LA RETE NEMICA: IL FATTO QUOTIDIANO, I BLOG, I DESTINI GENERALI

La storia si riassume facilmente.  C’è un blog, tenuto da Giacomo Salerno, che riprende articoli usciti sul cartaceo da alcuni quotidiani. Un blog senza pubblicità, vorrei sottolineare, che semplicemente mette a disposizione della rete testi altrimenti non disponibili.  Per ventura, pubblica un articolo apparso sul Fatto quotidiano. Su twitter, il vicedirettore Stefano Feltri interviene con la massima durezza. Minaccia il blogger a suon di avvocati: “riprendere un articolo che è venduto a pagamento è un furto. Punto. Ci rubi il prodotto che vendiamo”. “Se entro domani non vengono rimossi gli articoli rubati ci penseranno i legali.” “Da vicedirettore io devo tutelare gli stipendi delle persone che dipendono da me. Questi furti minacciano il loro futuro”. “Ragazzi: secondo voi noi come ci manteniamo? Con le copie vendute. Edicola e digitale. Se è tutto free che facciamo?” “Stiamo attuando una stretta contro tutti quelli che si appropriano di contenuti senza autorizzazione.””Noi vendiamo contenuti. non li regaliamo”. E così via. Il tutto con toni a dir poco inquietanti.
Nella discussione che sul blog di Salerno si sviluppa (la trovate al link nella prima riga) interviene, con parole civili, Peter Gomez:
“Cari amici,
vi spiego la situazione. Il Fatto Quotidiano e ilfattoquotidiano.it sono due testate diverse. La prima si regge sulle copie in edicola e giustamente cerca di spingere i lettori ad acquistare il giornale, I colleghi che ci lavorano (molto bene) hanno il diritto di veder ripagato il loro impegno, anche perché non ricevendo finanziamenti pubblici ed essendo invisi ai potenti ogni copia in meno venduta rischia di mettere in forse il futuro e la libertà della testata. Ilfattoquotidiano.it, che dirigo, vive invece di traffico e di pubblicità. I nostri pezzi (esclusivamente quelli pubblicati on line) possono essere liberamente riprodotti a patto che non vi siano scopi commerciali (cioè che il blog che li riproduce non ci guadagni sopra con delle inserzioni) e che vi sia un link che riporti all’articolo originale. Il nostro scopo infatti è fare traffico e spingiamo chiunque a condividere i nostri pezzi sui social.
Stefano Feltri giustamente protegge il lavoro suo e dei colleghi (e anche il mio visto che la parte maggiore degli introiti della nostra società editoriale arriva dalla carta e il fattoquotidiano.it non è ancora in pareggio). Vi invito, se potete, a riflettere su questa situazione. Le questioni economiche sono essenziali se si vuole restare voci libere e capisco l’amarezza e anche la momentanea incazzatura di Stefano nel vedersi potenzialmente danneggiato da chi ci vuole bene.”
Non sarà un caso isolato, precisa ancora Gomez:
“L’intenzione è quella di limitare al massimo la riproduzione dei loro contenuti. Credo che nei prossimi giorni verrà avviato un dialogo con tutti i blog per spiegare la situazione. Come avrete notato ilfattoquotidiano.it da sempre pubblica, al pomeriggio, solo un massimo di 4 pezzi provenienti dall’edizione cartacea e solo una volta alla settimana il pezzo di Marco Travaglio (che pure è come immaginate è lettissimo). Io stesso che ho una rubrica su il Fatto di carta ogni sabato, la ripubblico sul web solo ogni 3 settimane. Personalmente credo che illustrando nei prossimi giorni alla Rete la situazione lotteremo degli ottimi risultati. Per ora chiedo solo di considerare con attenzione la nostra posizione.”
Nonché:
“Per mantenere i bilanci in attivo io qui sto tagliando tutto quello che posso. Io e i miei colleghi guadagniamo meno dei nostri corrispettivi in altri giornali (ma non ci lamentiamo) e sappiamo che se le cose andassero male non avremmo nessuno disposto a finanziarci. Stare attenti è per noi un dovere. Il web, che dirigo, va bene. Ma raccoglie più di un milione di euro in meno rispetto a quello che costa. Sappiamo che tra 24 mesi andremo in pareggio. Per ora no. Il mio dovere è quello di essere prudente e pensare al futuro delle persone che lavorano con me, alle loro famiglie e, mi permetta l’impertinenza, alla mia. Se non lo facessi non sarei un buon direttore (affermazione, mi rendo conto, già di per sè discutibile)”
