FARE LA OLA: PRIMA CHE LA PAROLA ANTROPOCENE DIVENTI DI MODA

Jonathan Safran Foer si domanda, nel suo Possiamo salvare il mondo prima di cena, come far sì che la questione ambientale diventi qualcosa che ci riguarda, e non l’eco di una guerra lontana. Si domanda come creare quella “ola” di persone che si trovano vicine, insieme, con lo stesso obiettivo.
Nel suo ultimo libro, On Fire: The Burning Case for a Green New Deal, Naomi Klein torna, da par suo, sul punto. Non l’ho ancora, evidentemente, letto, ma il ragionamento di Klein è sempre stato quello di interrogarsi sui sistemi complessi, su un intero, e non su un frammento, su un’attenzione duratura, e non destinata a consumarsi nel tempo di un tweet.  Otto anni fa, sul Guardian, diceva:
“Ho deciso di scrivere No logo quando mi sono resa conto che queste tendenze apparentemente distinte erano unite da un’idea: che le aziende debbano sfornare marchi, non prodotti. Era l’epoca in cui gli amministratori delegati avevano improvvise intuizioni: la Nike non è un’azienda che produce scarpe da ginnastica, ma l’idea della trascendenza attraverso lo sport. Starbucks non è una catena di caffetterie, è l’idea di comunità. Ma qui sul pianeta Terra, queste intuizioni hanno avuto conseguenze concrete.
Molte aziende che prima producevano nelle loro fabbriche e avevano tanti dipendenti a tempo indeterminato sono passate al modello Nike: hanno chiuso le fabbriche, affidato la produzione a una rete di appaltatori e subappaltatori e hanno investito nel design e nel marketing necessari a diffondere il più possibile la loro grande idea. Altre aziende hanno scelto invece il modello Microsoft: conservare un nucleo strettamente controllato di azionisti-dipendenti che gestiscono “l’attività centrale” dell’azienda ed esternalizzare tutto il resto, dalla gestione della posta alla scrittura del codice informatico, affidandolo a lavoratori precari. Alcuni le hanno chiamate hollow corporations, imprese vuote, perché queste aziende ristrutturate sembravano avere un unico obiettivo: trascendere il mondo fisico per trasformarsi in un marchio incorporeo. Come ha detto l’esperto di gestione aziendale Tom Peters: “È da stupidi possedere cose!”.
Mi piaceva studiare i marchi come Nike o Starbucks perché in un attimo ti ritrovavi a parlare di tutto tranne che di marketing: la deregolamentazione della produzione globale, l’agricoltura industriale, i prezzi delle materie prime. E da qui arrivavi al legame tra politica e denaro, che si era cementato in regole da far west grazie a una serie di accordi di libero scambio e al sostegno della Wto, al punto che attenersi a quelle regole è diventato il requisito indispensabile per ricevere i prestiti dal Fondo monetario internazionale. In poche parole, finivi per parlare di come funziona il mondo.”
Appunto: finisci per parlare di come funziona il mondo. Insieme a non molti altri scrittori (penso ad Amitav Ghosh), Klein non ha mai usato il paesaggio come uno sfondo narrativo: ha scritto saggi chiarissimi sul punto in cui siamo e sul rischio che stiamo attraversando. La percezione è stata, grosso modo, “chi se ne frega”. Perché da svariati decenni ci siamo abituati a considerare solo l’oggi, l’urgenza, a volte l’emergenza, e in questo modo abbiamo perso la capacità di accorgerci del cambiamento in corso. Il nostro, per cominciare: la nostra chiusura in nuclei sempre più piccoli, fino a coincidere con la nostra famiglia e, in certi casi, con noi stessi e basta. La nostra impossibilità a concepire un futuro. E’ così, esattamente così, che si è aperto il varco a quel che stiamo vivendo: e che si costruisce sulla paura dell’altro, mentre siamo noi che facciamo paura.
Ma anche le dichiarazioni scomposte sull’ambientalismo sono indice di una paura, e dunque di una forza possibile: chi le ha pronunciate, sa bene che c’è una sola battaglia che oggi può vincere, e quella battaglia racchiude tutte le altre (le disuguaglianze, con tutte le declinazioni che questa parola ha). E quella battaglia è quella che riguarda l’ambiente, e dunque l’economia.
Scrive Naomi Klein:
“I politici non sono i soli ad avere il potere di dichiarare una crisi: possono farlo anche i movimenti di massa di gente comune (…) in quel caldo e tempestoso futuro che abbiamo ormai reso inevitabile con le nostre passate emissioni, una fede incrollabile nell’uguaglianza dei diritti di ogni persona e la capacità di provare una profonda compassione saranno infatti le uniche cose che separeranno la civiltà dalla barbarie (…) L’urgenza della crisi climatica potrebbe formare la base di un potente movimento di massa. In grado di tessere quelle questioni in apparenza disparate in un unico discorso coerente su come proteggere l’umanità dalle devastazioni generate tanto da un sistema economico ferocemente ingiusto quanto un sistema climatico destabilizzato“.
Non c’è altra visione possibile, credo. E prima che la parola Antropocene diventi (solo) una moda, dovremmo cominciare a capirlo. Non si fa nessuna “ola” se non si esce da noi stessi.

Un pensiero su “FARE LA OLA: PRIMA CHE LA PAROLA ANTROPOCENE DIVENTI DI MODA

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Torna in alto