ENDING

Considerato in questa quintessenza, in questa purezza
d’espressione e d’intenti, esso non sembra tanto un mondo fra gli altri, ma il
mondo, l’ordine delle cose così come stanno, così come vanno. Il vento che
viene da oriente straccia un poco la nuvolaglia facendo filtrare effimeri fasci
di luce dorata. Inizia un nuovo pomeriggio, qui alla pinetina di Tor Bella
Monaca: uguale a tutti i pomeriggi precedenti, a tutti quelli che verranno.
Avrà tanti difetti, la realtà, ma non si può dire che non le piaccia mostrarsi:
tutta intera, così com’è, anche nel più infimo dei particolari. Come un eroe di
Beckett, tira fuori la testa dal suo bidone della mondezza, e ricomincia a
intonare il suo monologo senza né capo né coda.

Così termina il racconto di Emanuele Trevi Una spada
per una spada
. Si trova nella rivista ilmaleppeggio, anche
cartacea, diretta da Lanfranco
Caminiti, redattori Tommaso Giartosio, Nicola Lagioia, Christian Raimo, Elena
Stancanelli, Carola Susani e lo stesso Trevi.
Nonché tutti coloro che intendano raccontare il proprio lavoro (qui le
informazioni).

…un discorso di verità sul genocidio degli armeni potrebbe
essere l’occasione per parlare anche delle atrocità commesse in Bulgaria e in
Anatolia (durante l’occupazione greca) contro i turco-mussulmani, squarciando
il velo di ipocrisia romantica ed eurocentrica che ammanta la secolare
questione balcanica. Dopo tutto l’Italia è il paese dell’armadio della vergogna
– ma è anche il paese di Giacomo
Leopardi
, per il quale solo sull’arido vero e sulla franca lingua possono
essere radicate giuste e solidali istituzioni.
Bisognerebbe proprio farglielo leggere, Leopardi, a certi ingenui riduzionisti.

Questa,
invece, è la conclusione di un lungo intervento di Girolamo De Michele sul
genocidio armeno. L’integrale, che fa parte di un progetto scolastico, su Carmilla.

(P.s. alzo la mano –sinistra, quale altrimenti?- e mi impegno a riparlare di Come
dio comanda
di Ammaniti: arrivata alla fine, confermo la cupezza ma
concludo che è forse il suo libro più bello).

7 pensieri su “ENDING

  1. “Dire pane al pane e vino al vino” in inglese si traduce “To call a spade a spade”… non fosse che ‘spade’, sempre in inglese, è la vanga. “Una spada per una spada” fa curiosamente pensare atutto ciò…

  2. Commento qui un passo in realtà preso dal citato intervento di Girolamo De Michele su Carmilla:
    «Ciò che a Lewy sembra premere è mantenere una sorta di marchio di unicità sul genocidio degli ebrei: come se, invece, il genocidio degli armeni non gettasse luce, nel Novecento, sulla prima costruzione empirica di un nemico assoluto da sterminare.»
    Ironia vuole che l’inventore del termine «genocidio» (nel 1944, all’interno del volume Axis Rule in Occupied Europe), e anche il principale e instancabile ispiratore della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, fu l’ebreo polacco-americano Raphael Lemkin (1900-1959). Il quale cominciò a interessarsi con forza al tema delle atrocità e dei massacri, facendone l’ossessione della sua vita, proprio quando, nel 1921, studente di linguistica all’università di Leopoli, si imbatté in un trafiletto di giornale che parlava del processo all’armeno Soghomon Tehlirian, che aveva appena assassinato a Berlino l’ex ministro degli interni turco Talaat pascià, uno dei maggiori responsabili dello sterminio degli armeni, condannato a morte in contumacia da un tribunale turco, ma che viveva pacificamente in Germania, che ne aveva respinto le richieste di estradizione turche. Poi nel 1933, diventato nel frattempo giurista, Lemkin si ripromise di parlare a una conferenza sul diritto internazionale a Madrid, e a tal fine «redasse un documento che richiamava l’attenzione sia sull’ascesa di Hitler sia sul massacro ottomano degli armeni, un crimine che la maggior parte degli europei aveva ignorato o archiviato come un fenomeno “orientale”. Se era successo una volta, evidenziava il giovane avvocato, sarebbe successo di nuovo. Se è successo lì, sosteneva, poteva succedere anche qui. Lemkin avanzava una proposta radicale: se la comunità internazionale sperava di prevenire stragi di massa come quelle subite dagli armeni, gli Stati del mondo dovevano unirsi in una campagna per bandire la pratica. Con questo obiettivo in mente, Lemkin preparò una legge che proibisse la repressione di nazioni, razze e gruppi religiosi. La legge s’imperniava su quella che definiva “repressione universale”, un precursore di quella che oggi è chiamata “giurisdizione universale”: gli istigatori e gli autori di questi atti dovevano essere puniti ovunque fossero stati catturati, indipendentemente da dove il crimine fosse stato commesso o dalla nazionalità e dallo status ufficiale dei criminali. Il tentativo di eliminare gruppi nazionali, etnici e religiosi come gli armeni diventava un crimine internazionale che poteva essere punito ovunque, come la schiavitù e la pirateria. La minaccia di punizione, sosteneva Lemkin, avrebbe condotto a un cambiamento.» Avvenne però che «Lemkin ebbe due delusioni. Primo, il ministro degli esteri polacco Joseph Beck, che stava cercando di ingraziarsi Hitler, gli negò il permesso di andare a Madrid a presentare di persona le sue idee. Secondo, Lemkin trovò pochi alleati per la sua proposta», che così dopo fu lasciata nel cassetto, ma non prima che, alla sua presentazione a Madrid, il presidente della Corte suprema della Germania e il rettore dell’università di Berlino abbandonassero l’aula in segno di protesta. E non senza che, di ritorno in Polonia, Lemkin venisse «accusato di cercare, con la sua proposta, di far progredire lo status degli ebrei. Il ministro degli esteri Beck lo stigmatizzò per aver “insultato i nostri amici tedeschi”. Subito dopo la conferenza il governo antisemita di Varsavia gli tolse l’incarico di vice pubblico ministero perché si era rifiutato di contenere le critiche nei confronti di Hitler». Perciò, «se nel settembre 1939 Lemkin fosse stato nelle condizioni di pronunciare un pubblico “Ve l’avevo detto, io”, l’avrebbe fatto. Ma come tutti gli ebrei che si stavano dando da fare per fuggire o combattere, Lemkin aveva in mente solo la sopravvivenza.» Così va a volte la storia. Questo e altro in Samantha Power. Voci dall’inferno. L’America e l’era del genocidio, Baldini Castaldi Dalai, 2004 (che l’abbia tradotto io è molto secondario). Scusate il fuori tema e le lunghe citazioni (autorizzo a cancellare il commento, se si ritiene opportuno).

