Su Repubblica di oggi, Giorgio Falco (che ha meno di sessant’anni) su “L’eroe imperfetto” di Wu Ming 4.
Siamo in attesa di conoscere l´eroe dei prossimi campionati mondiali di calcio. Sarà per le magliette con il numero e il cognome del calciatore sulla schiena, ma pare accettabile che forse solo il calcio possa rispondere alla richiesta collettiva di fabbricare in serie eroi, riconosciuti da miliardi di persone. Vestiamo la maglietta dell´eroe per andare allo stadio, in spiaggia o al supermercato, tra gli scaffali dei prodotti in promozione, mentre litighiamo con i figli che indossano la stessa divisa.
Le tute dei supereroi hanno perso parte del loro fascino. Creati per fondere in un´unica figura l´accelerazione della tecnologia, il mito e il regno animale, i supereroi scontano il declino dell´industria occidentale, il ridimensionamento dei programmi spaziali. C´è bisogno di eroi prossimi, che abbiano, come un tempo, anche qualcosa di nostro, di fallibile.
Un buon punto di vista in tal senso ce lo offre il nuovo libro di Wu Ming 4, L´eroe imperfetto (Bompiani, pagg. 164, euro 10), un viaggio assieme ad alcuni personaggi letterari di ogni epoca. Il testo è diviso in tre parti, ciascuna è collegata all´altra dall´idea che l´eroe, benché spesso ancora indispensabile a una narrazione, sia figura problematica, contraddittoria, incline a comportamenti opachi, che ne aumentano la complessità.
Lawrence d´Arabia, Byrhtnoth figlio di Byrhthelm, Aiace Telamonio, Sir Galvano, Henry Morgan, Samvise Gamgee hanno attraversato i secoli per indicarci una strada. Noi dobbiamo cercare un senso in quelle narrazioni, vivificarle, interpretarle per comprendere meglio la nostra esperienza quotidiana.
Wu Ming 4 parte da Lawrence d´Arabia, scompone la figura ancora oggi prevalente, quella dell´eroe occidentale circondato da un´aura romantica, l´eroe che attraversa un continente per i suoi ideali e manifesta un´ostinazione orgogliosa, che lo spinge lontano dall´obiettivo dichiarato – la difesa o la liberazione della comunità – e lo consegna a una accecante ottusità personale, anche di fronte a situazioni nelle quali un´analisi oggettiva della vicenda suggerirebbe un comportamento accorto, come quello del ciclista su pista, quando tergiversa in surplace, e poi scatta, per prendere il tempo all´avversario.
Wu Ming 4 evidenzia l´importanza di uscire dalla gabbia degli stereotipi. Eowyn, uno dei personaggi femminili tolkieniani, rifiuta la «bella morte in battaglia anelata fino a quel momento», e questo per «guarire e curare», perché «l´atto di occuparsi della vita» può lenire le ferite del mondo. Personaggi di questo tipo arrivano a «sabotare le aspettative generali del modello eroico dominante, indicando la possibilità di un eroismo diverso», qualcosa che tenga «in massimo conto l´ascendente femminile e la sua inesauribile forza». Questo eroismo responsabile diventa sfida consapevole, conoscenza di se stessi, discosta l´eroe dall´ottundimento della performance.
In fondo l´eroe lotta continuamente con i propri limiti, anzi, con il limite, qualcosa che, nel momento in cui si avvicina, può essere spostato un passo più in là, oltre una soglia mobile. Ma il limite per eccellenza è la morte, a volte procurata dall´eroe a se stesso – vedi Aiace – per scacciare la vergogna del fallimento, morte in ogni caso accettata come sublimazione dell´agire. «Tra uccidere e morire c´è una terza via: vivere», ricorda Wu Ming 4 citando Christa Wolf.
