CONGEDI

Finito. Teatro chiuso, costumi in magazzino, abbracci e anche qualche lacrima sotto i coriandoli alla fine dell’ultima puntata. Lascio Torino, domani, decisamente sfinita ma emozionata: l’avventura è stata grandiosa e spero che piacerà anche a voi.
Resto a Roma solo due giorni e poi mi ritiro nel paesello marchigiano. Ci sarà ancora il tempo per qualche post. Per quanto riguarda la giornata di oggi, vi rigiro l’inchiesta di Cinzia Sasso sul quotidiano di oggi.  Ci sto pensando su.

Quando Nicole Brewer è salita sul palco e ha preso la parola, la sala si è fatta di sale. «Il problema – ha detto – è che alcune leggi pensate per favorire le donne, alla fine si sono rivolte contro le donne. La legge sulla maternità, ad esempio, che vuole garantire un anno di astensione dal lavoro, è una terribile trappola. Dobbiamo stare in guardia. Il congedo per maternità impedisce alle donne di fare carriera. Bisogna ripensarci: la strada che per tanti anni abbiamo percorso e che ci ha portato a combattere per ottenere il diritto a stare a casa per occuparci dei nostri figli forse non è la strada più giusta». È stato come parlare male dell´ecologia a un raduno di verdi; o criticare l´esercito a un incontro di reduci. Perché la signora Brewer è la responsabile della Commissione per le pari opportunità e critiche del genere, finora, si erano sentite, certo, ma mai da un pulpito simile. Mai il diritto al congedo per maternità era stato messo in discussione da un´organizzazione che ha come scopo quello di difendere i diritti delle donne.
È notizia di questa settimana la condanna da parte dell´High Court di un datore di lavoro che aveva umiliato una sua senior manager solo perché aveva avuto un bambino e, come prescrive la legge, era stata a casa per accudirlo.
Sarah Vince-Caine, una giovane dipendente del gruppo Armani, ha ottenuto un risarcimento di 180mila euro per la discriminazione sessuale di cui è stata vittima. La sua storia comincia nel ´98, quando, al momento del ritorno al lavoro dopo i tre mesi di congedo per maternità, si sente sempre più emarginata ed è via via privata dei compiti di responsabilità che prima facevano capo a lei. «Tutto questo – ha raccontato ai giudici – è peggiorato dopo la seconda maternità. Ero il capo della catena di tutti i negozi fuori Londra e mi sono ritrovata ad essere poco più che il direttore di un solo negozio». La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato quando, a un meeting aziendale, è stata umiliata da uno dei suoi capi davanti ai colleghi e ai suoi subordinati. «Ma fin da quando ho annunciato la mia gravidanza – ha aggiunto – sapevo di avere cambiato il mio destino professionale».
Ecco, la ragione che ha spinto Nicole Brewer a rompere con una presa di posizione clamorosa il tranquillo tran-tran del politically correct, si sposa a perfezione con questa storia. Il fatto è che Nicole non vuole tornare indietro; crede che sia necessario guardare avanti. E però cominciare a farlo leggendo la realtà. Per esempio i dati di Pricewaterhouse Coopers secondo i quali la percentuale di donne con ruoli da senior manager nelle 350 prime società del listino di Borsa, è calato del 40 per cento a partire dal 2001. O quelli di uno studio di Grant Thornton che mostrano come solo il 64 per cento delle aziende inglesi abbia una donna top manager, contro il 91 per cento di quelle cinesi. Il fatto è che il mondo del lavoro negli ultimi anni è cambiato radicalmente e quella che, per le donne, sembrava una strada senza più ostacoli, è invece diventata di nuovo un percorso difficile. Le magnifiche signore con i tacchi a stiletto che negli anni Ottanta sembravano pronte a conquistare le poltrone più alte, oggi hanno messo via i tacchi e anche le ambizioni. La loro marcia forzata si è interrotta a partire dai primi anni Duemila. A scuola continuano ad essere le più brave, eppure il loro destino si inceppa quando passano dalle università al mondo del lavoro. A precipitare non è stato solo il numero delle top manager: a calare del 6 per cento è stata anche la quota delle donne sposate e madri di bambini piccoli occupate a tempo pieno.
Colpa anche della legge, dice adesso la Brewer. Che aggiunge: «Il vero cambiamento non dev´essere quello di proteggere le donne per consentire loro di fare anche le madri, ma quello di mettere i padri nella condizione di fare i padri». La zavorra che le donne si tirano dietro è una questione sociale, non personale. Sir Alan Sugar, un businessman che è nella lista dei più ricchi dell´Inghilterra, ha avuto il coraggio di dirlo apertamente: molti imprenditori scartano i curricula di ragazze in età da far figli. Sembravano notizie di un´altra era. Invece, i datori di lavoro hanno paura delle donne e delle loro assenze per maternità. Perché se un uomo fa i figli, per le aziende non è mai un problema. E il nuovo Work and Families Act, voluto dal governo Brown, rinforza questo stato di cose: i figli sono un affare delle donne, non della famiglia. «Bisogna – chiede le Brewer – allargare i diritti e prevedere che i padri abbiano lo stesso periodo di congedo previsto per le donne».
