DIRITTI E ROVESCI: UNA TESTIMONIANZA

A.C. mi ha scritto una mail. L’ha intitolata “Diritti e rovesci”. E’ una testimonianza e come tale non necessita di presentazioni o commenti, ma solo di essere letta. Eccola.
Dopo aver ascoltato il seminario alla Camera di Deputati, dopo aver letto articoli, commenti e opinioni sull’argomento trattato dal seminario, sento di voler dire la mia a proposito di bullismo, rete, odio, violenza e diritti.
Avevo esattamente 14 anni ed era una normale domenica pomeriggio di primavera. Ero con la mia migliore amica a passeggio nel parco della cittadina cattolica e benpensante in cui sono cresciuta. Una cittadina che allora contava 25mila abitanti, una cittadina dove ancora oggi tutti conoscono tutti e dove i giovani che negli anni ‘80 vestivano di nero e viola e andavano in giro con i capelli acconciati in una cresta venivano automaticamente considerati dei drogati e alle ragazze che li frequentavano erano riservati sguardi di sufficienza e commenti poco gentili, dai coetanei e anche dagli adulti. Io e la mia migliore amica frequentavamo proprio quel genere di ragazzi, ragazzi che ascoltavano la musica che amavamo anche noi, ragazzi che avevano idee, ideali, che avevano cose da dire, e che io consideravo “profondi”. Io e la mia migliore amica ci eravamo innamorate di un paio di quei ragazzi, nostri coetanei, e per noi era normale uscire con loro, tenersi per mano, scambiarsi baci e trascorrere il tempo insieme, facendo quello che tutti i teenager fanno. Bene, quel giorno, durante la nostra passeggiata al parco siamo rimaste di sale quando il nostro sguardo si è posato sulle tavole di legno scuro che formavano la schiena del grande palco permanente (usato per spettacoli e piccoli concerti locali) che un tempo era collocato esattamente al centro dell’area verde in cui ancora oggi i miei concittadini vanno a passeggiare. Su quelle tavole di legno, a caratteri cubitali, erano scritti (con gessetto bianco ripassato più volte) il mio nome, il mio cognome e la parola TROIA. Oggi, a quasi 30 anni di distanza, ricordo ancora quel momento e quel pugno nello stomaco che improvvisamente ha trasformato una giornata qualsiasi in un incubo.
Nella mia testa la domanda “perchè?”. Non riuscivo a capire, mi chiedevo cosa avessi fatto di tanto scandaloso da meritarmi una simile umiliazione. Forse mi avevano visto baciare il mio fidanzatino simil-punk? Forse a qualcuno non piaceva vederci seduti uno incollato all’altra sulle panchine del parco? Eppure tutti i giovani della mia età facevano lo stesso. Non capivo. Semplicemente non capivo. Mi sforzavo di trovare delle ragioni per me valide, ma non le trovavo. E nonostante dentro di me vi fosse la convinzione di non aver fatto nulla di male per essere infamata a quel modo (perché nulla di male avevo fatto), dentro di me si stava velocemente facendo spazio il senso di colpa. “Dobbiamo pulire tutto”, è stato quello che io e la mia migliore amica ci siamo dette. E armate di fazzolettini di carta abbiamo cominciato a sfregare il legno ruvido cercando di cancellare ogni traccia. Velocemente. Facendoci scaletta con le mani per arrivare ai punti più alti di quella scritta. Una volta finito, ci siamo rese conto che l’alone rimasto sul legno era ancora in qualche modo leggibile. Non c’era nulla che potessi fare per liberarmene definitivamente. Quello era il risultato migliore che potessimo ottenere, e quello abbiamo dovuto accettare. Del resto, chissà da quanto era lì quella scritta… Chissà in quanti l’avavano già letta.