Eowyn mi ha fatto pensare a Eroe per caso, un film di Stephen Frears, del 1992. Dustin Hoffman interpreta la parte di Bernie LaPlante, un uomo che vivacchia di espedienti. Una sera la sua auto rimane in panne mentre un aereo precipita nel fiume accanto alla strada. Bernie salva i passeggeri, ruba soldi dalla borsetta di una superstite – la reporter Gale Gayley, interpretata da Geena Davis – e si allontana. Gale promuove la ricerca dell´eroe misterioso. L´eroe riconosciuto da tutti, John Bubber – interpretato da Andy Garcia – non è il vero eroe, ma i media si impossessano del racconto e John diventa l´eroe originale, attraverso quella narrazione contraffatta incassa anche una ricca ricompensa. Bernie invece continua la sua vita marginale e finisce anche in prigione. Schiacciato dai rimorsi, il finto eroe tenta il suicidio, ma Bernie lo convince a desistere: John manterrà tutti gli onori e la gran parte dei soldi, Bernie prenderà il resto della ricompensa. Visto così, pare solo uno degli effetti del capitalismo sull´eroe: tutto ha un prezzo, anche l´eroismo, i conflitti si superano con una semplice transazione economica. Qui l´eroismo non è tanto una casualità o la scelta assoluta, quanto una delle molteplici piccole mansioni possibili, e come tale va degnamente retribuita: un eroismo a perdere, fecondo, la piccola interruzione nel fluire della propria esistenza. L´eroe consapevole decifra la realtà che lo circonda, conscio che la serialità artificiale lo trasforma in un prodotto qualsiasi, in cui l´originale è equivalente alla copia, basta che evidenzi una percentuale di bene individuale, utile collante collettivo. Bernie intuisce i rischi di una vita esposta sotto la patina delle medaglie, dei lustrini, in una società che – in assenza del controllo degli dei – sposta il limite sempre più in là, anche oltre la morte, così lui accetta quei soldi e in questo modo preserva l´anonimato del suo gesto, spoglia l´eroismo dalla sua aura mitica.
Allora Bernie ha molti punti in comune con Eowyn. Entrambi ribaltano le aspettative generali. Attraverso il silenzio, Bernie trova una breccia esistenziale nella lingua televisiva dominante e manipolatrice, che uccide quotidianamente l´eroe con il ricatto della realtà, negando la vera condivisione della narrazione, dell´esperienza.
Non sono granché d’accordo con quanto dice l’articolo. Non so quanto del saggio di WM4 venga riportato fedelmente, ma se così fosse, per la prima volta, dissento da qualcuno dei Wu Ming.
Cioè, per parlare in termini fumettistici, qui si parla sostanzialmente del buon vecchio “supereroe con superproblemi” di stanleeiana memoria, e del fatto che, mutatis mutandis, sarebbe molto più affascinante del solito palloso eroe tutto d’un pezzo perché rende possibile l’identificazione dell’umanissimo lettore.
Sarà per una questione di gusti (ho sempre preferito Superman a Spiderman), ma a mio modestissimo parere (e con tutto il rispetto per sua maestà WM4!) l’eroismo imperfetto, da un punto artistico/narrativo/di immaginario, mi sembra pieno di limiti. La figura dell’eroe credo sia molto più efficace quando è la classica icona di perfezione, quando è completamente lontana dal mondo reale ma rappresenta tutto ciò a cui noi aspiriamo (la bontà, la giustizia, il coraggio, la forza, ecc.).
Questo perché:
1) L’eroe DEVE essere (e rimanere) letterario e immaginario. L’impersonificazione di ideali che rappresenta non può incarnarsi nel reale. Basti pensare a quello che dice Saviano, o al caso in cui è coinvolto ultimamente Luttazzi. Guai a trasformare persone reali in eroi, e questo proprio per la loro salvaguardia.
2) Mi piace distinguere due tipi di rapporto emotivo tra lettore ed eroe: l’identificazione e l’immedesimazione. La prima avviene, appunto, con eroi imperfetti e “umani”: noi ci identifichiamo nella quotidianità, nella complessità, nelle contraddizioni, nell’affitto da pagare perché ritroviamo le nostre. Cosa che, a mio parere, rischia di essere “pericolosa”, perché, alla minima ambiguità, può appiattirci sul personaggio e accettare sue eventuali scelte discutibili perché ormai siamo già dentro di lui, anzi siamo già lui.