L’argomento è centrale, direi, e va al di là della quotidiana rissa da web. La riproduzione di articoli usciti su carta (evidentemente corredati da firma dell’autore e citazione della fonte, anche se mi sembra superfluo precisarlo) minaccia davvero le vendite di un quotidiano?
Se così fosse, temo che sia una guerra perduta: è sempre avvenuto e sempre avverrà, e temo anche che sia troppo facile accusare il blogger di turno di voler farsi bello col lavoro degli altri. Non è così, o non necessariamente così. Io stessa, quando leggo un intervento interessante, desidero condividerlo: penso, per esempio, alla recensione che proprio Stefano Feltri ha fatto del romanzo di Romolo Bugaro, Effetto domino, e apparsa sul Fatto cartaceo di ieri. E’ un peccato non averla a disposizione nei giorni successivi all’uscita cartacea (naturalmente la recensione c’è, in rete: e non la linkerò, visto il clima).
Ora, credo che occorrerebbe distinguere i piani: agli autori degli articoli, spesso chiamati in causa in questa discussione, nulla viene sottratto dalla circolazione libera di testi per cui – ci si augura vivissimamente – sono stati pagati. Poco e male e in ritardo ma, ripeto, e ripeto pure l’auspicio, pagati.
Quanto al giornale, mantengo i dubbi: continuo a non essere convinta che sia la rete e il modo in cui diffonde i contenuti a insidiare le vendite. O meglio: la rete ha la sua responsabilità ma per un motivo diverso e più ampio. Offre, banalmente, altri motivi di intrattenimento e di informazione: possiamo discutere fino alla nausea sulla qualità di quell’informazione, e preciso anche che io resto convinta che sia necessaria professionalità, nel fornirla. Ma così è, ed è impossibile tornare indietro.
Si mettono a rischio posti di lavoro? Certo, ma non per la divulgazione dei testi. Avviene nel giornalismo, avviene nell’editoria: dove non sono certo i libri piratati a sottrarre lettori e guadagni. E’ l’attenzione di chi, ed è la maggioranza, trova nella lettura di un giornale o di un libro non una passione primaria, ma un “modo per passare il tempo”. Quel tempo, oggi,  viene passato altrimenti.
Come scrive Guido Mazzoni nelle pagine finali del suo bellissimo I destini generali :
“Liberati dalle trascendenze religiose e laiche, gli esseri umani non vogliono quello cui le interpretazioni nobili dell’Illuminismo li destinavano, non vogliono l’uscita dalla minorità, la partecipazione alla vita della polis o la creazione di un mondo più giusto; vogliono passare il tempo curando i propri affetti e inseguendo le proprie mete personali, le proprie costruzioni ausiliare, i propri dada; vogliono il frigorifero, la vacanza al mare e una capsula di microautonomia; vogliono dimenticare la noia, la fatica e la morte che galleggiano nebulizzate sopra un tempo che non rimanda a nulla, e che proprio per questo va goduto; vogliono divertirsi e sognare”.
Terribile? Sì. Ma negarlo serve a molto poco. Nel caso del Fatto quotidiano, che pure deve le proprie fortune all’ aver capito e introiettato e accolto il linguaggio della rete, non credo che sia utile chiedere ora alla rete comprensione: naturalmente spero (per loro e per tutti) di sbagliarmi. Ma credo anche, nel mio piccolissimo, che la crisi dei giornali si possa superare solo cercando di capire come si fa a essere complementari, e non simili, alla rete stessa. Cercando di non seguirne ritmi e lessico, per esempio.
Vale anche per i libri, naturalmente, e altrettanto naturalmente la crisi era annunciatissima. Come si fa? Si tenta di non svuotare il mare col cucchiaino e si costruisce una zattera, forse. Si cercano altri modi, altre lingue, altre storie.  Le ultime parole del libro di Guido Mazzoni sono: “non ho nulla di politico o di reale da opporre a tutto questo. Ho solo una forma di disagio”. Forse bisogna cominciare a prendere atto pubblicamente del disagio. E di trovare qualcosa di politico, nel senso più ampio, da opporvi.

