“Liberatos Pizza donerà 99 pizze a Occupy Wall Street: 33 martedì, 33 mercoledì, 24 giovedì”. “Grazie, Liberatos Pizza: ti vogliamo bene”.
Se avete tempo, e un account su Twitter, prendetevi la briga di leggere cosa sia e come agisca, anche nei dettagli (e nella partecipazione altrui), Occupy Wall Street, finalmente presente anche sulle pagine dei nostri quotidiani dopo l’ubriacatura su Steve Jobs.
Se avete tempo, leggete anche “Il disagio della democrazia” di Carlo Galli: saggio breve e denso su quale sia il pericolo maggiore per una democrazia. In una sola parola, l’apatia: quella che spinge a brevi rigurgiti di rabbia senza indirizzo, senza obiettivi, noi contro voi, e che subito si acquieta.
Sempre se avete tempo, vi riporto le parole di Nadia Urbinati su Occupy Wall Street (e, per inciso, immagino abbiate indovinato da dove viene la frase del titolo, vero?)
“Che cosa vogliono le migliaia di cittadini che da quasi un mese manifestano davanti a Wall Street sollevando un´ondata di protesta che interessa ormai le maggiori città americane?Come leggere questo movimento variegato che non ha leadership, non ha scopi definiti, non si lascia facilmente rubricare da un´etichetta di partito? Ha certo ottenuto l´adesione di alcuni importanti sindacati; ma non è per nulla inquadrabile in un´organizzazione gerarchica e poco inclusiva come il sindacato. Ha certo ottenuto l´adesione di alcuni esponenti democratici di prestigio (e la buona menzione del presidente Obama); ma è critico nei confronti di un partito che non ha dimostrato coraggio di fronte ai repubblicani e attenzione all´impoverimento della società americana. Ma, nonostante questi distinguo rispetto alla politica organizzata, i cittadini che manifestano non sono “mob”, non sono una massa arrabbiata di americani invidiosi dei loro pochi ricchi concittadini, come gridano i repubblicani di “FoxNews”. E non sono neppure una pericolosa espressione di populismo anarchico, teste calde che vogliono, ancora secondo le accuse repubblicane, dividere l´America con la lotta di classe.
In effetti la stessa espressione “populismo” è poco adatta a rappresentare questo nuovo movimento di protesta, che per la radicalità ma anche ragionevolezza degli slogan e dei messaggi assomiglia al movimento per i diritti civili degli anni ´60, quello che ha manifestato contro la guerra in Vietnam, contro la discriminazione razziale e di genere. In quelle lotte vi era il futuro. L´America di oggi è figlia di quel movimento giovanile. Sarà anche questa volta così? Per molti intellettuali e per alcuni commentatori televisivi potrebbe essere così. E quindi, l´espressione populismo (di per sé una categoria fumosa e difficile da tradurre in un concetto chiaro) è ancora meno adatta.
Populista è certamente il movimento del Tea Party, una congerie di molte delle categorie tradizionalmente associabili a questo tipo di movimento, per esempio: anti-intellettualismo o attacco ai “sapientoni” (per dirla con il Senatore Bossi) perché criticano e non si identificano con le opinioni popolari, istintive e radicali; e anti-governo o attacco alle politiche sociali che creano grossa burocrazia e mettono in moto più Stato e quindi un surplus di controllo della sfera economica. Il Tea Party si sente a suo agio con l´agenda repubblicana che da diversi decenni ha dato la sua totale adesione alla dottrina liberista, la quale addossa le responsabilità del declino economico dell´America a chi propone una più giusta distribuzione della ricchezza non a chi l´avversa, nella convinzione che se la natura degli interessi e dell´accumulazione seguisse il suo corso, a beneficiarne sarebbero tutti in proporzione. La retorica cristiana dei talenti e della responsabilità di usarli al meglio dà pathos a questa ideologia anarco-liberista, che si sente autorizzata dal Vangelo a svolgere la sua propaganda contro lo Stato, luogo satanico del potere e contro coloro che pensano di usarlo per una buona causa di giustizia. Dunque, anti-razionalismo, anti-intellettualismo, anti-governo: ecco gli ingredienti del populismo dei Tea Party. Il quale non è soltanto un movimento di protesta, ma è un movimento con un´agenda politica ben precisa, come il Congresso americano uscito dalle ultime elezioni sta dimostrando. Certo, il Tea Party non è unito sotto la guida di un leader carismatico e in questo non è simile ai populismi europei. È federalista come il Paese nel quale è nato, diramato attraverso le chiese evangeliche, riunito sotto i vari predicatori che mettono insieme l´omelia ogni domenica.