Il dibattito, sottotraccia, infiamma anche l´Italia. E un libro, «Nuovi padri? Mutamenti della paternità in Italia e in Europa», appena uscito per Baldini&Castoldi, lancia una provocazione: per rompere gli schemi che imprigionano le donne, per evitare che il doppio ruolo le spinga a una crisi di nervi oppure al ritorno dentro le mura di casa, c´è una sola cosa da fare, il congedo obbligatorio per i padri quando nasce un bambino. Francesca Zajczyk, sociologa, ne è l´autrice: «Da qualunque parte si prenda la questione – dice – è un terreno molto scivoloso. Le donne rischiano di trovarsi, come si dice, cornute e mazziate. Non credo che limitare i diritti relativi alla maternità sia una soluzione, ma certo bisogna fare di più perché sia chiaro che la maternità è un lavoro socialmente utile, non il capriccio di una donna». Se fare i figli è qualcosa che serve a tutti, dev´essere la società nel suo insieme a farsene carico. Con l´ingresso massiccio delle donne nel mondo del lavoro, è datata l´idea che quell´altro compito, quello di crescere i figli, sia solo un affare da donne. Barbara Pollastrini, che è stata il ministro delle Pari Opportunità, mette l´accento sulla flessibilità: «Quello che le donne chiedono è di poter decidere loro, a totale discrezione, quando è arrivato il momento di chiedere il congedo. Non devono esserci delle gabbie, ognuna deve scegliere in base alle proprie esigenze. E, certo, bisogna investire molto sui congedi parentali».
È la strada intrapresa in Germania: se vuoi cambiare la cultura, forse devi cominciare a cambiare le leggi. Ursula Von der Leyden, ministro tedesco, madre di 7 figli, ha incentivato con 1.8 miliardi di euro l´alternanza dei genitori nell´accudimento e ha previsto che anche gli uomini che stanno a casa ricevano i due terzi dello stipendio (in Italia è ridotto del 70 per cento). Il risultato è che ora in Germania i padri che fanno le mamme sono 1 su 10 mentre in Italia, dove pure da sei anni esisite il congedo per paternità, siamo fermi a 4 su 100. Perché un altro problema è quello dei soldi: spesso, in una famiglia, sono gli uomini a guadagnare di più e dunque è più «conveniente» rinunciare alle entrate del coniuge economicamente più debole. Maurizia Iachino Leto di Priolo, partner della società di executive search Key 2 People, nega che in Italia succeda che i cacciatori di teste selezionino i profili in base al genere del candidato: «Però – ammette – poi i clienti forse lo fanno. Un pregiudizio esiste di certo. E a parità di meriti, tra una donna di 35 anni e un uomo della stessa età, è chiaro che scelgono un uomo». Capita, ai colloqui, che siano le stesse ragazze a mettere le mani avanti e a specificare che non hanno nessuna intenzione di mettersi a fare dei figli. Quando non succede che siano gli stessi datori di lavoro, come assicura la Cgil, a pretendere un impegno in tal senso.
Se Marisa Montegiove, della Federmanager, esulta sul blog dell´associazione per aver ottenuto l´estensione della maternità alle manager (per le quali, fino al 2006, l´astensione per maternità era considerata come una malattia), Elena David, presidente dell´Associazione Italiana catene alberghiere di Confindustria, contesta: «La maternità così iperprotettiva è controproducente. Le aziende sono spaventate e la loro riflessione pesa sulla scelta finale». Lei, che ha due figli e alle 8 è ancora in ufficio, pensa però che non si possa imporre per legge una maggiore responsabilità degli uomini. E allora? «L´importante – dice Susanna Zucchelli, direttore generale della multiutility Hera per Imola e Faenza – è che le pari opportunità ci siano davvero e che i genitori possano scegliere in modo libero e maturo chi di loro sta a casa». Se le aziende non possono sapere in anticipo chi tra mamma e papà starà prenderà il congedo; e se lo stipendio tra uomini e donne fosse uguale davvero, non ci sarebbero più alibi. Forse, alla fine, ha ragione la signora Brewer. Che davanti al suo pubblico insiste: «Basta diritti alle donne per la maternità. È ora che sia chiaro a tutti che la famiglia è un problema di tutti, maschi e femmine». Ed è ora che la legge aiuti e riconosca questa rivoluzione sociale.

