COME RACCONTARE LE FIAMME: UNA QUESTIONE APERTA

“Noi oggi parliamo spesso di ripristino di equilibrio e dove questo non e possibile chiediamo di non aggravare per lo meno le condizioni di degrado. Probabilmente noi oggi, dal punto di vista ecologico, soprattutto in certe parti del globo e anche in certe parti del nostro paese, ci troviamo in condizioni di mutilazione ambientale e dobbiamo imparare a convivere con delle mutilazioni. Ma si può dire che in un certo senso assumiamo un atteggiamento abbastanza simile a quello della tossicodipendenza o dell’alcolista. Il tossicodipendente, o l’alcolista, sa benissimo che bere, fumare, prendere sostanze varie, gli fa male. Egli sa anche prevedere grosso modo entro quanto tempo certe conseguenze si manifesteranno, però non riesce a smettere perché e profondamente parte di un circolo vizioso. Da questo particolare punto di vista credo che una delle virtù “verdi” praticabili possa essere quella del pentimento, dove per pentimento intendo l’atteggiamento di chi ha sperimentato l’eccesso, la trasgressione, la violazione e se ne rende conto e non ha lo stesso atteggiamento di innocenza di chi non ha mai peccato”.
Questo era Alex Langer, nel 1987. Molto più recentemente, Jonathan Safran Foer, in “Possiamo salvare il mondo prima di cena”, constatava che l’emergenza ambientale non è  facile da raccontare e non spaventa, non affascina, non coinvolge abbastanza da indurci a cambiare la nostra vita. Per questo rimaniamo indifferenti, o paralizzati: la stessa reazione che suscitò Jan Karski, il «testimone inascolta­to», quando cercò di svelare l’orro­re dell’Olocausto e non fu creduto.
Sempre recentemente, Naomi Klein, in due libri (“Una rivoluzione ci salverà” e “On Fire: The (Burning) Case for a Green New Deal”) e in centinaia di interventi, ha ricordato che “Non esiste leadership vera a sinistra senza un “green new deal”, un piano che connetta il tema ambientale ed economico. Serve un’altra idea di progresso: quella capitalista era che bisognasse consumare di più per essere vincenti, oggi la via d’uscita è quella opposta”.
Bene, tutto ciò premesso, vorrei continuare a interrogarmi su una vicenda che ieri ha occupato non pochi spazi di discussione sui social. Tutto parte da un’elaborazione grafica fatta da Anthony Hearsey su Instagram. Con questa premessa: *  PLEASE READ BELOW. * This is a 3D visualisation of the fires in Australia. NOT A PHOTO. Think of this as prettier looking graph. Scale is a little exaggerated due to the render’s glow, but generally true to the info from the NASA website. Also note that NOT all the areas are still burning, and this is a compilation. This image is copyrighted by Anthony Hearsey. Please contact for usage. This is made from data from NASA’s FIRMS (Satellite data regarding fires) between 05/12/19 – 05/01/20″.
E’ avvenuto esattamente il contrario, e la non foto è stata usata come se fosse una foto. Da qui, discussione che, sinceramente, mi sgomenta. Chi, come la sottoscritta, ha provato a dire che è importante combattere una battaglia centrale per la sopravvivenza partendo da documenti reali si è trovata, nei fatti, nei panni di quella che NEGA la questione, e magari anche nel solito ruolo di intellettuale con tisana d’ordinanza che discetta di cazzate mentre il mondo brucia (e brucia davvero).
Se insisto su questo punto è esattamente perché, come tutti, ho a cuore la battaglia, e ritengo che un uso passionale e non meditato dei social non faccia bene alla battaglia stessa. Anzi, fornisca armi a chi la nega (foto falsa, problema falso). Niente, sono l’ottusa intellettuale annoiata con tisana, e pazienza.
La seconda questione, legata alla prima, e molto più importante, è antica: allora che si fa, eh? La faccenda del clickactivism pone un problema: ci fa sentire partecipi quando non lo siamo, non tutti e non fino in fondo. E quando contribuiamo a una narrazione senza chiederci cosa stiamo facendo potremmo diventare parte del problema, e non risolverlo.
In un vecchio articolo, i Wu Ming citavano George Lakoff:
“tutte le storie contengono una dose di tossine, perché – come ha dimostrato George Lakoff con i suoi studi sul legame neurale, «quando tu accetti una particolare narrazione, allora ignori i dati che la contraddicono. Le narrazioni hanno il potere di nascondere la realtà» . Questo non significa che possiamo buttarle via e sostituirle con la fredda e dura ragione. Come abbiamo visto, per identificare una rivoluzione abbiamo bisogno di raccontarla. La proposta di Lakoff è quella di un Nuovo Illuminismo, nel quale «riconosceremo che gli schemi narrativi fanno parte dell’attrezzatura permanente del nostro cervello, ma potremo almeno esserne consapevoli”.