Occupy Wall Street non ha nulla di tutto questo. Ed è questa la ragione dell´incredibile attacco dei leader del Tea Party, i quali hanno annusato molto correttamente che questi manifestanti non hanno nulla da spartire con loro. Occupy Wall Street è un movimento spontaneo, e quindi democratico nel senso più elementare del termine, perché ispirato a ideali di auto-governo e di eguaglianza di cittadinanza. Lo slogan “Noi siamo il 99%” non intende fare guerra all´1%, cioè ai miliardari. Non è l´invidia che li guida come ha sostenuto un candidato repubblicano. Lo slogan chiede più semplicemente che chi ha più deve più contribuire anche perché quel di più lo ha in ragione di politiche adottate dai governi americani dalla fine degli anni ´70. Politiche alle quali tutti hanno obbedito e che però hanno favorito non tutti allo stesso modo. E non a causa dei talenti che il Signore distribuisce diversamente, ma di una mirata e sistematica politica della diseguaglianza.
L´equità fiscale non è proprio un obiettivo rivoluzionario. Se così appare è perché le diseguaglianze economiche e sociali sono ormai così radicali da aver dato vita a due popoli, un po´ come nell´antica Atene: anche oggi, gli oligarchi, benché dentro il sistema democratico, scalpitano per avere privilegi e non sottostare alla regola dell´eguaglianza. Occupy Wall Street mette in luce questa antica e sempre nuova lotta tra oligarchia e democrazia. Soprattutto, mostra come la seconda non sia semplicemente una forma di governo, ma anche un ideale, una visione di società che quando le diseguaglianze si radicalizzano, come ora, non riesce più ad avere il consenso di tutti. L´1% simbolico – i super miliardari – sta a significare che alcuni sono fuori dal patto democratico dell´eguaglianza. È questa la radicalità di Occupy Wall Street.
A chi è indirizzata questa radicalità? Qual è la relazione di questo movimento democratico con la democrazia delle istituzioni? Queste domande mettono in luce la crisi profonda di rappresentatività delle istituzioni democratiche. Occupy Wall Street non ha specifici obiettivi se non uno: entrare in comunicazione con coloro che operano nelle istituzioni, i quali hanno da anni spento l´auricolare e sono, come si dice in Italia, auto-referenziali. Dall´interno dei parlamenti non si vuole ascoltare. La scollatura tra dentro e fuori delle istituzioni democratiche è preoccupante e, purtroppo, non è destinata a risanarsi velocemente. Questo movimento chiede dunque una ricostituzione della rappresentanza politica. Sfida gli eletti nel nome dell´autorità dell´ascolto. E ha senso occupare le piazze fisiche, visto che quelle mediatiche sono interessate a mettere una cortina di silenzio sulle opinioni dei cittadini. Se c´è un contributo che Occupy Wall Street può dare è quello di creare un clima politico finalmente di attenzione; di costringere chi si occupa delle politiche nazionali a non girare le spalle a coloro che di quelle politiche devono subire le conseguenze. Si tratta di un richiamo ai principi democratici, dunque: a quella promessa di libertà e giustizia per tutti che è scritta nelle nostre costituzioni”.
Ps. Oggi comincia a Deauville il Women’s Forum Global Meeting: potete seguirlo qui.
io vorrei provare a soffermarmi sulla frase: “E ha senso occupare le piazze fisiche, visto che quelle mediatiche sono interessate a mettere una cortina di silenzio sulle opinioni dei cittadini”.
non solo è verissimo, ma lo amplierei anche al “fenomeno facebook e rivoluzioni”.
in questa epoca di democrazia telematica e di “twitting” delle opinioni, mi piace che la politica si affronti di persona, mettendosi in gioco, guardandosi in faccia, parlando, comunicando verbalmente e fisicamente con chi condivide o meno le nostre idee. anche le rivoluzioni islamiche “guidate da facebook” alla fine era in piazza che si risolvevano.
la piazza, l’assemblea, le sedi della politica “fisica” mi sembrano ancora resistere.
ci si può nascondere a lungo dietro a un nick, ma alla fine si deve pur uscir di casa.
Interessante. Sembra che Nadia Urbinati proceda per gusti personali, con una critica mutante. Incollo qui alcuni passi di un suo editoriale del 3 ottobre, cercando di non stravolgere nulla campionando alcune frasi sparse:
“Ecco allora che al popolo dei populismi di destra si viene ad affiancare un nuovo popolo, quello dei movimenti sociali dal basso. Questo populismo orizzontale, contrariamente a quello che nel Bel Paese si appella al videocratico Silvio Berlusconi o all’ etnocentrico Umberto Bossi, è fatto di un popolo non allineato, che non vuole bandiere di partito e si ribella contro una classe politica che in suo nome fa quel che vuole e lo tradisce; Questo fenomeno, molto preoccupante per sè, lo è ancora di più se lo si proietta nello scenario del dopo-Berlusconi. Si assiste cioè al vacillare delle forme indirette di democrazia anche se la contestazione avviene da due punti di vista diversi e, anzi, opposti, come sono appunto il populismo mediatico e il populismo auto-interpellante della rete.”
E qui invece:
“Come leggere questo movimento variegato che non ha leadership, non ha scopi definiti, non si lascia facilmente rubricare da un´etichetta di partito? Ha certo ottenuto l´adesione di alcuni importanti sindacati; ma non è per nulla inquadrabile in un´organizzazione gerarchica e poco inclusiva come il sindacato. In effetti la stessa espressione “populismo” è poco adatta a rappresentare questo nuovo movimento di protesta.”
