Dunque, rieccoci qui. E’ stata una lunga assenza, complici festival e altri appuntamenti. Per tornare, ripropongo in vista della domenica elettorale gli articoli che ho scritto in questi due mesi per L’Espresso sui programmi dei partiti. Comincio assemblando i tre dedicati a Fratelli d’Italia.
La famiglia
E’ il 1970. In Mai devi domandarmi, Natalia Ginzburg scrive: “da tempo orfani, noi generiamo degli orfani, essendo stati incapaci di diventare noi stessi dei padri”. E’ il 1993. David Foster Wallace (eletto il mio scrittore di riferimento in questa campagna elettorale) dice in un’intervista una cosa molto simile: abbiamo messo sottosopra la casa, come fanno i figli, e aspettiamo che i genitori tornino per sistemare le cose, ma ci rendiamo conto che non torneranno più. Il dramma della sua generazione, dice, è “e che noi dovremo essere i genitori.”
E’ il 2022 e dovremmo aver capito che parlare genericamente di famiglia è impossibile, perché le famiglie sono cambiate e sono diverse da ogni punto di vista (emotivo, sociologico, culturale, statistico). Ma alla famiglia è dedicato il primo punto del programma elettorale di Fratelli d’Italia, che si svela nel suo reale significato solo all’ultima riga. Quella riga, alla lettrice di Stephen King che sono da anni, ha fatto venire in mente Margaret White, la madre di Carrie, protagonista del primo romanzo di King: per l’esattezza, il momento in cui la figlia torna a casa e Margaret è immobile su uno sgabello da cucina, con un coltello nascosto nelle pieghe della gonna, e dice alla figlia che “il peccato non muore mai”.
Per ora lasciamola sullo sgabello. Fino a quella riga la scelta è comprensibile: non è strano che il primo punto riguardi le famiglie (“il più imponente piano di sostegno alle famiglie e alla natalità della storia d’Italia”, Onmi inclusa), se ricordate quello che si diceva la settimana scorsa su Margaret Thatcher e la sua famosa frase “la società non esiste, esistono le famiglie”. Individualismo contro comunità. Non è neanche strano che si parli di sostegno alla natalità in un paese con sempre meno figli: semmai è la sinistra a occuparsene troppo timidamente, con alcune virtuose eccezioni come Giuditta Pini, o Cecilia D’Elia e Giorgia Serughetti, che hanno spesso ricordato che non è vero che non si facciano figli solo per mancanza di welfare, ma perché decenni di neoliberismo hanno distrutto “lo spazio politico delle relazioni tra esseri umani, e ucciso le promesse del futuro. Mentre diventare genitori è esattamente aprirsi al futuro”.
Certo, ci sono anche molti motivi pratici per temere di diventare genitori: secondo l’ultimo rapporto Istat, le donne tra i 25 e i 49 anni sono occupate nel 73,9% dei casi se non hanno figli, mentre lo sono nel 53,9% se hanno almeno un figlio di età inferiore ai 6 anni. Se si rimane ai motivi pratici, la proposta di Fratelli d’Italia è indubbiamente condivisibile: “asili nido gratuiti e aperti fino all’orario di chiusura di negozi e uffici e con un sistema di apertura a rotazione nel periodo estivo per le madri lavoratrici”. E’ sottinteso, ma si immagina che magari quegli asili verranno aumentati, visto che la strategia di Lisbona prevedeva il 33% di accoglienza dei bambini entro il 2010 come tetto per garantire “il sano sviluppo di ogni paese”. L’Italia è al 26,9%, ma Sud e Isole sono circa al 15%. Anche perché i criteri di selezione delle domande da parte dei comuni per l’accesso ai nidi pubblici tendono a favorire le famiglie in cui entrambi i genitori lavorano. Le madri sono sacrificabili. Come lo sono nel congedo parentale, che Fratelli d’Italia intende coprire, lodevolmente, fino all’80% della retribuzione. Ma chi prende, oggi, quel congedo? Secondo l’indagine Ipsos-WeWorld, in Italia solo un padre su due usufruisce dei congedi di paternità e se entrambi i genitori lavorano, e nella maggioranza dei casi è la madre a utilizzarlo, semplicemente perché quello femminile è lo stipendio più debole. Il risultato è che la quota di donne che lasciano il lavoro dopo la nascita dei figli è 5 volte superiore rispetto a quella degli uomini: 25% contro 5%. Quel che si intende è che difficilmente il proposito si realizzerà se non si risolve la disparità di stipendi, presenza, possibilità di carriera delle donne.
