CINQUE PUNTI SPINOSI SU LETTERATURA E APPARTENENZA

Voglio tornare sulla discussione di ieri: perché tocca un punto importantissimo e delicato, e anche controverso, di cui, almeno in Italia, si sta parlando molto poco. Ci torno dopo non poche contestazioni ricevute su Twitter che mi hanno portato a pensarci parecchio su.
Intanto. Per mia lacuna, c’erano cose che non sapevo e che ho imparato: Livia, titolare dell’account @rienafaire, che non conoscevo, e che è una donna molto preparata e colta (conosco poche persone in grado di citare Bleeding Edge di Pynchon come noi si cita il bollito di Madame Bovary), e anche duretta il giusto, e cui devo la scoperta di #ownvoices che, cito, “nasce per dare spazio a chi vive determinate esperienze di narrare quelle determinate esperienze, visto che normalmente questi lavori vengono rigettati in favore di narrazioni della cultura dominante, narrazioni più consolatorie”.
Ora, quel che viene rimproverato a Cummins, come spiega molto bene la mia vecchia conoscenza @Adrianaaaa nel commento al post di ieri, è questo (estraggo dal commento stesso):
“i tanti scrittori di origine latina che hanno criticato American Dirt non l’hanno fatto perché l’autrice non è messicana, ma perché il libro è pieno di stereotipi, errori e veri e propri plagi. Ti consiglio, se non l’hai ancora fatto, di leggere la recensione che ne ha fatto Myriam Gurba qui . Il punto identitario, “razziale” non l’hanno posto loro, ma l’industria editoriale, che ha deciso di spingere questo libro al successo ad ogni costo (persino pagando Gurba perché non pubblicasse la sua stroncatura) perché è un libro scritto da un’autrice bianca per bianchi. Nonostante lei non conoscesse a fondo il tema e a spese di altri scrittori non bianchi. È brutto dirlo, ma è così. L’industria editoriale è razzista, come lo è chiunque rientri nella categoria di “bianco”. Come lo siamo tu, io, Cummins, e chiunque altro. Nasciamo nel razzismo, è il nostro secondo liquido amniotico, quello in cui ci tuffiamo quando nasciamo (allo stesso modo del sessismo, tra l’altro). Il punto è riconoscerlo e liberarsene. Tanti narratori l’hanno fatto”. (…) Tu dici che il punto è la moda del libro confessione, della verità (o presunta tale) che ha più valore dell’immaginazione. Io voglio ribaltare la questione: fino ad ora i narratori occidentali hanno immaginato l’altro e hanno dato alla loro immaginazione il valore di verità. Per secoli la voce dell’Occidente è stata la verità tout court, la realtà, il neutro, la rappresentazione del mondo. La vicenda di American Dirt ha mostrato che è ancora così, ma è sempre meno accettabile. Ha puntato il dito contro chi si sente in diritto di detenere la verità assoluta. E la triste realtà è che senza questo diritto tanti e tante di noi si sentono spossessati, spaventati, sperduti. Perché siamo profondamente ignoranti, arroganti e pigri”.
E ci sta. Inoltre, giusto ieri sera, lo scrittore e giornalista Roberto Lovato twitta che, dopo un incontro con gli editori, ha ricevuto la conferma che Cummins non ha ricevuto minacce di morte. E ci sta. Però. Però se leggo il trattamento riservato su Twitter a Stephen King, che l’ha sostenuta, un minimo di sgomento continuo a provarlo.
Dunque, pongo una serie di questioni, che per quanto mi riguarda sono apertissime, perché non ho risposta, e penso anche che non sia facilissimo trovarla:
1. La questione dell’accesso all’industria editoriale. Che certamente è eurocentrica, e altrettanto certamente non si pone il problema di non esserlo. Ma rovesciamo per un momento il tema. Cosa si rischierebbe nel momento in cui la medesima industria si dimostrasse accogliente verso altre identità, verso scrittori non bianchi non per la qualità dei testi ma per una questione di, chiamiamole così, quote? Un assaggio di quel che è avvenuto e avviene nei confronti delle scrittrici italiane ci dovrebbe porre qualche dubbio, o quanto meno a me lo pone: dopo i (pochi) premi letterari ricevuti, i media hanno subito sminuito il valore dei libri premiati parlando di Strega del #metoo o di Campiello rosa. Va bene lo stesso? Sì, va bene lo stesso, visti i chiari di luna. Ma quanto quell’appartenenza viene accolta in vista di una sua ipotetica vendibilità e non per il valore dell’opera?
2. Non sono sicurissima che sia giusto parlare di “accesso” alla letteratura. Sono abbastanza vecchia, anche se ancora abbastanza cretina, per rendermi conto che parliamo di “industria” e non di editoria pura, e che dunque nessuna industria è meritocratica e ragiona in base a quello che è potenzialmente vendibile. Eppure, resto (ed ecco la cretineria) ostinatamente legata all’idea di qualità. In altri termini,  non leggo Valeria Luiselli perché è messicana e donna: ma perché è brava. Poco? Forse.
3. Quanto vengo limitata come lettrice dalla questione della disuguaglianza letteraria? Molto. Potrò mai parlare male di un libro su Scampia? Di un romanzo antimafia? Di un libro contro il femminicidio? Ho fra le mani, da ieri, Cattiva, proprio di Myriam Gurba. Lo comincerò stasera. Ma la domanda è: se lo trovo qualitativamente criticabile, a dispetto della storia tremenda di stupro e morte, potrò dirlo? Potrò, eventualmente, trovare più potente 2666, scritto da un uomo, cileno, ma da cui ho imparato moltissimo su Ciudad Juárez?
4. A corollario: 2666 non è una confessione. E’ un romanzo straordinario seguito a una straordinaria inchiesta di Sergio González Rodríguez, Ossa nel deserto. E’ un romanzo e dunque mente, pur raccontando una verità. Il che, per me, significa che la letteratura è sempre politica, quando è buona letteratura. Ma sull’autofiction continuo a nutrire i dubbi espressi ieri.
5.  Il punto più spinoso, eppure non posso tacerlo. Il paradigma della vittima, che fa correre proprio a chi è diseguale non pochi pericoli, letterariamente parlando. Ne scrisse benissimo Daniele Giglioli, in Critica della vittima: dove non nega lo status, intendiamoci, ma lo problematizza. Qui un estratto: non lo liquiderei facilmente.
Non pretendo che la discussione si esaurisca. Non pretendo nulla, in verità: solo provare a capire su qualche crinale stiamo camminando. E sia nella negazione del problema, sia nel ribaltamento del problema stesso, vedo pericoli, e neanche piccoli.

