GLI STATI GENERALI DELL’IMMAGINAZIONE: FABIANO MASSIMI E L’ARANCIO

Questo è l’ultimo intervento dagli Stati Generali dell’Immaginazione: gli altri sono stati pronunciati a braccio e saranno visibili su YouTube.
Però.
Non è esattamente l’ultimo: perché se siete interessati a intervenire sulla questione “finzioni”, “fine delle storie” e “genere” il blog è a disposizione: potete contattarmi con il form apposito, via mail (è pubblica), via viaggio astrale, piccione viaggiatore, altro. Purché siano interventi non autoriferiti, possibilmente, e non riguardino i propri libri (precisazione antipatica ma necessaria).
Per quanto mi riguarda pubblicherò domani la mia lezione effettuata in quello stesso 1 ottobre a Multi. Quello che segue è l’intervento dello scrittore e traduttore Fabiano Massimi, sceneggiatura inclusa.

 

In genere. Di cosa parliamo quando parliamo di letteratura, narrativa, intrattenimento

[Fabiano sale sul palco, si posiziona al leggio, poi tira fuori un’arancia e la mette in bella vista]

Avevo anche una pesca, ma l’ho data a mia moglie

[torna al leggio, posiziona i fogli del suo discorso]

Sarò breve

[srotola il discorso, una cascata di decine e decine di fogli]

Tranquillo Patrick, sono scritti largo.

[guarda il pubblico]

 

Iniziamo con una storia, anzi, con una storiella: Fabiano muore e va nell’Aldilà. Siccome non è stato né buono né cattivo, può scegliere se finire all’inferno o al paradiso – l’inferno o il paradiso degli scrittori… Per prima cosa lo portano all’inferno: una sala immensa, sterminata, dove milioni e milioni di uomini e donne completamente nudi battono forsennatamente su delle macchine da scrivere, le quali però al posto dei tasti hanno degli aghi, sicché battendo e battendo dalle gronda sangue, per l’eternità. Fabiano dice: “Voglio vedere il paradiso”, per cui lo portano in paradiso: una sala immensa, sterminata, dove milioni e milioni di uomini e donne completamente nudi battono forsennatamente su delle macchine da scrivere, le quali però al posto dei tasti hanno degli aghi, sicché battendo e battendo dalle gronda sangue, per l’eternità.  Fabiano a questo punto è perplesso. Si volta verso San Pietro e chiede: “Qual è la differenza?” E San Pietro, con un sorriso cospiratorio: “Be’, sai, quelli laggiù erano scrittori di genere…”

[raccoglie la risata, se c’è una risata]

Io sono uno scrittore di genere. Lo dico senza infamia e senza lode, senza vergogna e senza orgoglio. Fin qui, secondo le tassonomie correnti, ho pubblicato perlopiù narrativa di genere: gialla, thriller, storica, con l’ultimo romanzo ho toccato persino la fiaba – ma potrei darmi un tono e dire realismo magico.

Come scrittore di genere, ma anche come lettore di genere, ma anche come docente di scrittura specializzato nel genere, e prima ancora come editor di narrativa quasi sempre di genere – insomma, come uno che nel genere ci abita da decenni, mi è capitato fin troppe volte di incontrare il pregiudizio sul genere, che è ciò di cui vorrei parlarvi oggi: l’idea che se scrivi in un modo fai letteratura, se scrivi in altri modi no; che letteratura e narrativa siano insiemi non coincidenti; che testimoniare e intrattenere richiedano talenti diversi, e così via. Vorrei parlare di come vada affrontato quel pregiudizio, e del perché vada affrontato una volta per tutte se si vuole crescere come scrittori e lettori.

La letteratura: cosa sia, nessuno lo sa. C’è chi dice: le grandi vette dell’umanesimo! C’è chi dice: qualsiasi cosa scritta senza fini pratici (cambiali, note della spesa, lettere minatorie). Una volta intervistai Paolo Nori, quando scriveva libri in apparenza leggeri che nessuno si sognava di candidare ai grandi premi (che comunque non gli lasciano vincere, perché fa l’umorismo, signora mia, e l’umorismo è un genere….) Nel mio infinito candore, che altri chiamano stupidità, gli chiesi se i suoi libri fossero letteratura. Lui mi guardò come il fesso che dovetti sembrargli e mi rispose: “E se no che cos’è?”

Cosa sia la narrativa invece lo sappiamo: è il narrare, quindi raccontare storie, un tempo inventate ma sempre più spesso anche vere, quindi a rigore anche il gossip, anche il giornalismo, basta che abbiano il famoso taglio narrativo. Gli anglosassoni dicono fiction, e prendono dentro tutto. Molto saggi. Resta che Harold Bloom disdegnava Stephen King, che a sua volta, ahimé, disdegna James Patterson. Perché vedete: i primi a tirarci la zappa sui piedi siamo noi. L’idea che la letteratura di genere sia letteratura de-genere, siamo noi i primi a praticarla. È un complesso che abbiamo, è un’accusa da cui ci difendiamo sempre in anticipo, quando basterebbe eluderla, smettere di considerarla.

