Sempre per la piccola cosa su Roma che sto scrivendo, riguardo vecchi post. Mi spavento. Mi rendo conto che in questi quasi due anni, riducendo al minimo la mia presenza sui mezzi pubblici della città, ho perso il contatto con quello che siamo o stiamo diventando. Quando parliamo di aggressività sui social tagliamo fuori quella reale. A memoria, mia e vostra, un florilegio.
Fermata Bologna. Ragazza. “In metropolitana non si legge”. Ci metto un po’ a realizzare, anche perché ho ripiegato il giornale in quattro, in modo che (rapido controllo: sì, le misure coincidono) le due estremità non superino gli esigui confini dello spazio-passeggero toccatole in sorte. Accompagnatore della ragazza: “Il giornale si legge in ufficio”. Ah. Sguardo di disapprovazione da parte di altre due donne con cartellina di cuoio e aria truce. Ripiego ulteriormente il giornale e smetto di leggere.
Passaggio interno dalla linea B alla linea A. Enormi tabelloni pubblicitari Snai, società di scommesse sportive: sulla sinistra, un lui che con pollici e indici allargati allude al concetto di “avere fortuna”. Sulla destra, una lei con busto inarcato e sorriso malizioso, sulle tette la scritta “Prendila”. Penso. Sarebbe bello che i moralisti in sandali che imprecano contro, a scelta, film, telefilm, cartoni “volgari” si facessero un giro qua sotto. Linea A. Riapro il giornale. Fermata Barberini. Signora con tailleur nero: “Il giornale dà fastidio. Non si legge in metropolitana”. E tre. Già, tre: sui sedili sotto di me, una vicina allaltra, tre ragazzine sono concentrate su altrettanti libri (nell’ordine, da sinistra a destra, I love shopping, Mille splendidi soli, La masseria delle allodole). Fermata Spagna. Passeggero ad altro passeggero: “Bastardo. Stronzo. Ti spacco la faccia. Togliti dai coglioni”. Flaminio. Passeggero di nazionalità non identificata a passeggero italiano che insiste “che c’è posto avanti” e che dunque bisogna spostarsi: “Se potrei, mi sarei spostato”. Mi guarda: “Potessi?”. “Potessi”, dico. “Rumeni di merda”, dice il passeggero italiano.
Linea B della metropolitana di Roma, ore otto del mattino. Caos, come sempre. Ma con il tocco inedito dell’esercito: ovvero un bel drappello di soldati fuori e dentro dalla stazione.
Naturalmente, non resisto: e chiedo a uno di loro il motivo dello schieramento. Con un sorriso gentile, mi spiega che stanno sfollando clandestini. “Quali?”, gli domando, e aggiungo un “Perché?” che non si aspettava. Nuovo sorriso: “Non è normale che la gente pianti le tende nei parchi”.
Interrogandomi sul concetto di normalità, scendo le scale. Mi si affianca una coppia di signore. “Ci sono troppi zingari”, sibila una delle due. Prevedibilmente, rispondo che ci sono anche troppi pessimi italiani. Gran risata. Fine.
Autobus romano (linea 70, direzione piazzale Clodio, ore 9). Fermata. Due passeggeri di colore chiedono di scendere dalla porta vicino all’autista. Vero, non si può, e l’autista li rimanda alla porta centrale. Che però chiude in faccia ai due , e riparte, facendogli saltare la fermata.
Mi alzo, e dico al solerte guidatore che con due italiani non l’avrebbe fatto. Risponde a mezza bocca che è il regolamento. Nel frattempo, vengo aggredita da un altro passeggero, che urla “e che, dobbiamo tenerceli? A casa. A casa loro”. Si unisce un’altra signora (“a casa, a casa loro”), mentre il passeggero urlante mi invita a trascorrere da sveglia le mie notti in attività sollazzanti, invece di rompere i coglioni alla gente perbene.
Scendendo, una ragazza si avvicina e mi chiede: “Vale la pena di litigare per una cosa del genere?”.