L’immedesimazione, al contrario, avviene con eroi in cui è impossibile identificarci (come farlo, d’altronde, con un tipo che vola con un mantello rosso o che fa strage di eserciti nemici perché invulnerabile fino ai talloni?) ma con cui possiamo condividere le emozioni, i pensieri, le scelte, anche le conflittualità, ma pur sempre all’interno di un percorso verso l’alto, dal quale possiamo ricevere, per momenti più o meno lunghi, spicchi di perfezione.
3) Secondo me, con il fatidico post 9/11 di cui si parla in New Italian Epic e, aggiungo io, con l’arrivo della Crisi Economica, ci troviamo in un momento storico più simile a quello della Grande Depressione precedente alla II guerra mondiale (quello che ha partorito le grandi icone della DC Comics) piuttosto che ai, tuttosommato, floridi anni ’60 degli eroi problematici della Marvel. Mi aspetto, quindi, di vedere più un nuovo Superman o un nuovo Batman piuttosto che dei nuovi X-Man, per intenderci.
Chiudendo a proposito di WM4, ciò che dice sull’eroismo imperfetto mi viene da ricollegarlo a quanto diceva (non so se lui in persona o qualchedun’altro del gruppo) in una registrazione/riunione a proposito di Manituana, in cui si affermava che lì il vero eroe non è Philip Lacroix ma Joseph Brant. Per la cronaca, credo possa essere evidente il mio tifo per Ronaterihonte (lui, così assoluto, forte, sempre con le parole giuste al momento giusto, infatti, è l’unico personaggio inventato del romanzo) piuttosto che per un politico wannabe che, pur lottando “per la giusta causa”, si rende partecipe di non poche cose torbide.
chiedo scusa per gli errori/orrori dattilografici causa fretta pre-palestra! 😛
@ Daxman
se ti interessa ti consiglio di dare un’occhiata al saggio, perché la questione è posta in termini molto diversi.
Immaginavo che gli interventi di W4 dell’altro giorno preannunciassero una nuova megafonata della Lippa…
Giunse finalmente il libro, con un bel Robin Hood in copertina.
Passerà davanti a ben due must, “Cosa farebbe Audrey” (che sempre Lawrence d’Arabia recitò) e “Fiori per Algernon”. Punterò soprattutto al terzo saggio, ché sui primi due già lessi due bellissime discussioni, una qui su Lipperatura e l’altra su Stella del Mattino. Da ripassare.
Spero si continui, visto che non c’è due senza tre! E il terzo saggio sembra ben proiettato qui su Lipperatura.
@ The Daxman,
riguardo al punto 3, credo che tu ti riferisca alla riunione di lavoro del 14 marzo 2006, di cui mettemmo on line tre frammenti:
http://inside.manituana.com/documenti/89/8158
@ Wu Ming 1:
esattamente! 😀
“Non è tempo per storie in prima persona” Max Frisch
Dunque, spero che la discussione qui sia ancora aperta.
Ho letto e divorato (spero non troppo in fretta) il libro.
Visto che sui primi due saggi si commentò e scrisse abbastanza, mi piacerebbe condividere alcune riflessioni sul terzo. Peraltro, il mio preferito.
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Visto che non sono bravo ad organizzare un discorso compiuto, mi si perdonerà se scrivo a punti.
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1. Considerazione stilistica: si legge con grande facilità, e lo scarso apparato di note non è per mancanza di bibliografia, ma perché sono ben integrate nel discorso testuale.
2. Probabilmente sarà ignoranza mia, ma questo tema dell’eroe e della Dea è stato affrontato troppo poco. Qualora invece fosse all’ordine del giorno dei critici, penso che allora sia stato divulgato male. Lo dico perché mi pare una gran figata. Mi ha aperto un mondo.
3. La vicenda di Aiace, tra tutte quelle del mito-poema, è quella che ispira la maggiore ambiguità nei confronti del lettore. Non so voi, ma da piccino tifavo spudoratamente per lui. E quando viene premiato Odisseo al suo posto, ero convinto si trattasse di una palese ingiustizia.
Sarebbe interessante scrivere qualcosa sulla storia delle armi di Achille, perché in alcune versioni – forse in Pausania stesso, ma non rammento – durante il primo naufragio di Odisseo durante il suo nostos esse finiscono in mare e Oceano (o Nettuno, da considerare eventualmente come rivale di Athena) le riconducono sulla tumulo di Aiace.