Houellebecq e Carrère: cosa c’è di più letterario di loro? Sono persino francesi! Eppure entrambi sono partiti dal genere, dedicando scritti amorevoli a Lovecraft e Dick.

“Sì, però adesso scrivono libri importanti, dolorosi, che guardano in faccia la realtà e dicono verità scomode. Non fanno intrattenimento”, altra brutta parola che si accompagna sempre al genere.

Sarà.

Spero di non offendere nessuno dicendo che V13 mi ha intrattenuto più di tutti gli altri romanzi che ho letto quest’anno, gialli e storici compresi, e dichiaro volentieri che almeno una volta l’anno mi rileggo Le particelle elementari. Non per meditare. Non per elevarmi (o inabissarmi, parlando di Houellebecq). Per puro godimento, che fa rima con intrattenimento, un’azione per me nobilissima. Già la parola: intrattenere. Tenere dentro, cioè comprendere (e qui viene in mente Simenon, “comprendere e non giudicare”), contenere (il romanzo-mondo di Calvino e Moretti) ma soprattutto tenere qui, con noi, insieme, dentro il mondo, nel consesso umano. Perché a volte viene un po’ la voglia di spegnere tutto e salutare, sapete? Lasciar perdere. Lasciar andare. A me è capitato. E quelle volte è stato un buon romanzo a rimettermi al mondo, cioè a trattenermici.

Buffo quindi che “Intrattenimento” venga associato all’“escapismo”: una letteratura facile, veloce, che fugge dal reale. Ma perché qualcosa per valere deve essere difficile? E la rapidità era un valore per Calvino – le cui Lezioni americane compiono 35 anni proprio in questo 2023 –, perché deve essere un disvalore per noi? Poi la fuga. Vabbè. Sulla fuga dovrebbe aver detto tutto il grande Tolkien, ma a quanto pare tocca ripeterlo a ogni generazione: non confondiamo la fuga del codardo con il sacrosanto riposo del guerriero… C.S. Lewis, suo amico fraterno che non si faceva problemi di scrivere un giorno di teologia e quello dopo di armadi, streghe e leoni parlanti, commentò che “solo i carcerieri condannano l’evasione”. E durante il grande lockdown del 2020, quando eravamo tutti ingabbiati nelle nostre case e nelle nostre paure, l’escapismo ci è venuto in soccorso, la narrativa d’evasione ha salvato tutti noi. Un po’ di gratitudine?

Torno alla storiella con cui ho iniziato. Fabiano muore, va all’inferno, poi in paradiso, e perplesso chiede: “Qual è la differenza?” Per uno come me, ma anche per molti come voi, è questa la grande domanda. Di cosa parliamo davvero quando parliamo di letteratura, narrativa, genere, intrattenimento? Qual è la differenza?

Nessuna.

Non c’è.

Parliamo della stessa identica cosa.

Il gesto alla base, la radice, è il medesimo, e anche molti dei meccanismi.

Allora perché alcuni autori finiscono all’inferno e altri in paradiso?

(Qui ci sarebbe un’altra storiella illuminante, ma è un po’ sconcia, ve la racconto poi a pranzo.)

Il problema, a guardarlo bene, non è il genere – è la qualità, ma anche la quantità. Non è quello che facciamo, ma come lo facciamo, e quanto. Il problema è l’ambizione.

Siamo a Bologna. Per me Bologna è il centro del mondo, e non solo perché tutti i treni passano dalla sua stazione (bisogna solo trovare il binario), ma perché è qui che ho studiato ed è qui che insegnava il mio primo maestro, il più importante tra tutti: Umberto Eco, l’autore del romanzo cui torno e ritorno senza sosta. Parlo del Nome della rosa, certo. L’unico romanzo di genere ad aver mai vinto il premio Strega. E perché lo vinse? A parte che Eco era Eco, se si presentava vinceva anche Sanremo. Ci ho pensato spesso, specie quando altri autori di genere sono finiti in dozzina, magari addirittura in cinquina, ovviamente perdendo. Il fatto è che Il nome della rosa è un libro clamorosamente di genere – un thriller storico con i labirinti! – che fa molto bene ciò che deve fare per stare nel genere, ma non solo quello. Fa anche quello che fanno i libri non di genere, e altrettanto bene. Sta attento alla trama ma anche alle psicologie, descrive con maestria un luogo, un tempo e una società, si diverte ad ammazzare monaci ma anche a resuscitare questioni teologiche, e non perde mai di vista la composizione, la scrittura, la voce. Penitenziagite! Insomma: Eco vince perché fa tutto, insieme, allo stesso tempo. Come quel film premio Oscar: everything, everywhere, all at once.

Ed è qui che volevo arrivare.