Detto questo, la domanda è semplice: a quale famiglia si rivolge Fratelli d’Italia con tutto il resto degli incentivi e agevolazioni del programma? Perché, appunto, le famiglie sono diversissime rispetto all’immagine pubblicitaria padre-madre-due figli- cane. Sempre l’Istat ci dice che le coppie con figli e le famiglie composte da una sola persona si equivalgono numericamente, nel nostro paese: 33%. E che oltre alle coppie con figli, a quelle che non ne hanno e alle persone sole esistono famiglie con un solo genitore (una su dieci) e le coppie omosessuali. La risposta è nell’ultima riga del primo punto, che propone: “Difesa della famiglia naturale, lotta all’ideologia gender e sostegno alla vita”.
Il “sostegno alla vita” è immaginabile, se ricordiamo la difficoltà di interrompere la gravidanza in Italia e tutti i tentativi di infiltrare gruppi no-choice nei consultori (e a proposito, perché non estendere l’azzeramento dell’Iva agli anticoncezionali, oltre che ai prodotti per l’infanzia?). Passiamo alla famiglia naturale: nel concetto di “naturale”, si suppone che le famiglie LGBT+ non rientreranno, e non avranno dunque alcun tipo di agevolazione, anche se con figli. Peraltro, vale la pena ricordare (ancora Istat) che il 26% delle famiglie LGBT+ che hanno contratto unione civile hanno dichiarato che il proprio orientamento sessuale ha rappresentato uno svantaggio nel corso della vita lavorativa in almeno uno dei tre ambiti considerati (retribuzione, avanzamenti di carriera, riconoscimento delle capacità professionali). Dunque, gli svantaggi continueranno se ben si intende il senso di quel “naturale”.
Infine, il gender. Che non esiste. Pensiamo a due libri, Il libro delle famiglie di Todd Parr dove si racconta appunto che le famiglie sono plurali e diverse. Oppure a un classico come Piccolo blu e piccolo giallo di Leo Lionni, che parla semplicemente di amicizia. I due testi sono stati censurati e messi all’indice più volte in quanto portatori di ideologia gender (che non esiste). Ci sono gruppi come Rinnovamento per lo spirito santo che li hanno espulsi dalle biblioteche scolastiche. Non paghi, hanno convocato anche un esorcista (è successo davvero, a Siniscola, otto anni fa). Ci sono scuole, tantissime, dove non è possibile parlare di educazione sessuale o sentimentale (a differenza degli altri paesi europei) perché vessate dai movimenti anti-gender (che non esiste). La cosiddetta lotta all’ideologia gender si traduce in censura, in disinformazione e in mancanza di opportunità.
E’ ora di far scendere dallo sgabello Margaret White e di appaiarla a un altro personaggio di King, la signora Carmody, che appare nel racconto The Mist. Margaret soggioga la figlia con la paura e l’evocazione di un peccato inesistente, la signora Carmody attira seguaci facendo leva ancora una volta sulla paura, l’incertezza, la disperazione. Disunendo, e non unendo: come avviene nella distinzione tra famiglie considerate naturali e famiglie considerate, probabilmente, aberranti. Distinzione che aggrava lo stato delle cose, altro che piano per la natalità: come dice la protagonista del bellissimo Negli occhi di una ragazza di Marina Jarre, “non puoi fartela da solo, la tua rivoluzione”.
