COSE DA DIRE SU STELLA DEL MATTINO

Vi avevo già detto che ho molte riflessioni da fare sul Stella del mattino: ebbene, le farò in diretta,  questo pomeriggio alle diciotto alla Mondadori di via Piave.
Intanto, potete ascoltare la registrazione dell’intervento di Wu Ming 4 a Fahrenheit.  O leggere quel che scrive oggi Ranieri Polese sul Corriere della Sera (ancora non on line).
Ps. Non c’entra, ma se potete non perdete, stanotte, questo documentario di Francesca Catarci.

18 pensieri su “COSE DA DIRE SU STELLA DEL MATTINO

  1. a proposito di New Italian Epic, oggi esce “E venne il giorno” di M. Night Shyamalan, un autore fortemente politico e quasi mai compreso quanto meriterebbe. Scusa l’Off Topic Loredana.

  2. scusate l’intromissione, volevo solo far notare a William Dollace che M. Night Shyamalan non è italiano, quindi è dubbio che nel suo caso si possa parlare di “New Italian Epic” 😉

  3. Wiliam, d’accordo con te sul fatto che Nyght Shyamalan è (oltre che un grande regista) fortemente politico e quasi mai compreso. Purtroppo è anche fortemente di destra, di quelli che credono nel “buon uso politico della menzogna” e nella paura come strumento di governance: il Thomas Hobbes del terzo millennio, se mi passi l’iperbole.
    (E poi sì, c’è anche il fatto che non è italiano)

  4. girolamo, the village ti sembra un “fortemente di destra”?? Oppure la santificazione del rallentamento del progresso a favore di uno sguardo all’indietro decostruttivo del progresso verso ciò che eravamo in lady in the water?
    e poi perchè “purtroppo”? Non può esserci semplicemente rispetto/osservazione fra le opposte politiche, ammesso che Oggi esista ancora una vera identità politico-ideologica?
    e poi esce in italia no…? ha ha ha!

  5. William, il “purtroppo” è qualcosa di simile ad un sospiro: ho visto tutti i film di Shyamalan, ci ho scritto sopra, credo di rispettarlo. Purtroppo l amia non è un’interpretazione: lui stesso ha definito “The Village” un film sul dopo-11 settembre, e nella stessa intervista ha sostenuto il legittimo diritto ad usare la menzogna a fin di bene, con evidente allusione alla campagna informativa, rivelatasi falsa, che preparò la guerra in Irak. Sempre nel 2004 ha dichiarato che per la prima volta avrebbe votato, e avrebbe votato Bush: «Un anno fa ero stanco dell’idea che un uomo del genere potesse continuare a governarci e, soprattutto, a rappresentarci. Ora non più».
    Quando lo definisco di destra non intendo dire che lui è brutto e sporco. Destra e sinistra non sono sinonimi di cattivo/buono, brutto, bello, stupido/intelligente, ecc. Non basta essere critici verso il progresso per definirsi politicamente: si può esserlo perché si crede che il progresso sia, in sé, un valore negativo, comunque esso si manifesti, oppure perché si è contro un certo progresso, ma in favore di un altro progresso. Essere di destra significa far propria un’antropologia negativa, che crede nell’ineliminabilità del male dal cuore dell’uomo e nell’impossibilità di proteggersi dal male senza un aiuto dall’alto, e nella superiorità dei valori individuali e naturali su quelli collettivi e creati dall’uomo: tutto qui. È per questo che, anche se non l’avesse dichiarato lo stesso regista, mi sembra ovvio (e non offensivo) dire che Shyamalan sia di destra.