La questione del genere (non del gender, quella un’altra volta) non è una questione finta che ci poniamo noi adepti. I generi esistono, e i lettori li usano anche per orientarsi. Ha senso. Se ti è piaciuto questo prova quest’altro. Editori e librai conoscono il loro mestiere. Il padre di Lee Child gli chiedeva ogni settimana di andare in biblioteca e scegliergli un libro nuovo. “Sì, ma cosa vuoi leggere?” E lui, mostrandogli l’ultimo che gli era piaciuto: “The same, but different”. (Lee Child questa lezione l’ha imparata bene, alla fine i suoi 28 Jack Reacher non sono tutti uguali ma diversi?)

Però anche la narrativa non di genere è un genere: il genere senza assassini seriali o eventi soprannaturali che vince i concorsi letterari. E fra l’altro sempre più spesso tira dentro assassini seriali ed eventi soprannaturali. Un’invasione di campo? Proprio no, perché il campo è lo stesso. È che finalmente se ne stanno accorgendo tutti.

Le opere fondanti delle grandi letterature mondiali sono tutte fantasy, diceva Terry Pratchett. L’Odissea. La Divina Commedia. Il Mahabarata. La Bibbia! Shakespeare è pieno di fantasmi ed esseri fatati, Cervantes, scherzando scherzando, scrisse comunque un romanzo cavalleresco, Goethe dedicò tutta la vita a Faust e Mefistofele. Quand’è che siamo diventati così tristi e grigi da non ammettere più un filo di sensazionale nella grande letteratura? Che poi diventa piccola, ombelicale, e ci annoia a morte, e i giovani disertano per i manga, e i vecchi si attaccano alle serie tv.

L’immaginazione passa ancora anche dai libri, ma se vogliamo che continui dobbiamo tornare a giocare a tutto campo, come fanno altri media meno lagnosi, non restare confinati nei nostri piccoli recinti. Dobbiamo tornare a fare tutto, allo stesso modo in cui fanno tutto Breaking Bad, Interstellar e la pubblicità dell’Esselunga. La trama, la lingua, la psicologia, la sociologia, il divertimento, l’impegno, la superficie, la profondità. So che ognuno di voi avrà in mente qualche esempio virtuoso, ma sono pochi, pochi, e si pubblica così tanto… Magari potremmo pubblicare di meno e ambire di più?

(Panico in sala.)

L’arancio. Mi stavo scordando dell’arancio. Non è qui per ristoro personale, è qui come incarnazione… Ma si può dire incarnazione di un arancio?… È qui come impolpazione di questo invito che rivolgo per primo a me stesso, il prossimo passo come autore di genere che non si sente solo autore di genere, che vuole smettere di pensare al genere, che quando gli parlano di genere sogna di non ricordare nemmeno più cosa significhi, di non sapere che genere di parola sia la parola “genere”.

Fare tutto.

L’arancio lo fa. È un frutto magnifico, semplice ma compiuto, che non si limita a essere sano, è anche divertente. Ha le vitamine e le fibre, ma è buono. Ha la polpa, ma anche il succo. Ci puoi tirar fuori una spremuta oppure l’aranciata. E la buccia profuma! La metti sul termosifone e cambia l’atmosfera. L’arancio è letteratura alta e letteratura bassa, è genere e non genere, è classico e pop, è bello da vedere e comodo da portare, ha un peso ma non è pesante, e una volta finito sei sazio ma ne vuoi ancora. Non è punitivo come gli spinaci, per dire. Ed è vecchio, è antico, vuoi mettere con le merendine?, ma non smette di piacere anche ai bambini. Nessuno avrà mai nulla da ridire contro un arancio, perché un arancio ha tutto. Un arancio fa tutto.

Ora, traducendo (e chiudendo, sì, Massimo non guardarmi a quel modo), come si scrive un arancio? Questo non lo so. So che voglio. So che devo. Ma la ricetta precisa, eh, non sono mica Benedetta Rossi. Io scrivo gialli, e ora sono alle prese con gli aranci. Una bella confusione.

Noi però siamo il popolo dell’immaginazione, per cui…

Immaginate un Moravia che struttura gialli come Connelly.
Immaginate un Pavese che scrive dialoghi come Foster Wallace.
Immaginate un Fenoglio che delle Langhe racconta fate, orchi, streghe, maghi.
Immaginate uno Svevo che descrive mostri fisici, non solo psicologici.
Immaginate un noir alla Chandler con la lingua di Del Giudice.
Immaginate una Lucinda Riley che dipinge il cuore umano come Elizabeth Strout.
Immaginate Ray Bradbury che possiede Ray Carver.
Immaginate Ken Follett che un mattino si sveglia e si riscopre Annie Ernaux.
Fare questo, tutto questo, insieme, nello stesso gesto.

Immaginate.

 

2 pensieri su “GLI STATI GENERALI DELL’IMMAGINAZIONE: FABIANO MASSIMI E L’ARANCIO

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