La sicurezza
In uno dei suoi libri più famosi, Allucinazioni, Oliver Sacks non si limita a catalogare le medesime, ma sostiene che “dovremmo chiederci in quale misura l’arte, il folclore e perfino la religione abbiano avuto origine da esperienze allucinatorie”. Lui si riferiva a Edgard Allan Poe e Guy de Maupassant, noi al programma di Fratelli d’Italia. I famosi 15 punti letti e commentati negli ultimi giorni erano sì frutto di una precedente elaborazione, ma sono rimasti sul sito ufficiale e su quelli delle sezioni locali fino alla settimana scorsa. Poi sono scomparsi, sostituiti dalla scritta “Programma in elaborazione. A breve on line”. Non è un’allucinazione collettiva, evidentemente, bensì la necessità di proporsi come partito di governo: una questione di toni, come ben sapeva Lionel Logue mentre istruiva re Giorgio VI per il suo discorso alla nazione nel 1939 (era la dichiarazione di guerra alla Germania, e il film era Il discorso del re, su sceneggiatura di David Seidler).
Mentre l’elaborazione procede, il web serba tracce di un preludio: è un documento dello scorso aprile, Appunti per un programma conservatore. Il tono è effettivamente diverso, la sostanza no. Nel programma oscurato il secondo e il terzo punto riguardavano l’italianità e la sicurezza. Nel primo caso, si andava giù pesanti: precedenza agli italiani nell’accesso ai servizi sociali e alle case popolari, no allo ius soli, albo degli imam e “obbligo di sermoni in italiano”, fiera opposizione a chi vuole vietare il presepe e rimuovere i crocifissi, tetto di alunni stranieri per classe. Insomma, di che dar da scrivere a Margaret Atwood per i prossimi vent’anni.
Gli appunti, invece, sono affidati agli interventi di una serie di esperti, che usano parole assai più sfumate: quindi tutta la vicenda sul crocifisso insidiato e sui sermoni da tradurre si trasforma in una pensosa riflessione di Marcello Pera sul liberalconservatorismo, inteso come difesa della tradizione cristiana per salvaguardare “la dignità della persona, la patria, l’ordine, la legalità, la famiglia, il matrimonio, la vita, la sicurezza”. Insomma, i liberalconservatori respingono come “conquiste false e dannose” i “nuovi modelli di famiglia, di matrimonio, di procreazione, di educazione, di genere, di fine vita”. Pensoso ma chiarissimo: solo ripulito, come fa il professor Higgins con Eliza Doolittle in My fair lady.
Passiamo al punto sulla sicurezza, che nella vecchia versione annunciava fra l’altro: revisione “della cosiddetta legge sulla tortura. Controllo del territorio anche con il contributo dell’esercito. Chiusura dei campi nomadi anche per eliminare il fenomeno dei roghi tossici nelle grandi città, legge che dica che la difesa è sempre legittima”.
Negli Appunti, è Paolo Del Debbio a occuparsi dell’Italia delle periferie. E per la lotta al degrado, alla spazzatura e alle scritte sui muri evoca la Teoria delle finestre rotte. Ora, la Teoria delle finestre rotte non è un film horror (o forse è horror ma non è un film). E’ una tesi di George L. Kelling e James Q. Wilson apparsa su The Atlantic nel 1982: sostiene, in pratica, che una finestra rotta ne chiama un’altra, e che quindi la criminalità, anche micro, si combatte con il decoro. Il sindaco di New York, Rudolph Giuliani, se ne servirà nel 1994 per la famigerata strategia della tolleranza zero (che rose e fiori non fu: Amnesty Internazional ricorda che le richieste di risarcimento per danni causati da perquisizioni violente della polizia e le denunce per i loro comportamenti arbitrari aumentarono rispettivamente del 50 e del 41%, e che soprattutto tra il 1993 e il 1994 il numero di civili uccisi nel corso di operazioni di polizia crebbe del 35%). Soprattutto, la teoria venne contestata radicalmente in uno studio su Nature del 2017, che dimostra come semmai la repressione dei piccoli crimini abbia causato un incremento dei crimini maggiori.