La foga con cui le nostre mani sfregavano la polvere di gesso era quella di chi cerca di nascondere una cosa brutta di cui ci si è macchiati e di cui ci si vergogna. Mi vergognavo come se mi avessero spogliata e legata nuda in piazza. Eppure non avevo fatto niente di male.
Non mi sono chiesta “chissà cosa dirà mia madre”, non me lo sono chiesta perché nella mia testa di adolescente ero convinta che mia madre non avrebbe mai creduto a me, ma avrebbe creduto a quelle parole. Era già così difficile costruire la mia identità, proteggere il mio mondo, cercare di spiegarlo a mia madre, cercare di farle capire che non uscivo con un gruppo di drogati, ma solo con dei ragazzi che hanno gusti diversi da quelli di ciò che allora io definivo “la massa”. Era già talmente faticoso essere un’adolescente “diversa”, quella scritta infamante ha improvvisamente reso vano tutto il mio impegno. I giorni seguenti sono stati un incubo, era questione di ore e sicuramente qualcuna delle amiche o conoscenti di mia madre l’avrebbe chiamata per raccontarle quanto aveva visto. Ma non successe nulla. Nessuno disse nulla a nessuno, nessuno mi puntò il dito contro nei giorni seguenti, nessuno mi offese a scuola. Tant’è, nella mia testa regnava il convincimento che tutti sapevano e che tutti parlavano male di me, alle mie spalle. E non c’era nessuno a cui potessi chiedere aiuto, non mi rendevo conto che il colpevole non ero io, ma lo stronzo che aveva imbrattato la cosa pubblica con parole diffamatorie. Ero piccola e convinta che non vi fosse autorità alcuna in grado di proteggermi. E forse avevo ragione, chissà.
E’ stato brutto, doloroso, umiliante. Poi piano piano nei giorni l’ansia è svanita, un acquazzone estivo ha portato via anche le ultime tracce dell’umiliazione, e io ho riconquistato la mia serenità.
Adesso, sentendo quello che la gente dice in difesa della rete, della libertà di espressione, io mi dico che sono stata fortunata e mi domando come mi sarei sentita, allora, se invece di esser state scritte col gesso sulla parete di legno di un palco in una cittadina qualunque, quelle stesse parole fossero state scritte sul muro di un social network, visibili a chiunque, senza che io potessi in alcun modo controllarne la diffusiome, senza poterle cancellare. Come mi sarei sentita? Oggi mi rendo conto che il mondo non sarebbe finito se anche mia madre avesse visto di persona quel messaggio vigliacco, ma al tempo non mi sembrava proprio possibile. Se tutto quanto successe allora fosse successo su Facebook o altrove in rete, il mio piccolo dramma avrebbe forse assunto dimensioni spropositate, dentro di me. Come avrei reagito? Penso alle giovani ragazze di cui si è parlato nel seminario, e sento l’oppressivo senso di impotenza che deve aver travolto la povera ragazza che si è suicidata.
Non condanno la rete, non punto il dito contro Facebook, i danni li fanno le persone, non i social network. Tuttavia ritengo che difendere un medium potente come Internet a prescindere, sia sbagliato. Nella mia cittadina c’era un grande palco visibile a tutti che è stato usato per danneggiare me, oggi tramite la rete chiunque può comodamente imbrattare non uno, ma milioni di grandi palchi con parole infamanti che il mondo intero può leggere, e colui che viene offeso, deriso e insultato non può cancellare nulla, non può difendersi, non può appellarsi ad alcuna autorità affinché lo protegga, non può nemmeno sperare in un acquazzone a ripulire tutto. Penso che sia il caso di farsi delle domande, non si tratta di invocare la censura, si tratta di stabilire come regolamentare in modo efficace e giusto dei comportamenti che in rete e al di fuori della rete sono di fatto perseguibili, e condannabili.