Come a dire che la giustizia umana ha premiato un eroe nuovo, ma quella divina – nel profondo – no.
In tutto questo, può anche esserci una punizione invece per Odisseo, che di qualche peccatuccio di ύβρις si pecca anche lui, in barba al rapporto privilegiato con la Dea, che potrebbe essersi offesa e abbia voluto così rimettere le cose “a posto”.
Le parole di Tecmessa citate (dall’Aiace di Sofocle) sono bellissime. Penso che ci sia dentro praticamente il fulcro di una nuova fenomenologia dell’eroe.
4. La vicenda di Sir Gawain è assolutamente gustosa. Già all’epoca in cui la lessi mi sorprese per l’evidente differenza rispetto ad altri episodi del ciclo arturiano: nella sostanza, non si combatte. E’ evidente la matrice cortese del testo (come la struttura fiabesca, abbastanza antelitteram) e il duetto di fioretto tra Galvano e la bella.
Ma proprio per i suoi risvolti a sorpresa, più che con la Dea, io penso ci sia un vero e proprio confronto tra generi, in cui si assiste ad un sostanziale pareggio. E proprio questo pareggio brucia nell’animo del cavaliere Galvano abituato a vincere sempre (e non solo col gentilsesso). Comunque alla fine riesce a buttare giù l’orgoglio.
E questo ci riconduce anche al saggio numero 2, da cui si evince che il più grave fardello da cui separarsi per un eroe che voglia davvero compiere il viaggio di ritorno è proprio l’ofermod.
5. La storia del pirata Morgan di Steinbeck – versione WM4 – è strepitosa!
Non l’avevo mai sentita nominare. Non so se l’originale sia altrettanto vibrante, ma da quanto l’autore ha riassunto, beh, mi pare un piccolo capolavoro. Qui la Dea si prefigura in un certo stile gotico. Con questo nome ricorrente, questa visione quasi fantasmatica, finisce per accompagnare la condanna dell’eroe.
Mentre leggevo mi è venuto proprio in mente un altro personaggio femminile secondo me legato col tema in questione: Matilda de “Il monaco”. Qui ella, benché emissaria del diavolo, appare come Maria, come la giovane donna fatale, e infine come strega\demone.
Eppure, si può riscontrare anche qui un percorso simile a quello di Aiace\Morgan: Ambrosio difatti si condanna non solo per aver peccato – lui considerato un Santo – si innamora di Matilda. Ma anche perché si stanca presto di lei e rivolge le sue attenzioni verso una giovanissima vergine. Matilda lo asseconda (d’altronde il suo intento è dannarlo), però non escludo che l’averla rifiutata sia stato in realtà il vero inizio della fine.
6. Sulla figura della Dea nel SDA e l’eroismo di Sam, francamente finché l’autore non mi aprì gli occhi, non ci avevo mai riflettuto con convinzione.
E questo non fa che arricchire ulteriormente la grandezza del romanzo tolkeniano. Che evidentemente non ha posto queste tracce inconsapevolmente. Se riguardo l’eroismo di Sam punta l’attenzione con maggiore forza (regalandogli – e non è un dono minore da fare ad un personaggio – la chiusa della sua opera aere perennior), la riflessione della Dea è assai più nascosta (come è giusto che sia). Le due incarnazioni più riuscite sono a parer mio proprio Galadriel e Shelob (che è comunque discendente di Ungoliant, un vero e proprio inserto horror del Silmarillion, la Tessitrice delle Tenebre).
Shelob perché accompagna i due hobbit nell’ultima tappa del viaggio, quella che evidentemente si ambienta nell’aldilà. Di certo non si può dire che aiuti i nostri eroi, ma permette loro di raggiungere quello stadio interiore necessario per muovere i passi e raggiungere l’ultimo livello del gioco. Frodo, sconfitto da Shelob, non ce la farà. Sam che sconfigge Shelob grazie a Galadriel (tramite fiala), invece riuscirà a salvare il padrone e con l’aiuto dell’insuperabile Gollum anche la stessa Terra di Mezzo.