8 pensieri su “CINQUE PUNTI SPINOSI SU LETTERATURA E APPARTENENZA

  1. Il libro di Cummins non l’ho letto, ma è da tempo che mi interrogo su questioni di identità e letteratura. Individuo il nocciolo della questione in queste parole dal post di Adrianaaaa: ‘La vicenda di American Dirt […] ha puntato il dito contro chi si sente in diritto di detenere la verità assoluta”.
    Certo, se attribuiamo alla Cummins, o a Saviano, a Gurba o a Orwell la pretesa di dire la verità assoluta e definitiva su un contesto e/o una vicenda specifica, allora certamente dovremmo smontare quella velleità. Ma non è che quella pretesa di verità, al di là delle singole esternazioni degli autori, gliela attribuisca (o se la aspetti) il pubblico (sicuramente condizionato dall’industria editoriale)? La pretesa di verità assoluta non ce l’ha più nemmeno la filosofia, perché ora dovremmo chiederla alla letteratura? Credo che sarebbe più fertile partire dalla premessa che ogni opera è situata ed espressione di un determinato e ineludibile punto di vista. E questo implica che nel gioco dei punti di vista non sia necessariamente virtuosa nessuna delle combinazioni tra contesto e appartenente a quel contesto, perché la vera questione non è verità vs mistificazione: ci sono gli stereotipi e la cattiva scrittura, in cui si può cadere indipendentemente dal presunto gruppo di appartenenza.
    Mi permetto di riportare uno stralcio della mia nota alla raccolta di racconti Dov’è casa mia (minimum fax, 2019), in cui sono radunate dodici storie basate sulla mia esperienza di operatore umanitario, e in cui affronto la stessa questione.
    “Resta da affrontare la seconda questione, relativa alla legittimità e autorità di un narratore che assume – come capita in alcuni di questi racconti – il punto di vista di persone da lui profondamente diverse e lontane. Non c’è alcun dubbio che questa scelta sia problematica: c’è il rischio, in altre parole, che la voce di un autore europeo, adulto, uomo, bianco, con un certo tipo di istruzione e di passato personale si sovrapponga – alterandola – o si sostituisca a quella di personaggi sotto moltissimi aspetti lontani: non europei, donne, bambini e così via.
    Ancora una volta la questione è ampia, ma anzitutto e molto semplicemente voglio dire: ho tentato di dare voce ai miei protagonisti altri in maniera rispettosa e non paternalistica, come avrei fatto con qualsiasi persona conosciuta in profondità. In secondo luogo, ritengo che la distanza tra individui non sia mai completamente colmabile, così come ritengo illusoria la pretesa di annullare quella distanza concentrandosi sulle identità – per mezzo cioè di una letteratura identitaria, dove solo i membri di un certo gruppo (culturale, geografico, etnico, religioso etc.) sono autorizzati a scriverne. Tale approccio rischia per un verso di soffocare le differenze e le tensioni interne al gruppo che si presume omogeneo, per un altro di incanalare le possibilità della scrittura entro binari predefiniti, costruiti su una certa idea di quali siano gli autentici appartenenti al gruppo; infine – più pericolosamente – rischia di precludere la possibilità stessa di una comunicazione autentica.
    Per contro, sono convinto della centralità delle storie: credo che quando le narrazioni (orali, scritte, visive ecc.) riescono a spingersi oltre i confini stabiliti da identità ereditate, imposte o autoimposte, abbiano il potere di avvicinare mondi diversi e mostrare il sostrato comune a tutti noi, quello che d’altra parte dà forza e ragione d’essere al lavoro umanitario”.