  6. “Destra e sinistra non sono sinonimi di cattivo/buono, brutto, bello, stupido/intelligente, ecc.” ma daiii??? e poi l’evento 11 sett. è un evento talmente personale nel senso americano del termine ed atipico nella sua geopolitica, epocale nei suoi meccanismi di smontaggio delle certezze e disorientamento globale che non è pienamente così comprensibile ancora per gli europei, ovvero. comunque, fatto sta che The Happening è il Lady in The Water ATTO II, un altro urlo nella notte, un altro capolavoro conservatore nel senso più politico e meno politico del termine. un Grazie dai suoi fedelissimi al Moderno e Contemporaneo M. Night Shyamalan.
    ma le fiabe secondo voi che orientamento politico hanno??

  7. William, magari mi sbaglio, ma la tua reazione mi ricorda un po’ quella dei fans di Miller dopo il mio intervento su “300”.
    Riassumibile così: “siccome a me piace, allora non è di destra”.
    Miller piace anche a me, e l’ho pure detto e scritto.
    Però è di destra.
    Anzi, è poco meno di un fascista.
    E lo dice pure.
    Odia le altre culture.
    E lo dice senza problemi.
    Critica Bush *da destra*, e in modo esplicito.
    Mi hanno sfranto le palle dicendo che banalizzavo Miller, perché dicevo che le sue sono opere di propaganda, piatte “allegorie a chiave” apologetiche di Legge & Ordine e dello scontro di civiltà.
    Poi arriva Miller medesimo – intellettualmente molto più onesto di certi suoi ammiratori – e in un’intervista al “Los Angeles Times” definisce testualmente “propagandistico” il suo intento.
    E non è un caso che il film sia diventato un manifesto, un pungolo elettrico e un serbatoio di simboli per gruppi fascisti di varie latitudini. La loro è un’interpretazione coerente e per nulla arbitraria.
    E non è un caso che il dissidente iraniano Ahmad Batebi dichiari che “300” ha fatto il gioco del regime fondamentalista: “Voglio mostrare i millenni di civiltà, la cultura che sopravvive in questo Paese a dispetto del fondamentalismo sciita che vorrebbe cancellare tutto. Voi in Occidente non potete sapere. Persino il film americano ‘300’ ha fatto il loro gioco: mostra i Persiani come barbari violenti, mentre la verità è che Ciro il Grande ha scritto la prima Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo 539 anni prima di Cristo.”
    Questo non toglie nulla alla qualità estetica dei lavori di Miller. Dal punto di vista estetico, “300” (tanto il fumetto quanto il film) mi è piaciuto e l’ho scritto.
    Ma è un’opera di propaganda, basata sull’odio.
    Ed è un’allegoria a chiave, fatta di corrispondenze meccaniche tra passato e presente, tra racconto e realtà.
    Una scelta troppo facile, un esempio negativo per chiunque cerchi di lavorare in modo serio sull’epica, sul mito, su un equilibrio tra complessità e pop.
    Quanto a Shyamalan, “The Village” mi è sembrato un apologo sull’uso legittimo della paura di un Nemico Esterno (inesistente) per cementare l’identità del gruppo-stato-nazione.
    Un apologo maccartista, e anche in quel caso mi è parso trattarsi di un’allegoria a chiave. Meno crassa e volgare di quella di “300”, ma comunque un’allegoria a chiave.
    Poi può darsi che io mi sbagli, ma se nelle interviste Shyamalan dichiara una visione del mondo coerente con la mia impressione, può darsi che io non mi sbagli affatto.
    L’opera ha una sua autonomia rispetto all’autore, ma se io nell’opera vedo un intento e, guardacaso, è proprio l’intento con cui l’autore l’ha creata, beh, bingo.

  8. Solo una curiosità su “300”: nel film viene riprodotta con molta fedeltà la panoplia degli spartani, anche con una certa attenzione ai dettagli (es:la lettera *lambda* sullo scudo). Tuttavia un elemento… scompare: il corsetto in lino pressato che gli opliti (non solo spartani) indossavano in combattimento. L’intento nel film è palese, il corsetto scompare per evidenziare i muscoli del torace di ogni singolo combattente e quindi imporre un’immagine molto virile.
    Io non ho mai letto o sfogliato il fumetto, non lo conosco. La mia curiosità è questa:anche nel fumetto è così?

