Rileggendo i diari di guerra di mio padre, ritrovo il passaggio che mi ha sempre colpito. Mio padre, vent’anni, è in Grecia. Ha davanti a sé un ponte, uno di quei ponti che noi abbiamo conosciuto solo nei film di Indiana Jones, fatti di tavole di legno e corde. Deve arrivare dall’altra parte. Dietro di sé ha i soldati di un altro esercito, che incalzano. Deve dunque attraversare il ponte. Ma quando è quasi a metà, iniziano a mitragliare dall’alto. Lui si butta pancia a terra, sul ponte, e pensa: muoio. Poi, non si sa come, si rialza e corre e corre e infine arriva sull’altra sponda e si salva (poi la guerra finirà, lui conoscerà mia madre, e questa è un’altra storia).
Più avanti.
Quando, come avviene in questi giorni, qualcuno fa riferimento agli anni Settanta (riferimento non calzante: quello che accadeva era enormemente diverso dalla guerra ed è diverso, e ci torno, da quel che accade ora), la corsa è quella che mi viene in mente. La mia, la nostra. Aspettare l’autobus a largo Argentina, vestita come ci si vestiva allora, e già questo, in certi cupi mesi, era un pericolo: e dunque un simil-eskimo, bisaccia, scarpe da maschiaccio. Una carica della polizia, non si sa perché, non si sa contro chi, ma si dirige verso il drappello che aspetta l’autobus, fra cui la me ventenne. Correre. Passare volando davanti al Burcardo, la biblioteca teatrale, infilarsi nelle stradine che portano a Campo de’ Fiori. Suonare ai citofoni. Suonare e suonare, senza risposta. Rassegnarsi ai portoni chiusi. Correre, raggiungere un androne non sbarrato. Nascondersi. Aspettare.
Il grande trauma di questi giorni è che non si può correre. E non parlo dei runner che sono diventati gli untori e i presunti colpevoli (e se colpa c’è, e c’è, sapete bene a chi va attribuita: alle fabbriche aperte, ostinatamente aperte, tuttora in molti casi aperte). Parlo di qualcosa davanti alla quale non si fugge, ma si tenta di sottrarsi restando fermi. E’ il virus a correre, e a coprire il mondo stato dopo stato, continente dopo continente, come nei film di zombi.
Non possiamo purgarci, insomma, dalla nostra angoscia. E non solo perché non possiamo fisicamente muoverci dalle nostre case. Come dice Murakami Haruki nell’Arte di correre, “scrivere è un’attività pericolosa, una perenne lotta con i lati oscuri del proprio essere ed è indispensabile eliminare le tossine che, nell’atto creativo, si determinano nell’animo di uno scrittore”. Lui, appunto, corre. Altri scrittori riescono a eliminare quelle tossine in cento altri modi: camminando, viaggiando, parlando, incontrando. Altri che scrittori non sono corrono comunque, nelle rispettive vite, perché nelle vite del tempo che precede febbraio si correva.
Dunque? Dunque quello che sto provando a fare è trasformare la mia immobilità in corsa mentale. Pensa, e scrivi, e leggi, e parla, mi dico ogni mattina. Cambia maglione e giacca anche se nessuno ti vede. Alzati presto, anche se non devi attraversare Roma per arrivare in radio. Ascolta e ascolta e ascolta. Corri.
“È passata attraverso un lungo tempo buio, ha scambiato molte parole con le persone della notte che nella notte ha incontrato, ma ora finalmente è tornata al luogo a cui appartiene. Attualmente, almeno per il momento, attorno a lei non vi è nulla che la minacci”. (Murakami Haruki, After Dark)
Suggestioni molto importanti. Personalmente, mi considero fortunata perché ancora sento un senso di protezione e tranquillità davanti al fuoco della mia stufa a legna. Quel senso di sicurezza, é ovvio, può venire solo da lontano, dai nostri antenati che al fuoco si affidavano per la propria sopravvivenza. E io, con i miei libri che mi “sforzo” in questi giorni di frequentare (che poi mi danno comunque una soddisfazione), con le voci di radio tre che mi aiutano a pensare cose intelligenti e sostituiscono le chiacchierate con gli amici più preziosi e stimolanti, mi sento fortunata. Molto, davvero.
Correre fino a che ti scoppia il cuore per tenere lontane le troppe voglie che c’inseguono. Io non sono allenato per questo, forse sta meglio chi le ha tenute lontane sempre e comunque… Magari ora ripensano al passato. Magari stanno peggio di me.