DUE. SPOPOLARE I BUCOLICI: LA DISNEYLAND APPENNINICA

Ieri Girolamo De Michele ha commentato il primo post sullo “spopolamento programmato” con un consiglio: “(ri)leggere le pagine di Zygmunt Bauman, “Modernità e olocausto”, sulla distribuzione razionale della popolazione come uno dei tratti peculiari che al tempo stesso definiscono la modernità, e costituiscono una precondizione indispensabile alla pianificazione dell’Olocausto”.
Verissimo. Di quella distribuzione razionale c’è già stata una prova generale nel dopo terremoto. Così, nel giorno dell’apertura delle indagini per i subappalti delle Sae nelle Marche, ripartiamo da quella disastrosa (e significativa gestione) del post-sisma. Leonardo Animali, che ha scritto un libro importante sulla Strategia dell’abbandono, lo ricordava un anno fa:
“ci sono ancora cinquantamila persone fuori di casa, ottocentomila tonnellate di macerie ancora sul posto, un’idea di ricostruzione ferma a poche decine di pratiche edilizie presentate, la certezza che diversi paesi non saranno mai ricostruiti. Ma soprattutto,  riguardo ad un processo già in atto da tempo sull’Appennino di progressivo abbandono di carattere demografico, politico, sociale, economico, il terremoto ha completato, anticipando i tempi, il lavoro “sporco” di altri. La politica nazionale, tutta ed eterogenea, insieme alle dinamiche istituzionali regionali, ha fatto al meglio la propria parte”.
In questo articolo, Leonardo Animali invita a considerare tutti i passi emblematici che hanno preceduto la scellerata dichiarazione di Donato Iacobucci: un centro commerciale, il Deltaplano, costruito a Castelluccio di Norcia PRIMA della consegna di otto-dicasi otto casette di plastica. Le Sae che non permettono spazi di socialità e di incontro. Il bisbiglio sul fatto che non serve ricostruire quei posti là, appunto inutilmente “silvo-pastorali”. E, d’altra parte, una precisa intenzione di aprire a modelli che stoltamente si ritengono vincenti. Gli stessi che hanno portato a costruire la Quadrilatero per “arrivare un quarto d’ora prima al mare”, perché tanto è quello il turismo che ci interessa. E non solo:
“La resurrezione, questa sì quasi evangelica, altro che i concerti sui prati di RisorgiMarche, di vecchi e bolliti gruppi industriali del capitalismo oligarchico marchigiano, che sotto il caritatevole abito delle fondazioni di ogni tipo, hanno aperto le porte alle multinazionali dell’agrifood sui territori colpiti: Ferrero, Loacker, Granarolo, Cremonini, solo per fare qualche nome. Con il plauso, accucciolato e devoto, della politica, ma anche di associazioni di categoria. Operazioni queste, che dal punto di vista etico, non hanno nulla di differente da quello che Bolsonaro sta facendo per le cricche mondiali delle bistecche in Amazzonia. La improbabile ed impossibile riconversione al turismo di massa, modello Disneyland appenninica, di un territorio vocato da sempre ad un certo tipo di agricoltura e pastorizia, ed al manifatturiero; con iniziative e processi che stanno convogliando e sprecando fiumi di denaro pubblico. O meglio, destinato alle solite saccocce dei cerchi magici dell’imprenditoria culturale regionale, da tempo un po’ sofferenti”.
Quel che fa rabbia è che, appunto, questo è un modello vecchio. Lo scrive il giornalista e scrittore Mario Di Vito, qui:
“il vero modello superato non è quello «silvo-pastorale», ma quello dei Merloni, che in dieci anni sono riusciti a perdere tutto il potere accumulato dal dopoguerra in poi.”
E Silvia Sorana, libraia, editrice, studiosa, aggiunge:
“Accade sempre più spesso che una teoria, in questo caso quella sostenuta qualche giorno fa, su un giornale locale, relativa alla necessità di uno “spopolamento programmato” delle aree interne e montane, arrivi proprio dagli stessi soggetti che, a ridosso del terremoto del 2016, hanno riempito convegni e seminari sulla necessità di conservare le comunità, valorizzare il patrimonio culturale, stimolare le economie del territori, portare servizi essenziali.
Ora, se la virata teorica non ha una ragione scientifica plausibile, scoperta negli ultimi mesi, dovrebbe sopraggiungere almeno l’imbarazzo per la retorica attraverso la quale sono stati dirottati investimenti pubblici e privati a sostegno di questo “straordinario” progetto a sostegno del capitale umano, territoriale ed economico, pubblicizzato perfino all’estero.
Droni hanno sorvolato le nostre teste per raccogliere la ricchezza di questo Appennino, altro che “modelli insediativi non adatti alle nuove condizioni di produzione del reddito”: “Hazelnuts Of Apennines”, “Fruits of Apennines”, “Digital Support”, “Health Point”, queste le proposte!
Più una chiamata alla conquista del West che una campagna di investimenti, ma ingenuamente accolta sul territorio e concepita coma l’arrivo dei rinforzi, dell’artiglieria pesante.
Imprenditori ed ex imprenditori, politici ed ex politici, cantanti e attori sono saliti tutti in montagna, tutti per stimolare “le energie vitali dell’Appennino”- “Se si salva l’Appennino, si salva l’Italia” è il claim riportato nella pagina di “Save The Apps”, il progetto post-sisma 2016 portato avanti da Fondazione Merloni: “dare nuovo impulso all’economia dell’area appenninica” e “interrompere il processo di scivolamento dell’Appennino verso le aree costiere” e poi l’OBIETTIVO, eccolo: “difendere l’economia e la società dell’Appennino, i suoi paesi che sono il cuore e la culla della civiltà italiana, accompagnando la rinascita delle aree terremotate verso una crescita sostenibile ed inclusiva: sostenere i piccoli produttori, i prodotti tipici, le specificità del territorio e le comunità”.
Ora, o si è in malafede quando si immaginano progetti di “rinascita degli Appennini” e, contemporaneamente, si invita a soluzioni di liquidazione dei territori attraverso lo “spopolamento programmato”, oppure, i tempi rapidissimi richiesti dagli attori del capitalismo della ricostruzione, hanno lasciato sul terreno scontenti e scontentati.
Queste economie della catastrofe prevedono di raccogliere i frutti in breve tempo altrimenti si spostano su altre e nuove emergenze. Complici i ritardi dovuti al Covid-19, la pandemia ha ridefinito i tempi e le priorità della shock economy e cambiato il flusso del denaro. L’Appennino ora è piccola parte, piccola torta”.
Questi sono solo alcuni pareri. Lavoriamo sugli altri. Perché questo modello rischia di essere un banco di prova, un’esercitazione, per qualcosa che riguarda evidentemente tutto il paese. Quindi, se proprio non vi interessano gli Appennini umbro-marchigiani, dateci comunque uno sguardo: non si sa mai.

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