DA CAMERINO A L'AQUILA: LA RIVOLUZIONE CHE CI VUOLE

Ci vuole una rivoluzione. Ascoltate la puntata di Fahrenheit di ieri: intorno a 1.25, nel podcast, Tomaso Montanari parla del cratere:
“Sembra che ci sia un’altra Italia, lontana dagli sguardi dell’Italia mainstream, dell’Italia delle metropoli. E a volte ci chiediamo cosa possiamo fare noi per quelle regioni. Certo, ora dobbiamo salvarle. E’ uno scandalo spaventoso che non si investa, che non si lavori, che non si riportino i cittadini, i lavoratori, gli studenti nelle vie, nelle piazze e nelle aule di Camerino, che ha un’università antichissima. Ma in realtà, se noi non aiutiamo Camerino, e le aree interne colpite dal terremoto (penso a Visso, penso a tanti altri luoghi meravigliosi), è perché non le conosciamo, perché sono uscite dalla nostra percezione, è perché non ci chiediamo cosa loro possano fare per noi: insegnarci un altro stile di vita, un altro ritmo, un altro modo di vivere (…) . Camerino, le aree interne, sono l’anima dell’Italia, sono il rimedio al fatto che l’Italia tenda a somigliare a tutto il resto del mondo in una omogeneità indistinta. In quei luoghi così tormentati oggi – pensiamo anche all’Aquila, sono dieci anni – c’è un senso di umanità che manca altrove e che possiamo ritrovare. Dobbiamo pensare che quei luoghi possono aiutare noi, e non viceversa. Bisogna rivoltare il nostro punto di vista. Ci vuole veramente una rivoluzione”.
Già, L’Aquila. Su Lo stato delle cose Federica Tourn intervista Massimo Cialente. leggete l’integrale, e meditate su questi due estratti.
«Alla fine dissi di sì alle new town perché avevo un solo obiettivo, riportare la gente all’Aquila. Nel 1703 dopo il terremoto fu mandato un commissario straordinario, un certo Garofalo, e che fece? Mise le palizzate alle porte della città per impedire che gli aquilani scappassero. Io dovevo fare la stessa cosa. C’era un solo modo, accettare la proposta di Berlusconi sul progetto C.A.S.E., così accettai e cominciai a pensare come disporle». Poi, il colpo di scena. «Il 5 maggio, in piena notte, mi chiama trafelato il mio ragioniere capo e mi dice: “Berlusconi ha firmato l’ordinanza!”. Una che non mi avevano mai fatto vedere e che recitava: “A seguito del sisma, tutti gli uffici statali, regionali, i reparti specialistici ospedalieri vengono trasferiti transitoriamente nelle città vicine. Stesso trattamento per i dipendenti di questi uffici, sulla scorta del danno riportato dalla casa”. Cioè rimanevano soltanto il Comune e le scuole dell’obbligo; la città era morta. Successe un casino. Dissi: “Vi dò venti minuti per mettervi in salvo, prima che scateni la rivoluzione. E poi mandate pure l’esercito”. Ero fuori di me: il cuore mi batteva impazzito, la voce era salita di due toni, mi sembrava di morire. Bertolaso e Letta cercavano di calmarmi ma io non volevo nemmeno vederli; dissi loro: “Fra poco sarete circondati, o Berlusconi annulla subito l’ordinanza o siete morti”. Avrei scatenato la città e la città mi avrebbe seguito». Una vera e propria chiamata alle armi in difesa della terra assediata: niente male per un semplice diacono. Che fosse davvero intenzionato a far scoppiare la guerra o il suo fosse soltanto un bluff, alla fine quella partita la vinse lui, Cialente: «Alla due di notte Letta mi disse che avevano tirato giù dal letto Berlusconi e gli avevano fatto annullare l’ordinanza».
«Nessuno ha raccontato la verità, hanno usato la tragedia per obiettivi politici, come stanno facendo adesso per Rigopiano o Amatrice: ci sono comunità spezzate e nessuno si sta sedendo a tavolino a chiedersi che cosa si può fare per risolvere il problema, l’unica cosa che fanno è cercare di chi è la colpa. Oggi come dieci anni fa, dove all’Aquila la preoccupazione era affossare Berlusconi o glorificarlo».

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