Francesca Fornario è una giornalista e un’autrice satirica e fa molte belle cose. Su Facebook, poche ore fa, ha postato questo status:
“Avevo promesso un aggiornamento sulla vicenda di Pubblico, il giornale diretto da Luca Telese , chiuso senza mai aver pagato i collaboratori a borderò e buona parte di quelli contrattualizzati (compresa me, pagata solo per i primi 2 mesi). Avevo promesso che avrei diviso tra i collaboratori dell’inserto bambini Pupù, i meravigliosi Bruno Tognolini Fabio Magnasciutti Valeria Petrone Marco Gava Gavagnin Mauro Biani GianLorenzo Ingrami i soldi che – in virtù del mio contratto – avrei ottenuto dal fallimento di Pubblico: due mesi di stipendio (di quella cosa che anche noi collaboratori ci siamo abituati a chiamare stipendio). Questo perché i collaboratori a borderò non contrattualizzati non hanno modo di far valere i loro diritti davanti a un liquidatore prima e a un curatore fallimentare poi se non affrontando una causa lunga, costosa e dall’esito incerto, nonostante l’impegno straordinario di Paola Natalicchio e Mariagrazia Gerina , membri del Cdr, che hanno fornito al liquidatore un prospetto dettagliato delle spettanze di tutti i collaboratori. Oggi il mio avvocato mi ha comunicato che, pur avendo io un contratto, non sono stata ammessa al fallimento, poiché non risulto nella contabilità (!). Il perché non si sa – per cialtroneria, suppongo, di chi teneva la contabilità – e per far valere i miei diritti dovrei a questo punto anche io intentare una causa lunga e costosa, cosa che il mio avvocato mi sconsiglia di fare perché nel frattempo – dice – i soldi che ci sono in cassa andranno agli altri creditori e non ne resteranno più. Sono stata ammessa al risarcimento di soli 200 euro come creditore chirografaro, ossia in coda ai creditori privilegiati, che sono i lavoratori dipendenti. Ai chirografari, se va bene, viene riconosciuto il 10 per cento circa della somma spettante. Dunque, con i 20 euro che dovessi eventualmente prendere, vi offrirò un caffè. E anche senza. Mi dispiace per come sono andate le cose, lavorare con voi è stato comunque un privilegio e una delle esperienze più proficue e gioiose della mia vita professionale, che per fortuna non è appagante solo in virtù di quanto si viene pagati. Così va la vita”.
Ecco, così va la vita e così non dovrebbe andare. Se qualcuno avesse dimenticato come andarono le cose a Pubblico, qui c’è un lungo e memorabile articolo di Christian Raimo del febbraio 2013. Ne riporto solo un passaggio:
“Penso che Telese e i soci di questa impresa strampalata dovrebbero – prima che arrivi il liquidatore – rimetterci di tasca propria i soldi, ricapitalizzare, perdere denaro per riguadagnare nell’extremis più abissale una qualche forma di quella fiducia che gli era stata elargita in quantità sesquipedali. E penso sarebbe necessario farlo per 4 motivi chiari: uno) perché il lavoro si paga, punto e basta; due) perché a nessuno hanno comunicato in tempo che l’acqua era arrivata fino all’orlo, altrimenti le persone avrebbero scelto se scendere, aspettare le scialuppe o affogare insieme a tutti (e io avrei evitato per esempio di chiamare altre persone, millantare crediti e futuri che non ho potuto ottemperare); tre) perché non han gestito in modo congruo la fase successiva, facendo sempre leva sulla supplenza di cdr e redazione nel tenere unite le maestranze del giornale; quattro) (motivo non da poco) perché Telese non ha mai fatto autocritica né cambiato linea editoriale né aspetto del giornale, anche quando qualcuno o molti gli hanno detto e ripetuto che non era la crisi, il prezzo alto…: era che il giornale in varie cose non piaceva.”
Dunque, vale la pena tornare sulla vicenda Il fatto quotidiano versus blogger. Perché in un paio di commenti al post di ieri Stefano traccia un parallelo fra il divieto minaccioso di riprendere e pubblicare in rete articoli usciti sul cartaceo e il caso ISBN di cui si è parlato anche qui. Stefano, così come il suo omonimo vicedirettore (Stefano Feltri), insiste sul fatto che pubblicare in rete un articolo significa danneggiare gli autori di quell’articolo. E dunque, aggiungo io, infoltire la schiera di chi sfrutta il lavoro intellettuale:
” I contenuti a pagamento si pagano, non si mettono a disposizione della rete. Così come si pagano i collaboratori, vedi il caso Isbn. Le due cose vanno insieme, e non si può sostenere l’una senza sostenere l’altra”.