26 pensieri su “DIRITTI E ROVESCI: UNA TESTIMONIANZA

  1. Testimonianza importante e spero faccia riflettere chi si dice convinto/a che la Rete sia il regno della democrazia e del libero pensiero e, in quanto tale, sacro al punto da essere intoccabile dalle regole.

  2. Serenissima e lucida testimonianza. Sì, anch’io penso che non si tratti di censurare ma imparare e insegnare a gestire uno strumento utile che rischia di trasformarsi in nocivo proprio perché diviene una sorta di palcoscenico allargato dove i feriti restano sul campo troppo a lungo e talvolta con una ridondanza tale da non essere completamente percepita. Il problema non è la rete in sé, ma il rispetto delle persone e delle idee e delle scelte (così come in qualsiasi ambito di comunicazione). La rete consente più facilmente di mostrarsi altro da sé e facilita le “manie da protagonismo” di chi non affronta le proprie chiusure mentali scaricandole con violenza nel danneggiare gli altri. Nessuna censura, dunque, ma educare a principi etici, deontologici e ai valori anche in rete. E’ vero che bisogna iniziare altrove, ma non si può aspettare che la diffamazione si diffonda in rete e, quindi, contemporaneamente si deve condurre il lavoro sulle persone e sulle persone in rete.

  3. In Gran Bretagna la linea è più o meno questa:
    prevenzione, affrontando gli atteggiamenti culturali che stanno alla base dei crimini di odio e intervenendo prima che si verifichi una escalation;
    incremento delle possibilità di segnalare e trovare accesso a forme di sostegno, in modo da sostenere e rafforzare le vittime;
    miglioramento delle risposte operative attraverso piani molto concreti e diffusione di informazioni su quel che funziona, sui diritti e le possibilità di segnalare.
    Attenzione aperta e pragmatica in risposta a una evidente gravità della situazione, apertura mentale al fatto che la società cambia e i problemi vanno riconosciuti e affrontati, e questo non significa diminuzione ma protezione della libertà e del diritto.

  4. l’unica triste alternativa a un monitoraggio che preveda un minimo sindacale di regole sul rispetto della dignità di una persona sarebbe quella di ricevere una tristissima educazione spartana da cui imparare a muoversi come uno schiacciasassi espungendo la sensibilità dal proprio bagaglio interiore

  5. posso fare un paragone che so essere eccessivo, ed anche irritante? il problema non sono le armi, ma come le si usa … dice da sempre la lobby dei venditori delle stesse. Però credo che ormai in molti ci siamo convinti che siano meglio legislazioni restrittive che permissive sull’ uso delle stesse. Forse il parallelo è un pò forte, quello della scritta sul muro è + educato (e sentitamente personale), ma l’ idea che qualunque forma di regolamentazione del web incida sulla libertà mi pare … un’ invenzione delle società che generano profitto in rete (nulla di male) e che ne generano di + se nessuno pone loro limiti e obblighi di controllo (e qui, qualche riflessione in + …).

  6. ho paura che un controllo esterno possa risentire di interessi personali. Durante il seminario ci fu uno degli speaker (sorry non ricordo il nome) che asseriva che è sempre possibile risalire a chi manda certe immagini o messaggi offensivi, e qui, quindi, sarebbe giusto intervenire. Ma non basta, a mio parere. Voglio dire, se la rete è un ottimo strumento di comunicazione, confronto e riflessione, perché non attenersi e, ripeto, educarsi a principi etici ispiratori? Sembra invece, e questa non è una crisi della rete quanto delle persone, che più si immagina di essere liberi di fare quello che ci pare anche e soprattutto (e con divertimento) a scapito degli altri che per una ragione o l’altra ci danno fastidio, più si perdono i freni. Come se la struttura della rete favorisse i maligni a scapito di chi cerca di ampliare la possibilità del confronto culturale. Su questo, se è vero e io non ne capisco, che si può risalire agli artefici di certi “sproloqui”, è giusto intervenire e si deve, resta però il fatto che bisogna far capire che la rete non è un gioco ma una possibilità e può essere una buona possibilità se ben impiegata.

