ROMA, IL BENE E IL MALE, UNA VECCHIA STORIA

Mi chiedo: ma perché sono arrabbiata così tanto con Roma? Provo a fare un esempio con parole non mie. Nel 2007 una ventenne uccise un’altra ventenne nella metropolitana di Roma, luogo ad altissimo tasso di violenza repressa, come ben sa chi la frequenta: durante una lite le conficcò la punta dell’ombrello nell’occhio. Una morte orribile, una storia orribile. La ragazza uccisa si chiamava Vanessa Russo, la ragazza che uccise si chiama Doina Matei. Matei venne condannata a 16 anni di carcere nel 2010. Nel 2019, con un anticipo di quattro anni, esce dal carcere per buona condotta. Pubblica una fotografia al mare. L’attiva popolazione della rete ne chiede la testa. E fin qui, purtroppo, niente di nuovo. Ma fra i ritagli e gli articoli che ho conservato, come se avessi saputo che prima o poi avrei scritto di Roma, c’è un intervento di Luigi Manconi che risale appunto al 2010. E che leggo, e rileggo, perché così dovrebbe essere, così bisognerebbe saper e poter parlare.
Luigi Manconi, La parabola di Vanessa e Doina
L’insensata tragedia dell’assassinio di Vanessa Russo nella metropolitana di Roma, col volgere dei giorni, si è trasformata da atroce fatto di cronaca in parabola sapienziale, non so se religiosa o laica (ma ha una qualche importanza?). Un dramma crudele che è stato manipolato in chiave etnica dagli “imprenditori politici della paura”, che hanno tentato di trovarvi la scintilla di un possibile conflitto razziale (un titolo di quotidiano: “Ragazza rumena uccide italiana”!) : quando si era in presenza, palesemente, di una infelicissima vicenda di cronaca. Una vicenda dove il caso avrebbe potuto invertire esattamente le parti, collocando la vittima al posto dell’assassina, e viceversa.
E poi, ecco la “novità”: non per iniziativa della difesa, ma per atto dovuto del pubblico ministero, emerge che Vanessa veniva da una storia tormentata di tossicodipendenza, forse mai conclusa, e attualmente si trovava sotto terapia di metadone. Questo dato biografico, ce la rende ancora più cara: anche lei, come Doina, ha conosciuto l’asprezza e il dolore del vivere. E invece, quello stesso dato biografico (la tossicodipendenza) ha suscitato in Alessandra Mussolini, nel corso di una trasmissione televisiva, una reazione totalmente opposta: “adesso vogliono infamare la vittima — ha detto l’europarlamentare — per scagionare l’assassina”. Il che serve a ricordarci che la distanza tra noi e un avversario politico può essere davvero incolmabile.
Ma perché la storia di Vanessa/Doina può essere intesa come una parabola? Perché offre l’opportunità di leggere la grande questione del Male e — per rimanere alla nostra portata — il problema sociale della violenza e della responsabilità, del crimine e della colpa, in una maniera straordinariamente efficace e, direi, salutare. Quella storia ci dice, infatti, che la divisione netta del mondo, e quindi dell’organizzazione e della vita sociale, in “buoni” e “cattivi” non è semplicemente difficile (o meglio: impossibile): corrisponde, bensì, a un falso scientifico e a un imbroglio ideologico (o religioso o culturale o antropologico). Gli uomini e le donne che si incontrano, che hanno rapporti, che fanno negozi, che confliggono, che si amano e che si
odiano, che si cercano e che si fuggono, sono, appunto, uomini e donne : ovvero un impasto misterioso e inestricabile di virtù e vizi, di pulsioni aggressive e sentimenti pacifici, di volontà di potenza e di disponibilità alla cooperazione, di grettezza e di oblatività (e molte altre coppie di termini potrebbero essere evocate).