3 pensieri su “CONGEDI

  1. Articolo superveritiero e superinteressante.
    La maggior parte delle mie amiche ha avuto problemi con la gravidanza sul lavoro – amiche che si occupano di adozioni, amiche che lavorano in organo per la fame nel mondo…. marginalizzate per questa cosa della gravidanza. Aldilà della schizofrenia di una società che cazzia se stessa perchè si perpetua – un po’ Tafazzi nevvero? – è un esperienza davvero desolante.
    E’ come sentirsi dare dello stronza perchè una vo fa pipì.

    Ma la questione si intercetta con altre problematiche in Italia, dico le cose che mi vengono in mente.
    – La donna parte da una marginalità di partenza perchè nella piramide dei dipendenti è sempre più in basso, in media rispetto all’uomo. Più in basso sei più sostituibile sei.
    – Se una donna si congeda per la gravidanza il capo la marginalizza è un conto, ma se lo fa un uomo, in molti contesti lo stigma sociale è più pesante. In una cultura condivisa e non sempre così autocosciente – dobbiamo pensare che non tutte lavorano da Armani a Londra, certe magari sono anche impiegate in un ufficio commerciale a Trapani – il fatto che te stai a casa per il bimbo ci sta. Se ci sta lui no. La nullafacenza è uno stigma che molte donne tollerano più volentieri perchè condividono uno stereotipo di genere. Per certi uomini è la catastrofe.
    – In Germania ci sono molte altre cose che dimostrano quanto la società si prenda carico della sua prole: asili nido per esempio, e sostegni economici per le ragazze madri laddove il padre sia latitante. In Francia il comune offre una serie di attività nei municipi per i bambini – cose molto carine! una mia amica gioca con la storia dell’arte con i bimbi di 4 anni:)) – in modo che i genitori possano avere del tempo il pomeriggio.

  2. quando una mia cara amica rimase incinta, forte delle mie due gravidanze le ho detto: preparati, perchè da questo momento saranno sempre e solo cacchi tuoi, non aspettarti aiuti da nessuno se non da parenti molto stretti e comunque non darlo per scontato. dalla politica che con la parola famiglia si riempie la bocca e la ripete fino a stordirsi fino a non sentirla più non aspettarsi alcunché: voce del verbo arrangiarsi.

  3. Ha ragione Nicole Brewer: i figli sono di tutti e due i genitori e non solo della madre. Il problema in Italia è principalmente questo: gli uomini italiani in casa fanno poco o niente e, come certificato dalle statistiche sull’uso del tempo, aiutano solo un poco con i figli.
    Il difetto sta proprio lì: “aiutano, danno una mano”, ma quasi mai assumono in prima persona la responsabilità della casa e dei figli e se lo fanno è solo per dimostrare la manifesta incapacità della partner.
    Si deve intervenire con le leggi proprio per modificare questo aspetto culturale così radicato. Conosco giovani padri che sarebbero teoricamente disposti a condividere la responsabilità dei figli, ma che concretamente debbono rimanere “bread winner” per portare avanti la famiglia. Non credo, però che nell’Italia di oggi ci sia spazio per modificare la cultura dell’angelo del focolare, anzi mi aspetto piuttosto provvedimenti in senso inverso.

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