Galadriel è un personaggio, per quanto molto presente nell’opera (anche quando non lo è fisicamente), alquanto misterioso. La sacerdotessa di Varda. La Regina degli Elfi, di fatto la loro ultima guida, una superstite della prima Era. Una “donna” che lega a sé molti uomini (di certo non solo il marito Celeborn) e che mostra una natura assai più divina che elfica.
Riesce persino a carpire il cuore del valoroso Gimli il Nano (una conquista da curriculum!).
Sembrerebbe però, con la sua dipartita dai Rifugi Oscuri, che la Dea svanisca per sempre dalla Terra di Mezzo. Il viaggio di Galadriel verso ovest (il secondo della sua vita) infatti assume il valore di un viaggio definitivo senza ritorno.
Chi resta dunque?
Da quanto deduco leggendo il saggio, la mano passa alle incarnazioni umane e non più divine o semidivine della Dea. Eowyn, Arwen, e altre di cui non sappiamo.
Oppure mi sbaglio?
7. Concludendo questo primo elenco “a caldo”, direi che questo saggio finalmente dispone (senza indisporre) e soprattutto propone. Incarnando nel saggio Sam(wise) una possibile alternativa al prototipo eroico. Colui che parte, senza rifiutare la chiamata (anzi, finendo nella missione per troppa curiosità), restando nelle ombre, senza cercare la gloria, e rispettando la prima regola del bravo poliziotto (Sean Connery ne “Gli intoccabili”): “Portare a casa la pelle”.
Non solo: Sam porta a casa anche la speranza di rinascita. Forse a lui si ispirarono per il protagonista di “Willow” (a proposito di salici…)?
Ed infine un paio di input per ampliare la discussione.
Ossia due esempi di eroine che a parer mio incarnano a loro volta il superamento della figura classica e un po’ ingrigita dell’eroe. Due eroine “fantasy”, certamente connesse alla figura della Dea (ce ne saranno altre, offo solo degli spunti venuti “a caldo”).
Una è la mitica Lúthien, protagonista di una delle pagine più belle del Silmarillion tolkeniano. L’altra, assai meno famosa, è Viridiana: non quella di Buñuel, bensì quella di Terry Brooks, nel suo romanzo che preferisco, “Il Druido di Shànnara”.
Che anche loro, in maniera diversissima, hanno aperto qualche nuova strada.
*
Mi sa che ho scritto anche troppo!
Leggete sto saggio che è davvero stimolante, soprattutto per un narratore.
p.s. scusate la formattazione, che è andata a ramengo…
Aggiungo alcune considerazioni, anch’io “a caldo” (in ogni senso!) e molto preliminari, perché L’eroe imperfetto mi sembra un testo su cui molto riflettere…
1. Prima di tutto, trovo davvero fruttuosa la chiave della riflessione sull’eroe a partire dell’abbandono di una visione monolitica del mondo epico. L’eroe “tutto d’un pezzo”, infatti, non puo’ che muoversi in un mondo “tutto d’un pezzo”, e alla fine di mondi così non sappiamo che farcene… Ben venga dunque uno sguardo “obliquo” e “di frattura” che dall’eroe sposta il nostro sguardo sul mondo nel quale l’eroe si muove e agisce.
2. Riguardo all’eroe e alla dea, mentre leggevo quelle pagine mi è tornato in mente il libro di Aldo Carotenuto L’anima delle donne (Tascabili Bompiani 2004), in cui, da un’ottica junghiana, si legge la psicologia femminile secondo le caratteristiche (diverse e significative) delle dee del pantheon greco/romano. Questo per dire che mi sembra che “eroe” e “dea” attingano inevitabilmente al grande mare degli archetipi e per questo possano aiutarci a capire nuovi modi di stare al mondo.
2a. Come corollario, seguendo Carotenuto si potrebbe dire che la dea che Morgan incontra è Venere/Afrodite, dea che muove ma non è mossa, per la quale ogni amante è occasione e stimolo alla crescita (di sicuro sua; ora potremmo aggiungere: anche dell’amante).