Questa faccenda del decoro come motore primo contro il degrado, però, fa parte anche della cattiva coscienza della sinistra. Nel 2017, quando viene varato il Decreto Minniti in materia di ‘Sicurezza delle città’, si comincia a usare la parola decoro come equivalente di “decenza di facciata”, nello stesso modo in cui lo intendevano gli appartenenti al movimento della Quality of life che di Rudolph Giuliani furono i supporter. Come ricorda in un lungo articolo su Giap lo scrittore Wolf Bukowski, cominciò tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta con i volontari che invece di sollecitare l’incremento dei servizi di giardinaggio pubblici, che erano stati decurtati, cominciarono a fare da soli. Ma, dopo aver messo a dimora i ciclamini, si accorsero che nei parchi abitavano gli ultimi, i senzatetto, le prostitute, gli alcolisti, e pretesero e ottennero ringhiere e cancelli: “Si realizza così quella fusione tra risposta al disagio sociale e architettura ostile che ancora oggi è tipica delle politiche del decoro.” Ovvero: le panchine anti-homeless, lo sgombero dei migranti dalle stazioni per collocare fioriere anti-uomo e tutto quello che privilegia l’apparenza alle politiche di accoglienza e convivenza.
Negli Appunti si va morbidi, si sostiene che lo Stato deve garantire sicurezza perché “non è possibile accettare che una donna non possa tornare a casa da sola senza essere importunata” (vecchia storia, quella dei corpi delle donne usati a fini securitari e identitari). Ma vale la pena di ricordare che confondere sicurezza con decoro è faccenda pericolosa, così come lo è cavalcare l’onda della paura. Alla paura ci si abitua. Ci si abitua a tutto, ricordava Peppino Impastato ne I cento passi: “All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore”. Parole simili a quello di uno secondo fantasma da evocare, quello di Luca Rastello, che in Dopodomani non ci sarà scrisse: “Se c’è un augurio che posso farvi, allora, è di non cadere mai nella trappola della rassegnazione e dell’accettazione. Non è mai finita. Mai. C’è sempre almeno ancora una svolta imprevista, sempre”.
La scuola
“Chi vive deve essere preparato ai cambiamenti”, scrive Wolfgang Goethe ne Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister. Lo stesso concetto può essere espresso da una delle frasi più citate di Friedrich Nietzche, “quel che non ti uccide ti rafforza”, che alla fine degli anni Novanta viene usata come slogan di lancio dei Pokémon, videogioco e altro di Satoshi Taijri. Una delle chiavi di Wilhelm Meister e dei Pokémon è infatti l’evoluzione: nel caso dei secondi, l’evoluzione medesima si svolge in tre tappe. Tre sono le evoluzioni del programma sulla scuola del centrodestra, prima diffuso, poi ritirato e infine ridiffuso, ed è interessante seguirle.
Prima evoluzione, che corrisponde a Pichu dei Pokémon. Nei 15 punti di Fratelli d’Italia le proposte erano fra le altre “efficientamento del percorso formativo per rendere competitivi i giovani italiani rispetto ai loro coetanei europei; abolizione della “Buona Scuola” e superamento dell’alternanza scuola lavoro (che non esiste più da tre anni, ma tant’è, ndr); concreto sistema di orientamento universitario e lavorativo”. Per l’università, “ciclo di studi di 4 anni; abolizione della lotteria del test d’ingresso e introduzione di un sistema di accesso per reale merito al termine del primo anno di corso comune a più facoltà” (il che significa spostare il test di un anno, non abolirlo, ndr).
Il concetto di merito si chiarisce meglio nella seconda evoluzione, quando Pichu si trasforma in Pikachu e il pensiero sulla scuola negli Appunti per un programma conservatore che citano esplicitamente il pensiero di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi e contrastano l’idea “umiliante e perversa di democratizzazione e inclusione”. Proposte: passare dalle bocciature ai livelli, ovvero “non ti boccio mai ma alla fine della scuola secondaria superiore non ti rilascio un diploma ma una scheda che dettaglia, materia per materia, il livello che sei stato in grado di raggiungere”. Infine, il diritto di scegliere fra le scuole “in cui le priorità sono la socializzazione, l’intrattenimento, e la tutela (malintesa!) delle minoranze in difficoltà, e scuole in cui le priorità sono lo studio e l’acquisizione di conoscenze”. Di più: “famiglie e insegnanti che non apprezzano la deriva dell’abbassamento dovrebbero avere il diritto di fondare scuole di tipo nuovo, cui si accede con appositi voucher”. Un bel muro ideologico, insomma, come quello che separa Urras e Anarres ne I reietti dell’altro pianeta di Ursula Le Guin.