  9. su 300 sicuramente hai ragione. non ho letto il tuo saggio. Io scrissi qualche riga attaccando in toto l’ideale di fast-cinema lì proposto che non condivido e una voce over onnipresente e semionnipotente. e Ripeto Cinema perchè non conosco nè l’opera di Miller, nè il fumetto in generale, inoltre non riesco a dare giudizi estetici scissi da altri tipi di giudizio. poi su destra/sinistra partite dal presupposto che io mi identifichi nell’una o nell’altra.
    effettivamente a mio avviso l’opera di Shyamalan, dopo che me l’avete fatto notare potrebbe sì essere approfondita sotto entrambe le lenti di vista. Voglio dire io la vedo così, my personal opinion. Fatto noto è che in tempi di emergenza globale e pura sopravvivenza le ideologie cominciano a sciogliersi e confondersi.

  10. Dimenticavo: in tempi di emergenza globale le ideologie tendono a indurirsi, a *cristallizzarsi*. Assistiamo al risorgere di fanatismi, integralismi e fondamentalismi di ogni genere. Contrapposizioni identitarie. Nuove, deliranti “grandi narrazioni”. E quella della “fine delle ideologie” era un’ideologia, l’ideologia che voleva il mercato trionfatore definitivo su tutto l’esistente, anche sulle leggi di natura e sul fato, sulla moira. Come da tradizione tragica, questa hubris verrà punita.

  11. Come in The Happening, (att.ne leggero spoiler) davanti alla Morte imminente, ci si prende la mano, si riesuma tutta la Verità, non si accettano segreti, l’ideologia d’appartenenza scompare e cadono in toto le maschere – questo volevo dire. Leggerò senz’altro il tuo intervento su Erano Giovani e Forti.

  12. Che ci vuoi fare. Qualcuno che prova a fare il suo mestiere in questo paese wuminchia ancora sopravvive. Capisco che ti dispiace.
    wm3