  7. La rete può essere e in parte è già la risposta a un problema che non ha creato ma che ha anzi contribuito a portare alla ribalta. Lo ha amplificato, ma non solo in senso negativo. Io, ad esempio, solo attraverso la rete so di tanti episodi simili a quello della mail o della ragazza suicida la cui madre ha parlato a Roma, che vanno a sommarsi ai tanti che ho invece sentito, ad esempio, da studenti a scuola. E delle reazioni, analisi, delle iniziative e delle buone pratiche di prevenzione e di sostegno. Credo proprio che una maggiore conoscenza dei propri diritti e degli strumenti possa passare attraverso la rete. Una amplificazione di regole e di principi che possono essere diffusi attraverso la rete. Certo, non è un buon inizio dire che tutte le parole sono uguali, perché non lo sono. Imparare a leggerle e usarle bene è decisamente qualcosa che va fatto anche altrove, e sappiamo bene dove. A differenza delle armi, le parole possono far male ma anche curare, per questo il discorso sull’hate speech è più difficile e complesso, e rischioso, anche se io stessa ho visto somiglianze negli argomenti sulla libertà di espressione senza se e senza ma. Il problema è la linea tra speech e crime, da una parte, e dall’altra il fatto che in ogni caso parole “legali” possono creare profondo disagio o peggio, e qui davvero solo educazione cultura e civiltà ci possono salvare.
    Qui c’è l’esempio di un sito che vuole offrire strumenti di segnalazione, legato a una rete internazionale di difesa dei diritti umani. Potremmo cominciare a valutare i pro e i contro di una iniziativa concreta di questo tipo: http://standuptohate.blogspot.it/p/reporting-online-abuse-and-extra.html

  8. Mi ha fatto tanta rabbia leggere questa lettera. Ovviamente anch’io da bambina o da ragazza ho subito umiliazioni del genere. Ma guardate che il vero problema non sono questi malviventi. Chiediamoci com’è possibile che le bambine si sentano così deboli e indifese davanti a questi maltrattamenti? Perchè si sentono così sole, abbandonate e senza alcun appoggio? Essendo convinte addiritura che nessuno sarebbe dalla loro parte? Questo genere di offese sono un problema sì, ma loro non rappresentano altro che la punta dell’iceberg che rimane sempre il sistema sociale oppresivo nei confronti delle donne (oppure immigranti, homosessuali, disabili, etc) e dove manca un’educazione di base. Le madri sono le prime a tradire le loro bambine, a non appoggiarle e a non ascoltarle. In questo modo la bambina diventa una vittima facile. Ci vuole davvero poco per destabilizzarla.

  9. Quello che mi colpisce del racconto e della riflessione è che un’offesa del genere è possibile solo nei confronti delle femmine. Non c’è equivalente per un maschio. E’ già questa una risposta, purtroppo.

  10. Lallo Pollo, “minchiate medievali”, in primis, vai a scriverlo altrove (sai com’è: questo è un blog radical chic, di borghesi bigotte e che si infastidiscono non poco quando invece di articolare un discorso si spara la prima stronzata a effetto). In secundis: se permetti, la vicenda di Linda è un po’ diversa. Avendo ripubblicato le liste EAP su questo blog, la conosco, la seguo e spero di poter contribuire ad aiutarla concretamente. Proprio per questo: non usatela per dimostrare che i discorsi sull’hate speech sono liberticidi. Grazie.

  11. @ElenaElle: c’è, Elena, c’è, ed è ancora sessista, ancora atroce. Basta scrivere “frocio” vicino al nome. Che se poi quello gay lo è davvero si trasforma in una persecuzione della quale, purtroppo, mi è capitato di assistere all’esito tragico.

  12. Cara Lipperini, “prima stronzata a effetto” vallo a scrivere tu da un’altra parte. Sai perfettamente di essere considerata da moltissimi blogger la regina del bavaglio…

  13. Devo supporre di essere davanti a una vecchia conoscenza 🙂 I moltissimi blogger, caro Lallo Pollo o come ti chiami, sono tre o quattro. Quelli che sono stati bannati perché avevano scambiato il commentarium per casetta loro, dove parlare degli affaracci propri, dei propri post e insultare allegramente. Libero di chiamarlo bavaglio. 🙂
    Ps. Cinque, in effetti.

  14. Non so, Elena, non sono donna e non capisco fino in fondo. E poi non stiamo facendo certo la gara a chi subisce l’ingiuria più devastante. Ma ti assicuro che in certi contesti, soprattutto di provincia, l’essere etichettato come “frocio” rovina la vita di un ragazzo. Del resto, a mia memoria, le troie e i froci stavano esposti nelle stesse gogne: i muri davanti alla scuola, quello della chiesa del paese, gli spogliatoi del campetto sportivo. Si facevano sconsolata compagnia.