Questo è tanto più vero quanto più quegli uomini e quelle donne hanno fatto esperienza della fatica esistenziale, della sofferenza personale e del degrado individuale e collettivo: e, quindi, quanto più le loro scelte sono condizionate da quei percorsi di emarginazione. Tutto ciò, a mio avviso, riguarda una parte significativa della società, ma — certamente — interessa in particolare quanti vivono, o hanno appena finito di vivere, condizioni di abbrutimento. In essi — malati di mente, tossicomani, detenuti, alcolisti, dipendenti da qualunque sostanza, uomini e donne “di strada” — la possibilità di offendere e ledere altri è maggiore. Questo non ne annulla la potenzialità di “fare il bene” o, ancora, di “godere del bello” (avreste dovuto vedere quei venticinque detenuti di Rebibbia Penale ascoltare Vittorio Sermonti leggere Dante; e dovreste sapere che nel luogo d’Italia dov’è più alto il tasso di analfabetismo, il carcere appunto, si tengono ben 136 corsi di scrittura creativa). Dunque, la parabola di Vanessa/Doina dice, inequivocabilmente, che la devianza, e la conseguente marginalità, è una possibilità nell’esistenza di molti: non è (non dev’essere) uno stigma perenne né una condanna a vita. E, soprattutto, può riguardare molti di noi: per una volta sola o per un periodo dell’esistenza, per la follia di un’ora o per una debolezza irreparabile.
Attenzione: ciò non vuol dire che sia innanzitutto il caso (e nemmeno “le colpe della società”) a determinare quella devianza, che si traduce talvolta in crimine; conta, eccome se conta!, il libero arbitrio, o comunque si voglia chiamare la capacità di autodeterminazione, che è propria di ogni essere umano: anche dove e quando l’autonomia sia la più ridotta. Ma, una volta assegnata alla libera scelta di ognuno la prima responsabilità degli atti compiuti, tutte le altre cause o con-cause, e i fattori agevolanti e quelli acceleranti, e le circostanze e il contesto, vanno attentamente considerati. Ovvero assunti come (anche) propri: dell’intera società, cioè, e della corresponsabilità che deriva dal legame sociale. E ciò, si badi bene, non è questione di altruismo né di solidarietà: bensì, è vincolo politico di reciprocità, proprio di ogni comunità organizzata. Il che, attualmente e “normalmente”, non avviene in alcun modo. E proprio perché la società avverte — più o meno consapevolmente — che tutto ciò la coinvolge e la turba nel profondo: e ne svela l’intima debolezza. Pertanto, la società ne fugge e procede a una vera e propria rimozione.
E qui, ancora una volta, le parole sono rivelatrici. L’emarginazione di cui parlo corrisponde, appunto, a una messa ai margini: a uno spostamento-esclusione-occultamento. E, dunque, l’architettura, l’ingegneria e, in particolare, l’urbanistica c’entrano moltissimo. Non è un caso che i progetti di nuove carceri prevedano, tutti, la realizzazione degli edifici o in periferia o a qualche distanza dalla città e la dismissione di istituti collocati nei centri cittadini (come San Vittore e Regina Coeli). E’ forse fin troppo facile, ma non per questo meno giusto, dedurne che quella procedura di “nascondimento” degli istituti di pena sia la trascrizione toponomastica di un processo psichico collettivo, che va qualificato, appunto, come rimozione. E rimozione è proprio l’atteggiamento prevalente nei confronti del carcere da parte della collettività. E’ un termine, questo, significativamente ambivalente : in uso nel linguaggio tecnico-professionale dell’edilizia e in quello tecnico-professionale delle discipline della psiche. Nel primo caso, si parla di rimozione dei residui, dei resti, delle macerie; nel secondo, di rimozione degli scarti dell’inconscio o, se vogliamo, dei detriti della psiche.
In altre parole, la società, l’opinione pubblica, la mentalità collettiva tendono a spostare fuori dalle mura cittadine (e dal proprio sguardo) i luoghi della detenzione: e proprio per allontanare da sé quel rimosso rappresentato, appunto, dal carcere e da chi lo abita; e per esorcizzare ciò di cui quegli “abitanti” sono simbolo e, insieme, incubo. Ovvero, sinteticamente, la pulsione, l’errore, il crimine che ciascuno di noi avverte come un proprio rischio — tanto più forte quanto più lo si nega — al quale si è sottratto, ma dal quale non si sente immune. Forse tutto ciò contribuisce a spiegare il rifiuto di gran parte della società italiana nei confronti del provvedimento di indulto. Ma vallo a dire a quelle vanesie star televisive, terribilmente “di sinistra” e terribilmente virtuose, che — nella trasmissione televisiva già ricordata — si esercitavano nel loro cinismo futile e mondano, torvo e, insieme, ilare: e totalmente incapace di “sentire” — con intensità e verità — il dolore delle vittime e quello dei colpevoli. Loro sono il Bene, e per loro vale quanto il Danton di Bùchner affermava a proposito di Robespierre: “E’ così virtuoso che per lui la vita stessa è un vizio”.

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