COPIA, INCOLLA, PENSA

“Ci toccava imparare. Imparare ad aver coraggio. A non accontentarci del divertimento dei fumetti che pubblicavamo, a nonaccontentarci dell’anticonformismo che ci ostinavamo a perseguire, a non accontentarci del gusto delle scelte che veneravamo”.
(Oreste del Buono sugli anni di Linus: qui il testo di Alberto Saibene pubblicato da Doppiozero)
“Una figura come OdB, in grado di stabilire connessioni e di intuire relazioni possibili tra i diversi ambiti della cultura, oggi in Italia non esiste. Abbiamo intellettuali poveri e stìtici, e anche giovani palloni gonfiati. Mancano gli editori veri, abbiamo ormai solo imprese sull’orlo della catastrofe, delegate a manager più o meno (con una prevalenza del segno meno…) illuminati. L’editoria è più che altro un giro di fatturato, che oggi è al capolinea. La crisi fornisce ampie occasioni di rinnovamento, ma ci credo poco. Oreste era un uomo di idee editoriali, che lanciava e faceva affermare collane con un’idea, un’intuizione (prova ne sia il lanciare i tascabili Einaudi con Omero a inizio anni Novanta: tutti lo sbeffeggiavano, ma lui aveva giustamente intuito che un supporto per la scuola a poco prezzo poteva avere successo… e poi mise insieme in collana Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano di Gino & Michele, lasciando il titolo di Marcello Marchesi!). Un intellettuale come lui non esiste più e forse, appunto, non può più esistere di questi tempi. L’editoria è troppo cambiata e troppo piena di mezze figure, attente a salvaguardare la propria poltrona”.
(Daniele Brolli, due anni fa, qui)
“Bisognerebbe prima stabilire a che tipo di letteratura appartiene Schulz, ma comunque, senza anda­re nel difficile. io lo avvicinerei a Salinger, però con un interesse molto più ampio e secondo me molto più profond.
(Elio Vittorini con Oreste del Buono risponde a Umberto Eco sui fumetti, qui)
“Quando pensiamo alla perdita, intendiamo in genere quella di una persona che amiamo e che la morte ci può strappare. Ma la perdita è un tema ben più complesso nella nostra vita. Perché noi non perdiamo solo attraverso la morte, ma anche abbandonando e venendo abbandonati, cambiando e lasciando andar via e facendo andar via. E le nostre perdite non includono solo le separazioni e i distacchi da coloro che amiamo, ma anche le perdite consce e inconsce dei nostri sogni romantici, delle aspirazioni impossibili, delle illusioni di libertà e potere, delle illusioni di sicurezza, e la perdita del nostro io degli anni giovanili, quell’ io che pensava di poter restare intatto e invulnerabile e immortale….
Queste righe di un libro appena letto mi sono tornate in mente imperiosamente l’ altra sera, assistendo al bel programma televisivo Tanti saluti dal Sessantotto, che Andrea Barbato ha dedicato a questa già vecchia stagione di vita. Apparivano le facce di allora, irradianti energia, i corpi asciutti e agili, le figure eroiche, o che perlomeno si sarebbero dette votate a un destino glorioso; e poi, in contrasto, apparivano le facce di oggi, soffuse di rassegnazione o soddisfazione troppo simili, i corpi arrotondati e appesantiti, le figure ormai dimesse, assestate nella sopravvivenza. Un contrasto straziante, ma non straziato, vissuto con qualche spunto di autoironia e di misericordia per tutti, in un tentativo di distacco dall’ io degli anni giovanili, che mi ha fatto ricercare nella pila dei libri già scorsi questo Distacchi di Judith Viorst (Frassinelli, pagg. 431, lire 24.500). Non sarà un libro eccelso, però è un libro utile per fare i conti non solo con la nostra vita, ma con la vita di tutti: la vita in genere. Judith Viorst è una ricercatrice dell’ Istituto psicoanalitico di Washington, che dichiara di non essere una psicoanalista, di non essere una freudiana in senso stretto, ma di condividere senza esitazioni la convinzione di Sigmund Freud che il nostro passato, con tutti i suoi desideri, le sue passioni e i suoi terrori, dimori nel presente, e che l’ inconscio abbia un enorme potere nel forgiare gli eventi della nostra vita.
Come Freud, Judith Viorst è sicura che prendere coscienza possa aiutare, possa aiutarci a capire cosa stiamo facendo. Così ha cominciato ad analizzare tutte le perdite che si verificano lungo il corso della nostra vita, e il perché sia necessario che si verifichino, il legame vitale tra quanto perdiamo e quanto guadagniamo.
Distacchi contiene appunto i risultati di una lunga ricerca. La vita comincia con una perdita. Usciamo dal grembo materno senza un appartamento, un piatto pronto, un lavoro o un’ automobile. Siamo dei poppanti piangenti e indifesi. Nostra madre si frappone tra noi e il mondo, proteggendoci da un’ angoscia che ci annullerebbe. Non abbiamo un bisogno più grande del bisogno di nostra madre. Eppure possiamo diventare veramente noi stessi solo distaccandoci da lei. E’ la grande impresa in cui ci imbarchiamo nei primi anni di vita, il compito inaugurale ed essenziale. Sino a quando non impariamo a tollerare una separatezza fisica e psichica, a liberarci dal bisogno della presenza di nostra madre, della sua continua presenza in senso stretto, non siamo in grado di contare su noi stessi come esseri a sé stanti.