Consapevolezza, ecco il punto primo, a mio modestissimo parere. Sapere di cosa stiamo parlando fino in fondo. E’ singolare che nelle stesse ore in cui circolava a valanga l’elaborazione grafica dell’Australia, venisse pubblicato su Valigia Blu un ottimo articolo di Angelo Romano che spiega benissimo cosa sta accadendo. Articolo molto meno condiviso, anche se ricco di dati e grafici.
Allora, ripeto, che si fa? Molte cose, e meglio di me le hanno scritte Langer, Klein, Foer: dal comportamento individuale alla pressione e all’azione politica e all’utopia necessaria di un cambiamento di sistema. E narrazione, per chi ha la capacità di narrare, e la volontà di farlo senza cedere al greenwashing, che da vecchia femminista che ha attraversato anni di pinkwashing (tossico più che mai) avverto come imminente: facciamo una scommessa su quanti libri (romanzi, storie per ragazzi, saggi) usciranno, sul tema, nel 2020? E, soprattutto, quanti di questi costruiranno la narrazione che ci serve e quanti sfrutteranno la scia? E noi, nel frattempo, cosa possiamo fare sui social?
Come scrivono ancora i Wu Ming, in quel caso riferendosi alle rivoluzioni arabe:
“Twitter e Facebook sono in un certo senso i Lawrence d’Arabia del ventunesimo secolo: porre l’accento sui social network ci dà la piacevole sensazione che queste rivolte “per la democrazia” siano un sotto-prodotto di Internet, lo strumento democratico e partecipativo per antonomasia, il quale è a sua volta un prodotto dell’Occidente. Dunque, ci diciamo, se l’Egitto si è rivoltato grazie a Internet, allora in fondo si è rivoltato grazie a noi, e tendiamo a dimenticare così che il luogo simbolo di quella rivolta è una piazza, non il cyberspazio, anche perché rovesciare un despota via Twitter non è così semplice: primo, perché l’accesso a Internet può essere bloccato, e infatti è stato bloccato, secondo perché anche i dittatori sbirciano nei social network”.
Per costruire una narrazione efficace, dunque, occorre saper leggere tutti i dati che abbiamo a disposizione: sappiamo farlo? No, e io per prima mi dichiaro non abile, e ritengo che siano pochissimi quelli che hanno la lucidità per farlo. I tre, quattro con Wu Ming, che ho citato la possiedono, per esempio. E in quell’articolo c’è la via:
“Capire la rivoluzione e raccontarla in maniera efficace, significa allora saperla sognare, cominciare a viverla, provare a immaginarla”.
Altro non vedo, nel mio piccolo, non ora, almeno. Provare a raccontare ma senza mai, mai, mai autoassolversi. Come ricordava Franco Fortini in una delle sue Canzonette del Golfo, questa.
Lontano lontano si fanno la guerra.
Il sangue degli altri si sparge per terra.
Io questa mattina mi sono ferito
a un gambo di rosa, pungendomi un dito.
Succhiando quel dito, pensavo alla guerra.
Oh povera gente, che triste è la terra!
Non posso giovare, non posso parlare,
non posso partire per cielo o per mare.
E se anche potessi, o genti indifese,
ho l’arabo nullo! Ho scarso l’inglese!
Potrei sotto il capo dei corpi riversi
posare un mio fitto volume di versi?
Non credo. Cessiamo la mesta ironia.
Mettiamo una maglia, che il sole va via.

Un pensiero su “COME RACCONTARE LE FIAMME: UNA QUESTIONE APERTA

  1. Sulla difficoltà della narrazione della catastrofe climatica per me sono stati illuminanti “La grande cecità” di Amitav Gosh e il film “L’homme a mangé la Terre” uscito nel 2019. Entrambi spiegano come la nostra cultura sia una cultura nata dai fossili e narrata dal punto di vista dei fossili, così come la nostra società, e come dall’interno sia difficile inventare e narrare la rivoluzione di cui avremmo bisogno ma anche la stessa catastrofe.
    Queste le ragioni che mi hanno portato ad aderire al movimento Extinction Rebellion, perché sta tentando una nuova narrazione della catastrofe climatica e delle possibilità di uscirne (vivi).
    https://www.nytimes.com/2019/10/28/opinion/extinction-rebellion-london.html
    Una narrazione che in modo diverso ha parecchi punti in comune con il pensiero di Langer.

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