  2. Ciao Loredana, poni degli spunti molto interessanti. Provo a risponderti.
    1-2 Non sono sicurissima di capire il punto che poni, e ti chiedo scusa in anticipo se lo traviso. Davvero dobbiamo preoccuparci che in un futuro del tutto ipotetico l’industria editoriale cominci a pubblicare autori africani, messicani, ecc, solo perché non bianchi? Perché oggi questo problema non esiste. Così come non esiste il problema delle donne pubblicate “in quanto donne”. Sappiamo bene che le autrici ricevono ancora meno attenzioni e recensioni degli autori. Ti ricordi il direttore della Feltrinelli che confessò candidamente di non leggere autrici ma solo autori? O Internazionale, che pubblicava recensioni quasi solo di autori maschi? Ancora controllo ed è ancora quasi sempre così. E se ci sembra il contrario è solo perché siamo abituati e un mondo letterario praticamente mono genere. Stessa cosa per quanto riguarda la “linea del colore”. Autori e autrici che si trovano al di là della linea sono ancora un’esigua minoranza, ma ci sembrano tanti perché per secoli la letteratura è stata praticamente solo bianca.
    A me non interessa chiedere un cambiamento all’industria editoriale. La letteratura non riguarda solo gli editori o gli altri attori dell’industria e non deve essere lasciata solo nelle loro mani. È anche per questo che sono nate realtà come le librerie delle donne, dove le autrici vengono sostenute a prescindere, per quanto possibile, dalle regole dell’industria. O tante piccole case editrici che funzionano in modo diverso. O ancora il movimento own voices. Non credo che i grandi editori e i critici siano gli unici a poter decidere della qualità di un’opera, altrimenti, per dire, avrebbero ragione i tanti che pensano che le donne non sanno scrivere.
    3 Secondo me, e qui farò saltare sulla sedia un sacco di esteti dei miei stivali, la bellezza di un libro non è la sola cosa che conta. Quando leggo un libro mi chiedo sempre se oltre che essere bello (qualunque cosa questo significhi in questo preciso punto della storia e della geografia) è anche onesto. Mi spiego: cosa penseresti se scoprissi che 2666 di Bolano, che hai tanto amato, è stato scritto saccheggiando libri di valore di altri autori e autrici, senza mai citarli, rendergli merito e aiutarli a emergere, ma anzi schiacciandoli e mettendoli in ombra per sempre? Se scoprissi che quel libro è frutto di un’operazione disonesta di appropriazione della voce di altre e altri, cambieresti opinione? Io sì. Per me una narrazione deve essere onesta, oltre che “bella”. Faccio un altro esempio questa volta non ipotetico: tempo fa andai alla presentazione di una mostra di Steve McCurry a cui partecipava anche l’autore. Inevitabilmente si cominciò a parlare della sua famosissima foto di una ragazza afghana, foto che gli ha donato la fama mondiale che ha oggi. Non ne conoscevo la storia, che è questa: la ragazza della foto era un’orfana dodicenne analfabeta, che McCurry aveva visto in un campo profughi. L’ha fotografata (a chi ha chiesto il consenso per farlo? Me lo domando), e ha pubblicato la sua immagine, che gli ha fruttato una quantità strabiliante di soldi, fama e potere. Ebbene, il grande fotografo ha atteso 17 anni per tornare a cercarla e allungarle pochi spiccioli per l’immensa fortuna che lei ha contribuito a fargli avere. In sala, tutti hanno trovato questo gesto di una grande generosità. Io avevo voglia di urlare. L’Occidente ruba al resto del mondo storie e bellezza da secoli. Bada bene, le RUBA, non le raccoglie in uno spirito di amicizia, condivisione, interrogazione reciproca del sé e dell’altro. L’onestà è l’eccezione, non la norma.
    4-5 Riguardo al paradigma della vittima, sono la sola a trovare invece moltissimi libri scritti da persone che hanno subito grandi ingiustizie, a volte persino violenze terribili, e che ne parlano ponendosi come agenti della storia, partendo da un punto di vista di sopravvivenza e lotta? Parlando di stupro, Fame di Roxanne Gay o King Kong Theory di Valerie Despentes. O nel mondo del lavoro i libri di Alberto Prunetti. A me sembra che le narrazioni personali e non vittimistiche abbondino, e il vittimismo invece alberghi soprattutto tra chi ha sempre goduto di grandi privilegi e ha paura di vederli intaccati.