  13. Forse per la prima volta sono in disaccordo con quanto scrive Wu Ming 1 ed allora rischio di andare off topic per rispondergli.
    Non credo che Shyamalan abbia molto in comune con registi come Snyder o Mel Gibson. Non saprei come interpretare le sue dichiarazioni riguardo alla propria posizione politica, ma credo di poter interpretare i suoi film, almeno filologicamente.
    Quando parliamo di cinema post 11 Settembre forse dovremmo chiederci quale rapporto esso intrattenga con le immagini che di quegli eventi sono state consegnate alla nostra memoria. Se oggi sembra impossibile scrollarsi di dosso le immagini delle torri crollanti è perché esse hanno assorbito tutto l’evento, senza lasciare spazio a nessun controcampo, a nessun’altra sequenza possibile. Era tutto lì, tutto nel piano totale.
    La mancanza degli strumenti cognitivi necessari a gestire l’imprevedibilità e l’enormità dell’evento è stata riempita da una voice over di commento alle immagini, che negli anni si è evoluta in una vera e propria sceneggiatura del reale palesemente desunta dai film catastrofici hollywoodiani. Storie che per articolarsi hanno sempre bisogno di un duale, di un noi/loro. Storie in cui l’attacco è sempre portato dall’esterno, dall’Altro.
    Invece avremmo avuto bisogno di un lavoro di mediazione, di un controcampo che all’immagine delle Twin Towers opponesse non soltanto folle di medio orientali che festeggiano. Ma i media non mediano più nulla, riversano ciò che vogliono, subito e senza scarti temporali.
    Ed è in questo modo che essi hanno esercitato la propria funzione di potere, che è sempre una funzione normalizzatrice dell’evento. Lo hanno fatto saturando sguardo e coscienza attraverso la ripetizione ossessiva di una medesima serie di immagini. Il risultato è che di quegli eventi conserviamo una memoria d’archivio o, ancor peggio, edificata su una tecnicizzazione del mito. Un mito fatto di aggressori e di aggrediti, di vittime e di assassini, di un’asse del bene e di un’asse del male e che ha avuto come effetto collaterale anche quello di resuscitare tutto un cinema dello splendore e dell’evidenza del vero. Un cinema del vedi e bevi in cui ogni verità è verificabile immediatamente solo perché rinuncia a priori a qualsiasi indagine, a qualsiasi interesse per la verità di ciò che è rappresentato. Un cinema senza soggetti reali, e che per questo è costretto ad inventarseli. Sono i film di Mel Gibson o film come 300.
    Ma che cosa accade quando abbiamo già visto tutto e non c’è più niente da vedere?
    L’imprigionamento dello sguardo, che rimbalza come una palla su un muro. Se nella visione non c’è altro da vedere è perché l’altro è già scivolato nel fuoricampo ed allora diviene necessario riaprire l’immagine normalizzata degli eventi dell’11 di Settembre al circuito della memoria.
    Ed è forse Shyamalan il regista che ci ha dato una drammaturgia degli eventi dell’11 Settembre del tutto alternativa ed opposta a quella mediatica. Basti pensare ad un film come The Village, storia di una comunità che si arrocca su un’identità fondata sulla menzogna e che per costringere le persone a vivere all’interno di uno spazio circoscritto crea l’immagine dell’altro come di una creatura mostruosa e mostruosamente ostile. Un potere che si impone non con la forza, ma con il controllo dell’informazione e che può essere accettato solo a patto di aver paura. Non importa di cosa si ha paura, ma che si abbia paura, fosse anche di cose sovrannaturali, che non vengono mai viste, ma che sono pronte a colpire. E’ lo spettro di Bin Laden che si aggira per l’occidente. Ma un delitto, che nasce e si consuma all’interno della comunità, ne metterà in dubbio molte verità. E non è un caso che l’eroina di questa storia, quella cioè a cui viene affidato il compito del viaggio attraverso la terra oscura, popolata dall’altro, sia una ragazza cieca, che non ha paura perché non può essere ingannata dalle immagini.
    Ed è proprio l’ultimo film di Shyamalan che articola nel modo più chiaro una domanda fondamentale. Cosa sappiamo di un evento quando lo percepiamo soprattutto attraverso l’immagine mediatica? Sappiamo ciò che ci viene fatto vedere e nel modo in cui ci viene fatto vedere. E’ un balzo qualitativo che fa del vedere la garanzia e la sostanza del conoscere, o, per dirla più filosoficamente, che sovrappone il momento percettivo a quello cognitivo rendendo indistinguibile l’evento dalla sua rappresentazione. Credo che l’occasione mancata dei grandi filosofi del postmodernismo, come Baudrillard, sia stata proprio quella di non riuscire a reintrodurre questa differenza fondamentale. Lo ha fatto Shyamalan assieme ad altri registi (Lars Von Trier, Werner Herzog, Abbas Kiarostami).