  15. Lipperini, sembri Paolo Costa (presidente della portualità di Venezia) quando difende a spada tratta le maxi-navi in laguna. La china della censura è molto pericolosa. Lascia che siano i commentatori stessi a giudicare la qualità degli altri commenti. E’ un peccato che tu sia così poco libertaria, perché altre qualità non ti mancano. Vabbè, fa come ti pare. Amen.

  16. Ecco un esempio concreto di uso scorretto della rete signor lallo pollo (anche se signori si nasce… ma non credo capisca). Qui ci si ritrova per confrontarsi correttamente e anche con persone con opinioni diverse… perché questo è il confronto. Vorrei ricordarle, però che l’offesa non è mai confronto e offende chi la fa non chi la riceve.

  17. Penso che “frocio” per un maschio non sia meno potente come insulto per un adolescente, soprattutto in contesti non metropolitani o comunque arretrati, di “troia” per la ragazza. A meno che non vogliamo affermare che le ragazzine/donne sono in quanto tali più sensibili dei ragazzini/uomini, ed io (che sono una donna) non lo credo.
    Comunque, se anche è vero che oggi internet può aumentare il bacino di coloro che leggono “Lella P. TR**A”, è anche vero che in internet è più facile rispondere (la ragazzina del racconto poteva, giustamente, non sentirsela di scrivere qualcosa di risposta sul muro, ma in facebook molto probabilmente sì) anche perchè in internet è più facile che l’anonimato non rimanga tale, Lipperini stessa, col caso Lello Pollo/Lucio angelini e vari altri docet 😉 quindi nel caso di bullismo su internet la cosa può essere documentata e ci si può lavorare meglio su, fra genitori, docenti etc.
    Con ciò non voglioridurre la portata di queste pratiche di “hate speech”, in internet come altorve, ci mancherebbe

  18. A me è successo lo stesso, sui banchi della scuola e in rete. Passata l’incredulità e lo sconcerto iniziali, me ne sono fregata altamente. E non mi è mai passato per la testa di fare denunce di sorta, dal momento che sono convinta che chi gestisce un blog abbia delle responsabilità: se non se ne fa carico autonomamente perché non ci arriva da solo, so già che è più stupido di me, dunque non perderò tempo a cercare di farglielo capire, sarebbe sprecato. Degli organismi di controllo penso malissimo: se in Italia è vietato l’uso del cellulare alla guida e vedo autisti di autobus con decine di persone a bordo che non vengono mai fermati, figuriamoci se posso fidarmi degli organismi di controllo su Internet. L’unica difesa ai soprusi contro di me sono io, insomma. Ho sempre pensato che gli insulti feriscono chi ha il timore di apparire in un certo modo. Siccome so di non essere una troia, me ne frego altamente se qualcuno lo dice. Non metterò mai l’opinione di qualcuno, che sia positiva o negativa, al di sopra della mia: lo riterrei molto stupido e del tutto inutile. Per altro è molto utile dividere la gente tra chi si accoda agli insulti altrui e chi no, questi ultimi sempre una minoranza. Appunto. Pochi ma buoni, la mia regola di vita. I tempi della scuola sono finiti, non c’è nessuna maestra, non c’è la mamma o altri a difenderti. Da adulti bisogna imparare a farlo da soli.

  19. A parte il fatto che “gli organismi di controllo” non sono stati invocati, o quanto meno non da me. La domanda è: è per quelli che non riescono a essere così al di sopra delle parti che si fa, facciamo spallucce e li lasciamo nel loro brodo perché sono dei biechi mollaccioni?