8 pensieri su “LA RETE NEMICA: IL FATTO QUOTIDIANO, I BLOG, I DESTINI GENERALI

  1. Al di là dei contenuti, che non condivido, cio’ che mi colpisce é l’aggressività con cui si minaccia un blogger di “chiudere il sito”. Non di rimuovere i contenuti, ma proprio di chiudere tutto il sito. Per di più, lo si insulta dandogli pubblicamente del ladro. E’ incredibile. E poi su twitter, non sarebbe stata meglio un email? Ha scelto la modalità di comunicazione più plateale, la dimostrazione di forza. Quanta arroganza, quanto autoritarismo, quanta ostentata mancanza di rispetto.

  2. Quella dei metallica contro napster nei primordi del web si rivelo` una vittoria di Pirro. Il mondo che gira intorno alla musica ha dovuto imparare a girare in maniera diversa, e il gruppo ci ha messo un bel po a ritrovare la stima incondizionata che era riuscita a conquistarsi sul campo. Gomez ha comunque fatto bene a usare toni concilianti, nel frattempo che trova una soluzione alla paura condivisa tipica di una nuova era
    http://www.webnews.it/2015/04/13/metallica-vs-napster-15-anni/

  3. La questione è molto semplice e il libro di Mazzoni non credo c’entri molto (bello, ma non condivisibile, per me). I contenuti a pagamento si pagano, non si mettono a disposizione della rete. Così come si pagano i collaboratori, vedi il caso Isbn. Le due cose vanno insieme, e non si può sostenere l’una senza sostenere l’altra.

  4. Non farei paragoni con la musica, il filesharing ha semplicemente demolito i circuiti indipendenti e la possibilità di vivere di musica a livelli medio bassi. Il risultato è il moltiplicarsi di talent show, di minestre riscaldate e nessun nuovo vero autore simbolo, come succedeva fino ai 90.
    Per i giornali che puntano più sulla qualità, che sui fan di giornalisti guru e schieramenti politici in voga, credo ci sarà ancora spazio. Leggere su web e su carta non è la stessa cosa.

  5. Stefano, il libro di Mazzoni c’entra più di quanto si possa pensare, specie nelle ultime parti. Quanto al caso Isbn, credo sia citato a sproposito: come scritto, gli autori degli articoli vanno evidentemente pagati. Ma da qui a pensare che siano sminuiti dalla diffusione degli articoli stessi, ce ne corre eccome.

  6. Giobix, non vorrei entrare in polemica anche perche` in quegli anni non ero esattamente sul pezzo, ma ricostruendo a posteriori temo di poter dire che la qualita` della musica promossa sul mercato della seconda meta` degli anni 90, fatte salve le dovute eccezioni come per esempio Moby e i radiohead, non fosse molto alta e ci fosse troppo mestiere(ovviamente quando si parla dei frutti della creativita` tutto e` relativo e ogni giudizio impugnabile)

  7. Gli autori sono pagati dai lettori, non ci sono piani diversi. Per questo Isbn e questo fatto vanno insieme. Coppola ha smesso di pagare perché la casa editrice non ha abbastanza lettori. Il fatto paga perché questi lettori li ha, e sono lettori che pagano. Gli altri lettori, quelli che leggono il fatto attraverso la rete, sono lettori che non pagano. Se il lavoro si paga, come si dice, c’è una contraddizione in atto. Ciò che viene sottratto agli autori è il lavoro. Quegli autori hanno scritto articoli per un committente che li avrebbe pagati con i soldi dei suoi lettori, non per chiunque. Non penso che i collaboratori di Isbn si accontenteranno della visibilità ricevuta. Oltretutto il Fatto ha una sezione online gratuita. Tutti noi usufruiamo di molto più materiale di quanto potremmo permetterci, ma questo non giustifica il fatto di usufruirne gratuitamente.

  8. Stefano (Feltri?), no, i piani sono diversi. Coppola ha smesso di pagare perché ISBN, come altre case editrici, hanno accettato di partecipare a un sistema di ricavi virtuali, fondato sul pubblicare moltissimo per coprire il disavanzo delle rese. Sono anni che se ne parla, anni che si dice che in questo modo ci si sarebbe sfracellati. Bastava fermarsi: e per fermarsi intendo trovare un’altra strada, che pure è possibile.
    Non può equiparare l’autore o il traduttore non pagati dalla casa editrice al giornalista che DEVE essere pagato dal giornale (patti chiari). Nè può accusare i lettori della rete di essere la causa di un fallimento. Se fallimento c’è, la rete entra “anche” come fattore ma non per i motivi da lei indicati.

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