Cosa resta nella terza evoluzione (Pikachu diventa Raichu, i 15 punti di Fratelli d’Italia diventano i 15 punti del centrodestra)? Cambiano i termini. “Rivedere in senso meritocratico e professionalizzante il percorso scolastico” e “Maggiore sostegno agli studenti meritevoli” e “Valorizzazione e promozione delle scuole tecniche professionali volte all’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro” e “Riconoscere la libertà di scelta educativa delle famiglie attraverso il buono “, fra le altre cose.
Partiamo dell’efficientamento (si plachino i puristi: il termine esiste, ed è usato anche per il Ponte sullo Stretto). Girolamo De Michele, lo scrittore, insegnante e autore di un libro importantissimo come La scuola è di tutti, mi segnala che l’idea che i giovani non trovino lavoro perché privi delle necessarie competenze nasce con il rapporto Studio ergo lavoro del 2014 dell’agenzia McKinsey, del quale si servì Renzi per la Buona Scuola: “dietro questa pretesa che le competenze servano a distinguere i meritevoli di successo nel mondo del lavoro, si cela l’ideologia della meritocrazia, il culto dell’eccellenza, la naturalizzazione della divisione della società in vincenti e perdenti”. E aggiunge che quel frame è smentito dal 55° Rapporto Censis 2021, che descrive “Un’occupazione povera di capitale umano, una disoccupazione che annovera tra i suoi componenti un numero elevato di laureati e una domanda di lavoro non del tutto orientata a inserire persone con livelli di istruzione elevati” e parla esplicitamente di “sottoutilizzo del capitale umano” e “dissipazione delle competenze”.
Questo è il punto centrale: la scuola serve a formare cittadini consapevoli e attrezzati per la società complessa nella quale dovranno vivere, o lavoratori docili? L’istruzione è quella cosa di cui parlavano Tullio De Mauro, ma anche Franco Fortini, ma anche Antonio Gramsci o quella che desidera Confindustria? Il merito cresce nel vuoto pneumatico o è gravato da genere, classe, appartenenza? Altre domande: perché ridurre l’università di un anno, quando la vita media si è allungata e semmai bisognerebbe estendere il periodo di formazione? (La risposta soffia nel vento: per entrare prima nel mondo del lavoro). Eliminare il precariato dei docenti? Bello, ma come si risolve se non con il ripristino di cattedre, orari e discipline pre-riforma Gelmini?
Mentre le risposte continuano a vorticare nella bufera, ho chiesto a Girolamo De Michele di cosa non si parla. Di tante cose: per esempio del liceo di 4 anni, che in questa legislatura dovrà essere istituzionalizzato o meno dopo la sperimentazione. Dei contenuti: “di quelli che attualmente ci sono, di quelli aboliti dalla riforma Gelmini (tre per tutti, nelle superiori: musica, e nella maggior parte degli indirizzi diritto e informatica); di quelli dell’Agenda 2030, che al momento non hanno uno spazio reale (sono dentro i contenuti di Educazione Civica, che però non ha né un’ora né un docente né fondi specifici dedicati)”. Delle classi pollaio, dei criteri di attribuzione delle risorse che penalizzano le scuole più bisognose. Del fatto che questa è una scuola “classista, che non attua un reale ascensore sociale”. E che infine, dando la possibilità alle famiglie di scegliere le scuole, i piani di studio, le modalità didattiche si perpetra un attacco frontale alla scuola pubblica, e alla scuola costituzionale
Con un preoccupante punto preso dai pregressi (quelli livello Pikachu). Dove si parla (si immagina riferendosi alla scuola) della “promozione dei corretti stili di vita; lotta all’alcolismo, alla droga e ai trafficanti di sostanze stupefacenti “. Si chiama Stato Etico, che orienta le coscienze dei cittadini, invece di creare le condizioni per decidere autonomamente i propri valori e stili di vita.
In un famoso libro del 2004, L’epoca delle passioni tristi, Miguel Benasayag e Gérard Schmit dicevano: “L’educazione dei nostri figli non è più un invito a desiderare il mondo: si educa in funzione di una minaccia, si insegna a temere il mondo, a uscire indenni dai pericolo incombenti”. Così è anche peggio: si insegna a desiderare un mondo di efficientamento, e non è un bel mondo.