deriva che sto vedendo, questa sempre più presente centralità del lavoro, quest’inseguimento del “qualcosa di sinistra”, mi spaventa molto politicamente: perché da un lato fa riferimento ad una realtà che non esite come unicum e quindi rischia d’essere un vacuo feticcio ideologico, e dall’altro perché fra centralità ed esclusività il passo nell’immaginario dell’elettorato è molto breve.

  5. Non capisco bene, anzi, non capisco per niente su cosa si basi l’assioma secondo cui combattere la frantumazione equivarrebbe al non avere “più voci”. A meno di non identificare la frantumazione con la molteplicità, il che sarebbe una cosa davvero ingenua, quasi quanto (solo per fare un esempio) identificare la “flessibilità” con la libertà di cambiare lavoro quando si vuole.
    Frantumazione non è molteplicità. Frantumazione è quando soggetti diversi, pur essendo potenziali alleati, si percepiscono come estranei o addirittura nemici. Frantumazione è la guerra tra poveri.
    Combattere questo significa sforzarsi di comunicare che soggetti diversi, *nella loro diversità*, possono condurre lotte comuni. Far capire che precari dei call center e operai dell’industria, “brainworkers” e braccianti di Rosarno, manovali di cantiere e “finti soci” di cooperative sociali, lungi dall’essersi reciprocamente ostili o “esistenzialmente concorrenziali”, possono coordinare le loro lotte e difendere/esigere diritti che valgono per tutti.
    Che questo sia percepito come potenzialmente… “totalitario” mi sembra l’ennesima dimostrazione di quanta breccia abbia fatto l’ideologia dominante (quella del tutti contro tutti, quella dei “cazzi miei” e dei “cazzi tuoi”) anche in soggetti che in passato avrebbero inteso – e vissuto – quanto ho appena scritto come un’ovvietà.

  6. Scusami se rispondo con un ritardo biblico per i tempi di internet.
    Non riesci a capire quel che dico perché – e ti prego di prenderla come un’impressione superficiale, non come un’offesa – ti muovi come tanti ancora con il sottofondo della lotta di classe. Cerchi ancora di costruire un fronte sociale da imbracciare come un ariete per sfondare il portone dei diritti.
    Non c’è – né io ho sostenuto – antinomia fra l’avere più voci ed il combattere la frantumazione sociale; quindi hai ragione a non vederci l’assioma.
    Però, ad evitare d’incartarci con le parole e con i concetti, facciamola semplice: non c’è bisogno di cercare un massimo comun denominatore fra tutti i deboli per avere o creare una strategia (anche di comunicazione) politica. Anzi, fornire (l’immagine di) risposte differenziate, oggi, può rivelarsi una tattica migliore di quella dell’uniti siamo forti.
    Sono daccordo con l’affermazione che combattere la guerra fra poveri sia basilare per una forza di sinistra, e con il fatto che sarebbe ingenuo scambiare la frantumazione sociale con la molteplicità; ma sarebbe credo altrettanto – se non più – ingenuo pretendere che il precario, il collaboratore ad altissima specializzazione intellettuale, l’inoccupato, e la femminista, trovassero fra loro e con il disoccupato operaio una concordia che andasse al di là della contingenza dell’essere esclusi dal banchetto sociale.
    Se le battaglie sono diverse – e lo sono! – meglio parlarsi chiaro in partenza.
    C’è una gran differenza fra il sentirsi estraneo ad una battaglia ed il sentirsene ostile; ed a voler trovare ad ogni costo un denominatore comune, si potrebbe finire ad avere sul serio la reazione contraria: “chissenefotte dell’operaio; ognun per sé”.
    Invece, dando un immagine di specificità, di attenzione *equanime* a tutti i temi delle fasce sociali più disagiate, ciascun debole si potrà sentire rappresentato per quello che è, e non per quanto assomiglia al lavoratore di Pomigliano o di Mirafiori.
    Per tornare al post di Loredana: vedere ancora una parte importante del direttivo “di sinistra-sinistra” centrarsi principalmente attorno alla questione operaia (sì lo so che non c’è scritto, ma chi sa leggere legge), mi fa cascare le braccia. E mi fa incazzare. Di brutto. Politicamente.
    Chiarisco ancora meglio: non è un aut aut, non si tratta di occuparsi di una battaglia piuttosto che di un’altra, ma di avere (soprattutto) l’immagine e la strategia politica di dire a ciascuno: ti ascolto e risolvo il TUO, specifico, problema. Non – solo – quello dell’operaio FIOM – che pure è importante. E per far questo non c’è bisogno di combattere.

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