3. Mi sembra importante che WM4 sottolinei l’importanza della costruzione delle narrazioni. Prendo l’esempio di p. 105: “tutti i personaggi femminili portano lo stesso nome: Elisabeth. […] Steinbeck ci fa capire senza sottintesi che si tratta di differenti manifestazioni della stessa entità femminile e che l’eroe di questa storia si confronterà con ciascuna di esse, volta per volta”. Non si ripeterà mai abbastanza che scrivere un romanzo (o comunque una narrazione) non significa “Buttare a caso parole su fogli di carta seguendo l’intuizione, o le lusinghe del bel suono”!
4. (ma potrebbe essere un 3a, corollario a quanto appena detto) Penso che la difficoltà principale di Ferroni nell’accogliere la definizione di NIE riguardi un po’ anche questo. In “Scritture a perdere”, se si arriva alla fine, si capisce che tutto il resto non è che una premessa, un lento precipitare verso la tesi finale: nel mondo frammentario in cui ci troviamo, solo la forma “frammentata”, breve, veloce del racconto (in opposizione al romanzo) può salvare la letteratura e il lettore. Ora, non so, ma forse il racconto inteso così con grande difficoltà può avere andamento epico, se per epico intendiamo una narrazione che ha bisogno di spazio e tempo per muoversi e far muovere l’eroe, e che si costruisce tramite richiami, echi, voci differenti. Ma qui si va fuori tema…
Comunque sì, concordo con Ekerot: leggete L’eroe imperfetto! (checche’ ne dica D’Orrico)
@ Ekerot
Lo scarso numero di note è dovuto proprio al fatto che ho voluto segnalare come non si tratti di un testo accademico o specificamente saggistico, bensì di un semplice esercizio di lettura.
Poi, d’accordissimo su Lùthien, che in fondo è il prototipo di tutte le eroine tolkieniane. Da lettore e studioso fai-da-te di Tolkien, posso dire che Lùthien è uno dei tre o quattro personaggi chiave che costituiscono i pilastri su cui si fonda la narrativa tolkieniana.
Sul livello di consapevolezza di Tolkien rispetto alle figure femminili non ho elementi per dare un risposta netta. C’è però una lettera nella quale Tolkien fa notare ironicamente che un critico letterario aveva decretato l’assenza o inifluenza delle donne nel SdA (!). Ce n’è un’altra, la 320 mi pare, in cui Tolkien riporta il parere di terzi secondo i quali le figure femminili del SdA (e in particolare Galadriel) sarebbero nati dalla sua fede mariana. Parere rispetto al quale Tolkien si dichiara d’accordo, ma poi subito aggiunge che il personaggio di Galadriel ha una biografia ben più lunga di quella che conosciamo dal SdA. Sappiamo infatti dal “Silmarillion” che Galadriel è una “peccatrice” (e quindi cosa c’entra con Maria?), cioè un’elfa che ha guidato la ribellione contro i Valar nei tempi antichi e che per questo si ritrova esule nella Terra di Mezzo. Il fatto che resista alla tentazione di prendere l’Anello quando Frodo glielo offre è l’ultima prova con la quale dimostra la propria redenzione e che le apre le porte del ritorno.
Anche in questo caso bisogna distinguere il piano simbolico da quello narrativo. Certi interpreti cattolici dell’opera di Tolkien (l’aninomo commentatore a cui fa riferimento Tolkien nella sua lettera, Pearce, Caldecott, il nostrano Monda et alii) traggono la loro lettura simbolica dal SdA, cioè dal ruolo che in effetti lei svolge rispetto all’impresa degli hobbit. Però da un lato, anche restando sul piano simbolico, proprio come scrivo ne “L’Eroe imperfetto” riprendendo Graves, sappiamo che Maria è un personaggio che raccoglie su di sé una lunga tradizione mitica, cioè uno dei volti della Dea [Il fatto che l’Incarnazione non avvenga per mero atto generativo del Padre, ma passi attraverso un grembo femminile, ha un significato evidentemente fortissimo, ed è forse l’unico vero fattore che – appunto sul piano simbolico – distanzia il cristianesimo dall’ebraismo e dall’islam]. Dall’altro lato se scendiamo dal livello simbolico a quello narrativo, tematico, allora dobbiamo riconoscere che quello che ci viene raccontato nel SdA non è che l’ultimo atto della vicenda di Galadriel, un personaggio il cui carattere, la cui biografia e le cui scelte non hanno praticamente nulla in comune con quelle di Maria.
