I ROMANZI E LE FERITE: IL TERREMOTO, ANCORA

Molto è stato detto, molto si dirà, e chissà se in questo turbinar di parole qualcosa si rivelerà utile per orientarsi nei tempi in cui siamo. Devo aggiungere solo una cosa, di cui ho bisogno di parlare, e riguarda il terremoto. In quel 2016 in cui La notte si avvicina prende forma, nella stessa estate ma due mesi dopo il mio arrivo a Lampedusa, il terremoto rade al suolo case e paesi nel centro Italia. Fra poche ore sarà l’anniversario, il quarto, della seconda e terribile scossa che assesta un colpo definitivo a tanti dei luoghi amati, che sono ancora nelle stesse condizioni.
La notte si avvicina parla, anche, di due terremoti: spostati indietro nel tempo e retrodatati agli anni Novanta e Settanta. Del resto, i luoghi che racconto sono terre che tremano da sempre, ma non così, e soprattutto non come è avvenuto quattro anni fa, e oggi ancora nulla è cambiato da quel giorno.
Ricordo.
Il 29 ottobre 2016, di ritorno da una visita brevissima a Serravalle, scrissi questo, ignorando che all’alba del giorno dopo sarei stata svegliata in un letto che sobbalzava e si spostava, a Roma, pensando con orrore “è finito tutto”. Questo era, dunque:
“Quello che resta alla fine di questa giornata è una considerazione sul nostro bisogno di vedere, e di avere a disposizione visioni sempre più forti. Cosa pensate quando vi si parla di terremoto? Di certo, alle immagini cui tutti siamo stati abituati: le case sventrate, la quotidianità di un armadio o di un letto o di un cesso esibita, il dettaglio che stringe il cuore (il giocattolo fra le macerie, la fotografia nella cornice infranta, una scarpa, se va bene un velo da sposa). Ecco, il terremoto non è solo questo. Può essere, per esempio, paesi che mentre ti avvicini sono intatti e un cielo d’autunno senza nuvole, e roverelle che frusciano al vento, e foglie che arrossano dolcemente, e vi chiedete dunque: ehi, ma non è successo niente, qui? Cosa posso vedere? Dove sta, questo terremoto?
Il terremoto, per esempio, sta nelle crepe che vedi solo se ti avvicini, o peggio ancora se entri. E quelle crepe (quando non sono pareti che si staccano) significa che quella casa tu non puoi usarla. Non importa se dentro ci sono le cose che ami, o andando sul pratico le mutande e i calzini per cambiarti e i documenti. Non puoi usarla e punto. Il terremoto sta nelle case di Muccia, che vista dalla statale è Muccia come l’hai lasciata, ma poi prendi l’unica strada percorribile e ogni casa (tranne sette, mi raccontano), è segnata da una saetta, o da una ics, o da fessure verticali, come se le pareti si fossero scollate. Il terremoto sta nel gestore del ristorante e dell’hotel Carnevali, che sotto un gazebo di fortuna offre comunque caffé e panini, perché nessuna attività commerciale si è salvata. Il terremoto sta in Camerino che è lassù in alto, e che è chiusa. In Pievebogliana, Pievetorina, Caldarola, e certo Visso e Ussita, ma anche in tutti i paesi che non fanno notizia perché non sono rasi al suolo, ma inagibili in molta parte sì.
E dal momento che per grazia della Sibilla o degli Dei non ci sono stati morti, pare molto brutto dirlo, ma la sensazione diffusa è che non si venga presi molto sul serio.
So di una segretaria comunale di uno dei paesi inagibili che non ha una linea telefonica né internet e deve sbrigare le pratiche dell’emergenza sul suo telefonino, perché non è che stavolta si siano affrettati donatori e mecenati che offrono linee e connessioni e neanche sacchi di palloni da calcio. Un bel niente, si vede.
Certo, due terremoti in due mesi sono un colpo terribile. Ma non basta dire “spicciatevi a evacuarli sulla costa”. Le persone non vogliono andare negli alberghi. Vogliono rimanere vicini. Non solo alle loro case. Vicini, fra loro. Per superare la paura. Per sperare che esista un futuro.
I miei amati compaesani di Serravalle dormono nella palestra, la notte. Per le case, e per essere vicini, appunto. Per raccontare, per far passare il buio, per dirsi, alla nuova scossa, ce la faremo, non è niente.
Non dimenticateli, per favore. Non lasciateli soli. Ascoltateli. Oggi, dopo aver visto la mia casa (sta benino, grazie, un po’ di calcinacci e qualche soprammobile che ha ballato la rumba, e qualche filatura all’esterno, ma è a posto), sono andata a Montelago, a mangiare cicoria e focaccia. Parlavo con Marco, il proprietario, che mi raccontava delle due grandi scosse (come tutti, com’è giusto). Mi ha sorpassato una signora volitiva tranciando il discorso “basta parlare di terremoto”. Poi ha specificato che la cicoria doveva essere ben calda, mi raccomando. Invece bisogna parlarne. E ascoltare, soprattutto. Parlarne fino allo sfinimento. Finché non si riparte, finché diventerà possibile lasciarlo alle spalle. Altro che.”
Qualcosa di tutto questo è  nel romanzo. Non basta, ovviamente. I racconti non salvano i paesi, ma solo la loro memoria. Se dopo quattro anni dobbiamo rivolgerci solo alla memoria, è un segnale terribile. La peste, appunto.

2 pensieri su “I ROMANZI E LE FERITE: IL TERREMOTO, ANCORA

  1. Solo ringraziarti.Grazie per questi acquarelli di donne sempre complesse e contraddittorie ( anche xché difficile ringraziare per i personaggi maschili non pervenuti!).Grazie perché anche se è cosa nota che la rappresentazione della realtà ” modello western ” con i buoni da una parte e i cattivi dall’altra non è di questo mondo i richiamini non sono mai abbastanza. Eppure dovremmo saperlo che un po’ di Saretta,un po’ di Carmen,un po’ di Maria fanno parte di ognuna di noi. Ma tant’e. Grazie soprattutto x le liste.Di azioni,oggetti,sentimenti La concretezza sempre così utile a visualizzare , normalizzare e condurre vicino a noi vite apparentemente così lontane. Che io mica vivo o conosco Vallescura e tanto meno temo l’arrivo della peste. Vabbè questa magari poi la tolgo.Solo ringraziarti x questa lettura.Grazie,Carla S.

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