E ancora:
“Gli autori sono pagati dai lettori, non ci sono piani diversi. Per questo Isbn e questo fatto vanno insieme. Coppola ha smesso di pagare perché la casa editrice non ha abbastanza lettori. Il fatto paga perché questi lettori li ha, e sono lettori che pagano. Gli altri lettori, quelli che leggono il fatto attraverso la rete, sono lettori che non pagano. Se il lavoro si paga, come si dice, c’è una contraddizione in atto. Ciò che viene sottratto agli autori è il lavoro. Quegli autori hanno scritto articoli per un committente che li avrebbe pagati con i soldi dei suoi lettori, non per chiunque. Non penso che i collaboratori di Isbn si accontenteranno della visibilità ricevuta. Oltretutto il Fatto ha una sezione online gratuita. Tutti noi usufruiamo di molto più materiale di quanto potremmo permetterci, ma questo non giustifica il fatto di usufruirne”.
Cosa viene a mancare in questo ragionamento? La responsabilità dell’editore, si tratti di giornali o libri. Perché è troppo facile attribuire al web, e ai “ladri” di contenuti la crisi di un giornale (o dei giornali, in assoluto): facile e comodo. Entrano decine di altri fattori, epocali e no: come scritto ieri, una mutazione antropologica che riguarda il nostro modo di concepire lo stare al mondo, il desiderare, l’apprendere, il cosiddetto tempo libero. Fino al linguaggio dei giornali, che insegue quello del web invece di contrapporre il proprio (l’approfondimento, per esempio), e ritiene di poter vendere più copie ingaggiando webstar o presunte tali.
Entra una mentalità cui si è aderito, anche. Ho risposto a Stefano, sul paragone fatto con Isbn, che la medesima, come altre case editrici, ha accettato di partecipare a un sistema di ricavi virtuali, fondato sul pubblicare moltissimo per coprire il disavanzo delle rese. Sono anni che se ne parla, anni che si dice che in questo modo ci si sarebbe sfracellati. Bastava fermarsi: e per fermarsi intendo trovare un’altra strada, che pure è (o era) possibile.
Non si può equiparare l’autore o il traduttore non pagati dalla casa editrice al giornalista che DEVE essere pagato dal giornale (patti chiari) e che verrebbe danneggiato dai blogger. Nè si può accusare i lettori della rete, “i ladri”, di essere la sola causa di un fallimento. Di certo questo non è il modo migliore per affrontare un punto nodale della nostra vita comune, e non solo della comunicazione.
Occorre avviare una discussione seria: capire come sia possibile collaborare (rendere disponibili in rete gli articoliusciti sul cartaceo il giorno successivo, per esempio?) senza irrigidirsi. Ma mai, in nessun modo e in nessun mondo, ci si salva la pelle accusando gli altri (i blogger ladri o i poteri forti, poco conta) e indossando il mantello della vittima. Che, invece, sembra si porti benissimo, in questa triste stagione.
Come già commentato…
Il sistema editoriale è solo uno dei tanti sistemi a sgretolarsi. Non si esce da una crisi con le stesse scarpe (e passi) con cui ci si è ficcati dentro…
“Occorre avviare una discussione seria”
Magari! Ma… chi avrebbe davvero il coraggio di mettersi in gioco e lasciare sulla soglia lustrini, corazza e armatura, giacca e cravatta, piedistallo e podio, io me mio, etc etc ? Tutti, per lo più, hanno interessi da difendere, se non sono economici son quelli dell’ego.
Secondo me c’è un altro fatto da considerare, ed è quello che rendere liberamente disponibili in rete tanti contributi (spesso anche ottimi) in qualche modo finisce per deprezzarli, per svalutarli. Cioè, questo processo diseduca il lettore all’idea che i contenuti, soprattutto quelli buoni, vuoi o non vuoi vanno pagati, perché chi li produce e chi poi li distribuisce deve essere retribuito, e non solo o non tanto in visibilità e riconoscibilità. Se invece io, lettore mediamente sgamato, li trovo comodamente in rete nella loro interezza e senza dover pagare alcunché a parte quel che spendo per la mia connessione Adsl o per il piano tariffario del mio smartphone, alla lunga smetto anche di considerarli qualcosa per cui valga la pena tirare fuori dei soldi per usufruirne. Per leggere validi contenuti non ho infatti più bisogno di andare in un’edicola e nemmeno di attivare un abbonamento digitale: mi basta surfare un po’ in rete e con pochi clic ho a disposizione gratuitamente la mia super dieta mediatica del giorno, che non ha nulla da invidiare a quanto mi possono proporre anche un quotidiano o una rivista a pagamento (anzi, per tanti aspetti può essere migliore, perché tarata esplicitamente sui miei gusti e interessi). E come scrivevo ieri in un tweet, purtroppo o per fortuna il pagare porta generalmente con sé anche un’idea di valore: se l’iPhone costasse poco, per dire, chi lo vorrebbe? Perciò, è brutto dirlo ma rendere tanti, troppi contenuti disponibili gratuitamente li svaluta pure, non li rende più così desiderabili, così appetibili come potevano essere un tempo, quando erano qualcosa che andava letteralmente conquistato e acquistato. Per contro, perché festival e appuntamenti letterari vari dove bisogna pagare per entrare o per assistere ai singoli eventi continuano ad attirare spettatori e anzi sembrano crescere di anno in anno, senza conoscere crisi? Non sarà anche perché quel dover pagare gli conferisce in automatico un’aura di maggior prestigio, di maggiore autorevolezza, di maggior valore?