  3. Altro che “scusate il fuori tema”: grazie per le notizie, e per la citazione del processo Tehlirian, che si trasformò in un atto d’accusa cntro la casta dei militaristi di ogni paese, e ovviamente in una legittimazione del tirannicidio, oltre che in un implicito riconoscimento del genocidio degli armeni. Vado a procurarmi il libro.

  4. Visto il gradimento del mio precedente commento, segnalo giusto un’altra curiosità legata a Lemkin e a quella Convenzione sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio in cui lui ebbe una grande parte. Approvata dall’Assemblea generale dell’Onu, all’unanimità, il 9 dicembre 1949, perché diventasse legge internazionale ufficiale questa convenzione andava ratificata dai parlamenti nazionali di venti stati membri delle Nazioni Unite che all’Assemblea generale l’avevano votata. Ed è chiaro che, perché la legge avesse davvero effetto, era essenziale che tra questi paesi ci fossero gli Stati Uniti. Così invece non fu. O meglio, la legge ottenne in tempi ragionevoli (in gran parte, sempre grazie a una frenetica attività di lobbying di Lemkin) la ratifica di venti stati, diventando così operativa il 12 gennaio 1951, ma tra questi non ci fu l’America, per tutta una serie di critiche, paure e cavilli interpretativi al Senato. Fatto sta che, malgrado tutti i suoi sforzi e i suoi tentativi di fare maggiore chiarezza intorno a questa legge, Lemkin morì nel 1959 senza poter vedere la ratifica di Washington della convenzione. E probabilmente questa ancora non ci sarebbe se, in seguito, non fosse intervenuto un altro instancabile personaggio: il senatore del Wisconsin William Proxmire, che nel 1967 decise di fare sua la causa di Lemkin e, l’11 gennaio di quell’anno, si alzò in piedi al Senato per pronunciare il suo primo discorso sul genocidio, annunciando l’intenzione di cominciare una campagna (consistente nel prendere la parola ogni giorno in quell’aula su quel tema) che non sarebbe cessata finché gli Stati Uniti non avessero ratificato il trattato. Morale della favola: dopo 19 anni e 3211 suoi discorsi al Senato, l’11 settembre 1986, sotto Reagan, Proxmire conseguì finalmente il suo obiettivo e, indirettamente, quello di Lemkin: con 83 voti a favore, 11 contro e 6 astensioni, gli Stati Uniti divennero il 97-esimo paese a ratificare la Convenzione sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio.

  5. Un commento su un post scriptum è un post commento?
    Comunque: a proposito di Come dio comanda. Da anni un libro italiano non mi toccava così. La storia. La qualità della scrittura. Il fatto che sia cattivissimo e pieno di compassione. Il montaggio degli eventi. E una tecnica straordinaria, che riesce a farsi dimenticare. L’altra botta di entusiasmo (abbastanza) recente per qualcosa di made in Italy, dopo aver visto Le conseguenze dell’amore. E forse c’è qualcosa di simile, nello sguardo dei due autori. Dai, parliamone, parliamone.

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