Per quanto riguarda Viridiana, confesso di non avere elementi a disposizione per dare un parere. Molti anni fa leggiucchiai qualcosa di Terry Brooks, ma lo trovai una tale scopiazzatura di Tolkien in salsa yankee che mi passò subito la voglia.
@ danae
Non ho letto il libro di Ferroni, e in base alle critiche che ho addocchiato devo dire che mi attira pochissimo. L’umanità costruisce narrazioni complesse dalla notte dei tempi e la forma romanzo è una delle più praticate nell’epoca in cui ci troviamo a vivere. Avversarla non so che senso possa avere. Da questo punto di vista abbiamo già espresso il nostro pensiero nella seconda parte di New Italian Epic, cioè “La Salvezza di Euridice”, di WM2. Si potrebbe considerare “L’eroe imperfetto” un’espansione di quel discorso o di quella teoria della narrazione (che non è una teoria della letteratura, come altri hanno voluto affermare nella discussione fiume sulla “Letterarietà”).
per Danae dona ferentem 😉 : in effetti questa mi pare proprio l’epoca dell’anti-racconto. Anche solo per un motivo prettamente editoriale. Chi pubblica più racconti?
Prima erano (anche) la rampa di lancio per i giovani scrittori. Adesso i racconti si scrivono per lo più nelle scuole creative, e vengono pubblicati generalmente solo dagli scrittori già affermati.
Con questo non voglio assolutamente togliere dignità al racconto, ma certo non mi pare si possa dire che sia questa la sua età dell’oro. Forse Ferroni si riferisce a forme più “internettare” come il blog, fb, o gli sms? Quelli sì che son veri frammenti.
*
per WM4: infatti Galadriel con Maria mi pare c’entri molto poco. Neanche l’aspetto fisico può ricordarcela. Maria è l’emblema della pudicitia, Galadriel è splendente ed altera come Athena, un’essere che dispensa anche terrore quando vuole.
Anche dal punto di vista simbolico, se Lorien può considerarsi una sorta di fiume Lète per le anime della compagnia dell’Anello, Galadriel non è identificabile solo con una figura materna (in questa accezione mariana) che accoglie, abbraccia e rasserena i propri figli. Anzi. E’ una madre che “affanna e consola”, rivelandosi una tappa necessaria di conoscenza del sé attraverso la prova della verità.
Una Mentrice\Strega piuttosto che una Madre pura.
Se proprio vogliamo trovare un punto di contatto tra Galadriel e Maria sta nel fatto che superato l’Anduin, per i due hobbit lei diventa un oggetto delle preghiere. Un volto caro da cui trarre speranza. Ma – domando – è sufficiente a farne una figura cattolica?
Mi pare, come sostenevi tu, altamente riduttivo.
Senza considerare poi la sua vita, di quando commise atto di superbia estrema contro gli Dei seguendo Féanor.
Su Terry Brooks non posso che concordare, ma soprattutto la seconda tetralogia e in particolare “Il Druido”, sono molto meno tolkeniani di quanto si creda. Certo non v’è paragone, ma la storia narrata in quel romanzo è particolare perché la protagonista è appunto una dea – incarnata.
@Ekerot (OT, ma per concludere su Ferroni)
parlando della *forma racconto* Ferroni non descrive la realtà del mondo letterario (ed editoriale) in Italia, ma quello che secondo lui la letteratura (cioè gli scrittori) dovrebbero fare per salvare la letteratura (e il mondo) dalla deriva. Scrivere un racconto significherebbe dunque “concentrare”, opponendosi così alla dissipazione. Chiudo qui, perché non ho il libro sottomano e perché trovo più importante ragionare sulla misura lunga della narrazione epica. E L’eroe imperfetto è importante appunto perché ci mette su un’altra linea di “frattura”, e da qui si comincia a vedere un po’ più chiaro… (viene voglia di cominciare ad applicare la medesima griglia di lettura ad altre narrazioni)
Questo libro mi è risultato veramente interessante. Mi auguro se ne parli di più.