Una grande, difficile, apparentemente innaturale impresa, quella di riuscire a reggerci da soli sulle nostre gambe e contemporaneamente a sentire di essere una persona diversa, separata dal corpo di nostra madre. Una perdita gravissima, ma da affrontare con ogni risorsa a nostra disposizione: anche con l’ astuzia della sopravvivenza. Se è nostra madre a lasciarci quando siamo troppo giovani, troppo impreparati, troppo vulnerabili, il costo di questa perdita può essere troppo alto per il resto della nostra vita.
Ma se nostra madre ci concede il tempo di lasciarla, dobbiamo sapere sfruttare ogni suo abbandono parziale: per fare la spesa, per lavorare, per amare nostro padre o un altro, per partorire un nuovo figlio, insomma, per avere un minimo o un massimo di vita per suo conto. Dobbiamo sperimentare queste sue assenze come prova della nostra irrinunciabile autonomia. E, quindi, dobbiamo convertire lo spavento e il dolore degli abbandoni momentanei di nostra madre come prime tappe del nostro distacco in corso. Dobbiamo assolutamente ricavare un senso positivo dalla nostra sopravvivenza.
La separatezza, in fin dei conti, è un problema di percezione interna più che di distanza. Si basa sulla scoperta che noi siamo distinti dagli altri. Occorre riconoscere i confini che ci limitano e ci definiscono, il nodo centrale del Sé che non può essere alterato né smesso come un abito. Si diventa esseri separati non per una rivelazione improvvisa, ma per lenta maturazione. A ogni stadio della separazione-identificazione vacilliamo o ci irrobustiamo, restiamo bloccati o cresciamo, ci ritraiamo o progrediamo. Le nostre prime identificazioni tendono a essere globali, a racchiudere tutto. E’ solo con il tempo che riusciamo a rinunciare a continuare a essere il tutto, o meglio ad ammettere i nostri continui cambiamenti.
Siamo prima neonati, poi bambini, poi adolescenti, poi preadulti. Intorno ai vent’ anni, assumendo i primi impegni lavorativi o creandoci nuovi legami, impostando uno stile di vita, ci lasciamo alle spalle gli approcci. Rivedendo intorno ai trent’ anni tutto il già fatto alla luce delle prime esperienze, progettandone altre più ponderate, cerchiamo di stabilizzarci, investendoci nel lavoro, negli amici, nella famiglia, nella comunità o altro. Ed ecco arrivare i quarant’ anni, e lo stupido slogan che la vita comincia a quarant’ anni, che stiamo migliorando, non invecchiando. Balle. Potremmo cercare di ripetere a noi stessi che non siamo cambiati rispetto a quando andavamo all’ università, ma è piuttosto difficile convincerci. Le rughe che ci venivano quando ridevamo, una volta finito di ridere scomparivano. Ora fanno parte integrante della nostra faccia. Conviene renderci conto che questo è un periodo della vita in cui si deve rinunciare maggiormente che nei periodi precedenti. A quante cose disparate. Rinunciare, rinunciare, rinunciare. Al vigore. Al senso dell’ avventura. Ai decimi di vista. Alla fiducia nella giustizia. Allo zelo. All’ allegria. Alla speranza di leggere tutti i libri che abbiamo acquistato per la vecchiaia. Siamo già vecchi. Se i nostri genitori vivono ancora, scopriamo il dovere di diventar genitori dei nostri genitori. Avremmo preferito continuare a essere genitori dei nostri figli, ma i nostri figli ci abbandonano per diventare genitori a loro turno. E inoltrandoci nella vecchiaia, sentiamo insorgere sempre più in noi l’ insofferenza per le tempestose crisi giovanili come per quelle melense dell’ età di mezzo. Come abbiamo potuto sprecare tante energie inutilmente? La vecchiaia, perdurando, porta molte altre perdite, un carico che a volte pare eccessivo. La salute, la gente che amiamo, la casa che è stata il nostro rifugio e il nostro orgoglio, il posto nella comunità familiare, il lavoro e lo stato sociale, la sicurezza economica, il potere di controllo e di scelta.
Non resta che un’ ultima formalità, la separazione conclusiva. Si sa pochissimo del modo in cui la gente muore. Eppure è il momento dell’ identificazione estrema. Infatti, pare proprio che si muoia secondo il proprio carattere. Il vile muore con viltà. Il coraggioso con coraggio. Lo stoico si sottomette senza protestare all’ ultima necessità. Quelli che negano la realtà continuano a negarla sinché gli riesce respirare. Chi è ossessionato dalla propria indipendenza conquistata con sforzo, si duole di dover dipendere da chi lo cura. Chi ha vissuto la separazione come un viaggio pieno di terrore, trova nell’ ultima separazione l’ immagine stessa del terrore. Ma chi ha vissuto ogni separazione come una successiva, necessaria conquista, può avere il dono di una nuova opportunità, uno sviluppo emozionale sino a quel momento impensabile: la contemplazione del mondo e di se stesso senza spirito di parte.
Distacchi di Judith Viorst non è un libro lugubre: tutt’ altro. E’ un libro semplice ma ricco di forza e di dolcezza, in cui le citazioni dei poeti amati si mescolano alle sentenze degli psicoanalisti studiati. La definizione più bella della conclusione di tutto è, però, di uno psichiatra, K.R. Eissler: Un ultimo passo avanti”.
(Oreste Del Buono, Repubblica, 22 gennaio 1987)
Ps. Capito perché a volte ci si intristisce quando quegli anni, quei quindici tra 1965 e il 1980, vengono raccontati come “giovanifannocasinopoisparanopoisidroganomoltimuoionoinfinearrivailriflusso”?

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