FAHRENHEIT PER ME

“C’era un buffissimo uccello, chiamato Fenice, nel più remoto passato, prima di Cristo, e questo uccello ogni quattro o cinquecento anni si costruiva una pira e ci si immolava sopra. Ma ogni volta che vi si bruciava, rinasceva subito poi dalle sue stesse ceneri, per ricominciare. E a quanto sembra, noi esseri umani non sappiamo fare altro che la stessa cosa, infinite volte, ma abbiamo una cosa che la Fenice non ebbe mai. Sappiamo la colossale sciocchezza che abbiamo appena fatta, conosciamo bene tutte le innumerevoli assurdità commesse in migliaia di anni e finché sapremo di averle commesse e ci sforzeremo di saperlo, un giorno o l’altro la smetteremo di accendere i nostri fetenti roghi e di saltarci sopra. Ad ogni generazione, raccogliamo un numero sempre maggiore di gente che si ricorda.”
Questo è Ray Bradbury, Fahrenheit 451.
Fahrenheit, inteso come programma di Radio3, compie oggi 24 anni, il che significa non solo che ci ho trascorso una fetta importante della mia vita, ma che ha chiuso un secolo e aperto un millennio, e porta con sé ancora tante domande sul futuro.
Ci ho riso e pianto, ho stretto amicizie e ho ricevuto inimicizie (sì, pure quelle: quelle di coloro che se provo a criticarli sostengono che sto abusando di un potere, e che continuano a confondere i piani, ma li compiangiamo e passiamo oltre). Ho ascoltato storie. Ho studiato.
E soprattutto, prima di ogni cosa, Fahrenheit per me è un momento preciso della nostra storia.
Ovvero, quei tre mesi del 2020 in cui ho trasmesso da casa, durante la pandemia. Ricordo: le mie giornate hanno avuto una salvifica regolarità: alzarsi alle otto, aprire ai gatti, leggere i giornali on line, cominciare a studiare, leggere e prendere appunti fino all’una. Schiarire le idee. Farmi un’insalata. Prendere il caffé, più di uno in verità. E poi, togliere la presa del computer dal salone, spostarla nell’ex camera di mia figlia, collegare il computer, allestire libri,taccuino, bottiglie d’acqua, penne e caramelle e cellulare vicino al Magico Aggeggio per Trasmettere. Andare in onda, infine. Leggervi, parlarvi, intuire gli umori, le tristezze, l’allegria e la paura, dietro i messaggi. Pensare, sorridere, commuovermi. Approfittare del giornale radio per mettere a bollire l’acqua per il tè. Bere il tè ascoltando Ad Alta Voce. Spegnere il MAT dicendomi che un altro giorno è passato, e che magari è servito.
A me è servito tanto, tantissimo. Mi ha fatto sentire utile, ecco cosa. In un modo certamente minore rispetto a chi, in quei tre mesi e anche oggi, è utile davvero, e cerca cure, e salva vite, e quelle che non salva comunque sono vite che ha accudito. Ma un po’ mi ha dato la sensazione di poter essere presente, di poter tenere compagnia a qualcuno, almeno per un po’.
Di questo sono grata. Perché senza la presenza, vi assicuro percepibile, degli ascoltatori e delle ascoltatrici, sarebbe stato tutto diverso. Quei lunghi giorni sarebbero stati molto più difficili, la paura sarebbe stata molto più forte, e la tristezza anche, senza uno scopo.
Quindi, come sempre, dico grazie, rendo grazie.

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