    La critica statunitense ha stroncato The happening, catalogandolo come appartenente al filone catastrofico contemporaneo. Ed in un certo senso è vero, quello di Shyamalan è spesso un cinema della catastrofe, ma senza un eroe con il bazooka od un geniale scienziato che venga a salvarci negli ultimi quindici minuti del film. C’è ben poco della magniloquenza catastrofica nei suoi film. Shyamalan è invece attento a mettere in scena la difficoltà dei suoi personaggi a superare lo shock cognitivo che avviene quando l’evento si manifesta senza preavviso. E’ questo il senso di una delle prime sequenze del film. Quella in cui alcuni operai parlottano ai piedi di un’impalcatura ed all’improvviso un corpo si schianta a terra. Uno degli operai va a soccorrerlo, ma un altro precipita più in là, e poi un altro ed un altro ancora. Il soccorritore alza la testa: gli operai si tuffano giù dal palazzo che stanno costruendo, in un’immagine che nella nostra memoria richiama immediatamente quella dei corpi che si lanciavano dalle Twin Towers. Ma il punto di vista stavolta è diverso, è dal basso verso l’alto, è quello del soccorritore, non quello totale e frontale televisivo. I corpi i schiantano con realismo, cioè senza schizzi di sangue, ma con un tonfo sordo, con un’inquadratura fugace ai limiti della visibilità.
    Il regista anziché farci vivere la situazione esterna, con un piano totale, aereo, sceglie di costruire la drammaturgia di questa sequenza attraverso una serie di inquadrature in cui è il volto del soccorritore a prendere il centro dell’azione. E’ sulla superficie di questo volto che vediamo svilupparsi qualcosa che non è più solo paura, ma anche un’impossibilità a capire, una difficoltà cognitiva. Ed è sul volto di questo attore che si decide il destino del mondo, perché su di esso si segna un punto limite, il bivio tra azione compulsiva, cioè difendersi a tutti i costi non si sa bene da chi o da cosa, e l’elaborazione di un quadro cognitivo più ampio.
    I media in questo film svolgono un ruolo chiave, sono quelli che il tempo non ce lo lasciano, il significato di un avvenimento e la sua immagine vengono dati in modo contestuale, senza scarti o vuoti. Nel loro tentativo di normalizzare l’evento, cioè di ricondurlo all’interno del conosciuto, diffondono teorie di attacchi ed attentati batteriologici, oppure fanno passare immagini terrificanti, senza alcuna mediazione, come quelle riprese da un telefonino in cui un uomo si fa sbranare dai leoni.
    In realtà l’unica cosa che i personaggi riescono a comprendere è che a propagare il virus sono le piante, che si ribellano, ed a trasportarlo il vento. Ed è forse questa intuizione ecologica l’allegoria più geniale di tutto il film. Se il male è una reazione ciò non significa che sia individuabile, o se lo è si tratta di un’individuazione talmente generica che estirparlo, in questo caso distruggere tutte le piante, equivarrebbe al suicidio collettivo. Se c’è un’ecologia in Shyamalan è un’ecologia dell’umano.
    Ma ancor più interessante è il vettore del male: il vento, un elemento che non si può filmare perché non si può vedere. Possiamo sentirlo in faccia, riconoscerne il rumore, vedere gli alberi piegarsi, ma il vento stesso è qualcosa che sfugge allo sguardo. Ed è questo tentativo di abolire la vista che in Shyamalan diventa una costante. Perchè si trasmetta veramente qualcosa, si possa testimoniare una verità per quanto piccola diviene allora necessario affidarsi ad altri sensi. Non basta lo sguardo per capire l’evento. Ma questo non è quello che sostiene anche Giuseppe Genna in Apocalisse con figure?
    E’ l’introduzione di un pensiero avversativo che separa provvisoriamente l’evento dalla sua immagine, spostando l’attenzione sullo scarto che continua a sussistere tra immagine e mondo ed è là che il cinema (la letteratura?) deve abitare. Perché se l’immagine sembra definitivamente staccata dalle cose e dalle persone che rappresenta, è allora necessario tornare a stabilire un patto della visione, un rinnovato credito alla rappresentazione, perché per potere agire nel mondo, bisogna innanzitutto credere al mondo e per credere al mondo bisogna credere alla sua descrizione. Ed è al cinema che spetta il tentativo di separare eventi e rappresentazioni per poi intrecciarli di nuovo, ma secondo una forma più giusta e vera della sovrimpressione televisiva. Ma non è quello che possiamo ricavare anche da Sappiano le mie parole di sangue?
    Insomma caro Wu Ming1, quando torni dalle vacanze magari ne parliamo tutti assieme.
    Ps: c’è un film sul rapporto tra media ed 11 Settembre che qui quasi nessuno ha visto perché non è mai stato distribuito, ma se capite un po’ d’inglese potete scaricarlo dalla rete: Diary of the Dead di George A. Romero

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