    1. Ciao Adrianaaa, al volo, perché fra poco ho la trasmissione.
      Sul punto 1. E’ il più complesso. Da anni provo a parlare della non visibilità e della non riconosciuta autorevolezza delle scrittrici. La conseguenza del “pubblico una donna” però la trovo ugualmente pesante: mi suona come gli angeli del virus sulle ricercatrici dello Spallanzani. Ci vuole pazienza, ma anche il riconoscimento della complessità delle questioni, per uscirne.
      Sul punto 3. Ti rispondo, onestamente, che non lo so. Perché mentre la famosa fotografia di Steve McCurry mi ha sempre lasciata fredda, forse anche per i motivi poi svelati (esiste una questione di onestà nell’arte? Forse), se scoprissi che 2666 è frutto di un’azione di appropriazione temo che continuerei ad amarlo lo stesso.
      Sugli ultimi due punti: tu citi tre esempi che condivido. Ma quanto il paradigma vittimario agisce comunque nel momento in cui ti poni in quel ruolo, sia pure con ottica di lotta?
      Rispondo con ulteriori domande, come vedi, e ci penso ancora su.

  3. Secondo me la posizione di Adrianaaaa porta a delle conseguenze molto pericolose. Perché, de facto, mette su un piano di superiorità le “intenzioni dell’autore” rispetto al risultato effettivo del libro.
    Poniamo che A sia uno scrittore bianco europeo che scrive un libro ambientato nel paese di B (paese del “terzo mondo”) e nello stesso periodo anche B scriva un libro ambientato nel proprio paese. Questi due manoscritti arrivano sul tavolo dell’editore C (che verosimilmente si trova nel paese di A, perché sarà difficile il contrario). Ora il libro di A è un bel libro, e il libro di B è una ciofeca. C, se portiamo avanti la linea di Adrianaaaa, dovrebbe pubblicare comunque B perché il romanzo di A sarà senz’altro meno “onesto”: chi più di B conosce la realtà del suo paese, le implicazioni di quella realtà? Per non parlare del fatto che A avrebbe – riprendo le testuali parole – rubato la storia a B.
    A me pare un assurdo, e troverei assai disonesto C se facesse una scelta del genere.
    Cercare di riparare a delle ingiustizie culturali con delle altre ingiustizie culturali non mi pare una grande mossa.
    Questo non vieta ovviamente a nessuno di stroncare niente.
    E anche l’esempio immaginario su 2666 non mi convince affatto: in primis se c’è plagio, questo è un fattore anzitutto legale e si paga di persona; se invece si tratta di aver preso lavori fatti da altri ma reinterpretati in modo originale senza citarli, beh per quale motivo questo dovrebbe mettere a tacere per sempre le voci di queste fonti? Se erano sconosciute prima di 2666 non sarà certo il romanzo a dare loro il colpo di grazia. Anzi, è molto probabile che questi lavori possano venire alla luce proprio in virtù del romanzo: magari qualche lettore appassionato dalla vicenda che approfondisce e fa ricerca.
    Quando nell’arte si inizia a dire “questo si può fare e questo no”, io sento sempre puzza di bruciato.

  4. Ekerot, il caso che tu hai descritto non esiste. Esiste il caso opposto: autori bianchi con libri pieni di sciocchezze e furti che vengono pubblicati al posto di altri. Ed esiste da secoli. Ed è uno dei pilastri della cultura occidentale bianca.

  5. Certo che il caso che ho descritto non esiste, stavo ragionando partendo dalle tue premesse.
    L’affermazione per cui la letteratura “bianca” occidentale piena di sciocchezze e di furti da secoli andrebbe però un po’ argomentata e spiegata, perché sennò sa di slogan e diventa inutile proseguire la discussione (se se ne ha voglia).

  6. Ekerot, non prendertela, ma io ogni volta mi stupisco. Edward Said ha pubblicato Orientalismo 42 anni fa e le sue affermazioni (che hanno dato origine a tutta una branca dello studio della cultura, con centinaia se non migliaia di testi prodotti) ancora sono roba mai sentita per persone che pure leggono, si informano, studiano. Io boh.

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