Mi rendo conto che la mia è una tesi discutibile, non molto ben articolata e nemmeno troppo originale. Credo comunque che vada sviluppata una pur piccola riflessione su questo discorso della gratuità a tutti i costi che rischia di svalutare i contenuti che si producono e distribuiscono, diseducando al bisogno di remunerare chi li concepisce e mette in circolo anche – o soprattutto – in denaro.
Nazzareno, ma questo fa parte di un discorso ampio, che va assolutamente fatto, sulla cultura del gratis (che poi gratis non è mai). Che però, almeno secondo me, non è la sola causa della crisi attraversata da giornali e libri. E’ importantissimo rifletterci, e ti ringrazio per averlo fatto: ma non è la causa diretta, questo intendevo nel post.
Cara Lippierini
la crisi dei giornali e dei libri avrà infinite ragioni. Una banalotta, ma che vedo confermata dalla mia esperienza, è che molti che conosco preferiscono scrivere piuttosto che leggere. E mi sa che il fenomeno sia piuttosto ampio.
Chiarisco delle cose, giusto perché è un argomento che riguarda molti. Intanto siamo omonimi, poi Feltri mi pare sia intervenuto sul blog citato, quindi potrebbe passare anche qua. Sul resto, non una questione di additare al fallimento di un settore, e in ogni caso questo è un argomento indiretto. Il punto è se diffondere o meno, se leggere o meno gratuitamente ciò che non lo è, sia buono o no. Ovviamente non equiparo una casa editrice che avvia una collaborazione e quindi ha il dovere, anche legale, di pagare, con la scelta del lettore, che non ha responsabilità (se tutti andassimo in biblioteca il risultato sarebbe lo stesso). Non l’ho specificato perché lo dò per scontato. Ma nei fatti, per questo parlo di unico piano, la sostanza non cambia. Se le case editrici fossero più responsabili e corrette, ugualmente non pagherebbero, perché non avrebbero avviato le mille pubblicazioni che sappiamo. Se si diminuiscono i lavori tradotti, questo significa meno lavoro per i traduttori. Ma questo, lo ripeto, è un argomento indiretto. Se fossimo nel periodo più florido per il settore culturale comunque Il fatto avrebbe ragione, perché la questione è etica. Al cinema, al concerto e in edicola si paga. In rete c’è la possibilità di abbonarsi al digitale. Allora mi sfugge come non si noti la contraddizione tra il dire che il lavoro culturale si paga e sostenere che la diffusione gratuita di cose che gratuite non sono va bene. I soldi arrivano sempre dalla stessa parte. Il lettore non ha la responsabilità di sostenere un progetto in cui non crede, ma ce l’ha nel momento in cui sceglie di goderne i frutti.
@ Fabio Lotti
“Oramai si può dire con verità, massime in Italia, che sono più di numero gli scrittori che i lettori (giacchè gran parte degli scrittori non legge, o legge men che non iscrive). Quindi ancora si vegga che gloria si possa sperare in letteratura. In Italia si può dire che chi legge, non legge che per iscrivere; quindi non pensa che a sé, ecc. (Pisa, 5 Feb. 1828) … Zibaldone
ecco, fra un po’ saranno duecento anni di questo pensiero che circola, non tanto banale, quanto sbagliato.
Grazie cmq per la risposta
Anch’io trovo sbagliati i modi di Feltri e certi argomenti (soprattutto dire che sia questa la causa del fallimento dei giornali…), però capisco la contrarietà e anche il voler evitare che articoli ancora freschi di giornata vengano riprodotti online senza permesso. Forse non ci sarà un danno concreto agli editori, però non lo trovo neanche corretto, copiare integralmente -sistematicamente- articoli altrui. Che vengano da un quotidiano cartaceo, digitale, o da un altro blog, se si decide che per i propri scopi serve far sapere cosa dice quell’articolo, si può citarne degli stralci e restituire con parole proprie il contenuto generale.
Questo pure se fosse un articolo disponibile gratuitamente in rete: si cita qualche frase e per l’articolo completo si mette il link all’originale, in modo che eventuale traffico vada anche alla fonte.
Nel caso di Jack’s Blog, degli articoli presi da vari quotidiani non c’è neppure il link alle rispettive testate on line…
E trovo capzioso il paragone, letto qua e là, con la biblioteca o il bar: la peculiarità di internet è proprio di rendere fruibile lo stesso contenuto contemporaneamente e istantaneamente a ennemila lettori, dovunque siano fisicamente, è evidente che l’articolo di un quotidiano riprodotto online ha un’accessibilità, potenzialmente, ben diversa dalla copia che c’è nella biblioteca comunale.