  20. Il racconto della ragazza mi ha fatto rabbrividire. E’ successa anche a me una cosa simile, anche se non a quei livelli (un banco di scuola nel mio caso) e mi fece molto male comunque. Penso che ci voglia sicuramente una regolamentazione, ma temo che non servirebbe a granché. Perché i deficienti il modo di offendere lo trovano sempre. Se non è internet, è un muro, un banco, un messaggio al cellulare…. Mancano proprio le basi di quello che si chiama RISPETTO. Rispetto per chi è più debole, rispetto per chi viene considerato “diverso”. E bisognerà prima o poi riuscire a insegnarglielo. Poi non credo dipenda solo da loro. Se lo fanno è perché, specialmente in rete, sono sostenuti da centinaia di persone che li sostengono con commentini vari o con i loro “mi piace” e anche, purtroppo, dall’omertà di chi non dice niente. La persona che viene esposta al pubblico ludibrio non può difendersi da sola. E non bastano le regolamentazioni dei social network.

  21. Comunque a me un giorno è successo che un tizio si sia accostato a me che passavo di lì col passegggino. “Scusi, ” fa, “sa cosa mi è appena successo?” e mi ha raccontato, di esssere stato superato malamente da una donna alla guida di un suv, in un crescendo di ira per arrivare a dire che quella donna era proprio una TROIA, e che le donne “alcune sono brave, eh, ma certe son proprio TROIE!”. Ora io non penso di essere troia, però mi sono sentita lo stesso offesa, indignata e anche vagamente spaventata, perché questo qua mi ha visto in una strada deserta e ha deciso di vomitarmi addosso le sue frustrazioni e le sue fregnacce. Che vuol dire “l’unica difesa dal sopruso sono io”? Certo gli ho risposto per le rime e me ne sono andata, ma se lo incontrassi ogni giorno e ogni giorno mi attaccase queste pezze, magari davanti ai miei figli, come succede in rete, di certo non mi basterebbe la consapevolezza di non essere troia, perché il punto non è essere troia o meno, ma la violenza, la prepotenza e la gratuità di questi gesti.

  22. Ho già scritto che sono convinta che chi mette a disposizione uno spazio, dando la possibilità di commentare, si assuma una responsabilità. Se apro le porte di casa mia ho il dovere di far sì che sia un luogo sicuro e decente, per dire, dove gli altri non corrano pericoli di sorta. È apprezzabile che faccia sentire gli ospiti a loro agio, se voglio che tornino. Se qualcuno gli sputa in faccia lo sbatto fuori o esigo delle pubbliche scuse. Come minimo cerco di sedare gli animi. D’altro lato, mi aspetterei rispetto per me e i miei spazi, in base alle comuni regole della convivenza civile degna di questo nome. Molta parte di quello che succede nei blog è responsabilità dei gestori del blog. Per questo ho accolto favorevolmente le recenti sentenze che hanno condannato due blogger. Se mi aprì le porte di casa tua e vengo accoltellato o mi ferisco per la tua incuria, sei o non sei ritenuto passibile della richiesta di risarcimento, al punto che molti sono assicurati per danni contro terzi? Appunto. Gli abusi nei blog sono responsabilità di chi li gestisce e di chi li frequenta: ma più dei primi che dei secondi, visto che i primi hanno anche il dovere di tutelare i propri ospiti. Poi diciamo pure che, spesso, sono i primi ad aizzare gli animi, attirando gente allo stesso livello.

  23. L’epiteto “frocio” attualmente è più grave dell’epiteto “troia”. Infatti gli uomini vivono per mostrarsi virili e fortemente attratti dalla donna; le donne, apparentemente, non fanno poi molto per negare la loro apertura sessuale. Detto questo, l’epiteto “troia” è fenomenale, perché ancora non si capisce come mai nel 2013, in un mondo dove gli esseri umani vengono valutati per il numero dei partner sessuale per la qualità sessuale degli stessi partner, l’accusa di troiaggine sia ancora causa di lacrime femminili.
    La soluzione non esiste; l’abbassamento volontario del valore sessuale dei rivali o di chi si comporta male secondo i nostri canoni, esisterà sempre. La Lipperini è una femminista, quindi non dirà mai che le performance sessuali maschili sono argomento di discussione all’interno del gruppo delle pari e che questo fenomeno è ultratollerato.

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