Eppure entrambi operano in un territorio simile: populismo di destra (Berlusconi-Bossi in Italia, Tea Party in USA), il degrado della politica intesa come istituzioni, come partiti. Il 3 ottobre: “La difesa a tutti i costi di sé come eletti (anche di quelli che sono in odor di mafia, come la vicenda del salvataggio del ministro Romano ha mostrato a tutto il mondo), del proprio status personale e famigliare, pare essere la funzione dei partiti. Lo svuotamento di legittimità dei partiti è radicale. Le conseguenze sono da temere grandemente.”
E oggi, sugli americani: “Se così appare è perché le diseguaglianze economiche e sociali sono ormai così radicali da aver dato vita a due popoli, un po´ come nell´antica Atene: anche oggi, gli oligarchi, benché dentro il sistema democratico, scalpitano per avere privilegi e non sottostare alla regola dell´eguaglianza.”
Dunque “i movimenti populisti” di cui parlava il 3 ottobre sono pericolosi perché bypassano la rappresentanza democratica, mentre il movimento americano, pur non essendo inquadrabile in nessuna organizzazione gerarchica, spontaneo, e quindi “out” rispetto alla rappresentanza, non è populista. Il movimento americano, figlio degli anni 60, le è simpatico, mentre i movimenti del NO TAV, dei precari, del “non paghiamo il debito” sarebbero populisti e pericolosi, e le sono antipatici.
A me pare che l’avversione verso i “movimenti populisti” derivi dal fatto che questi sono portatori di un messaggio-progetto radicale, che contesta l’essenza stessa dell’attuale sistema, fondato sulla grande speculazione finanziaria, il salvataggio-selvaggio delle banche e lo scaricamento dei costi della crisi sulle spalle dei ceti medi, dei lavoratori, dei precari, dei pensionati, la distruzione del servizio pubblico, mentre gli americani “chiedono” soprattutto di essere ascoltati, cioè chiedono dei modi meno brutali, meno bruschi, ma resterebbero – secondo la Urbinati – solidamente all’interno del sistema. E per questo non sono populisti, e quindi non sono pericolosi. Beh, forse ha ragione. Come si diceva un tempo, concordo con lei, ma per opposti motivi.
E credo che la soluzione migliore sia andare a Roma il 15 ottobre, essere numerosi e non violenti, transnazionali e conflittuali. E non limitarci a chiedere al Potere di essere meno prepotente e meno sordo alle nostre richieste, di essere più magnanimo, ma combatterlo nella sua essenza predatoria e classista.
Dunque qual è il populismo?
Capisco (e condivido, esaminando i testi) la critica di Baldrus.
Resta il fatto che la contestazione al “sistema” da parte di “moltitudini” resta ambigua, nel senso che potrebbe chiedere di sostituire alla tirannia dell’economico la tirannia del burocratico (lo stato non paga i debiti, lo stato stampa soldi, o comunque sospende l’autoregolazione dei mercati) come si è verificato nelle economie di piano e nel socialismo reale, risultati prima economicamente che umanamente deleteri e fallimentari.
Personalmente continuo a ritenere scandaloso che mi si presenti come unica alternativa quella di salvare l’economia affamando i poveri o nutrire i poveri affossando l’economia, ma questo è precisamente il risultato che ottengono le piazze urlanti quando non c’è un soggetto politico vero che ne declini le rivendicazioni in senso strategico: l’orrore dell’apocalisse, l’arrocco del ceto medio, il fascismo o la resa totale ai diktat della finanza internazionale.
Leggevo sul Corriere di ieri che in Tunisia si affacciano brutte tentazioni fondamentaliste: nessuno di quelli che aveva inneggiato quest’estate alle “moltitudini” risvegliate dal Web e al vento di una democrazia reclamata dal basso ha un brividino nella schiena?
Il “populismo” è un termine inventato dal potere politico per delegittimare la vera democrazia che è sempre e sola quella che viene dal popolo.
Il termine nasce in realtà dalla paura della vera democrazia, che c’è soltanto con la partecipazione.
Internet oggi teoricamente darebbe la possibilità di un vero “governo del popolo” o quantomeno di allargare indefinitivamente la base decisionale (anche su singole decisioni!).
Chi si ritiene veramente democratico perché fa finta che tutto sia come prima? Perché non si adopera a diffondere il più possibile questa rivoluzione metodologica di governo popolare?
E’ vero che esiste anche una forma di democrazia indiretta e che la democrazia diretta può esserci soltanto nelle piccole comunità e che si può preferire l’una all’altra.
Eppure anche questo argomento non regge e chi si ritiene democratico (io non mi ritengo tale, nel mio blog ho cercato di chiarire il perché) dovrebbe fare tutto il possibile per allargare la base popolare decisionale.
Quale migliore occasione di internet per ottenere ciò?
Il punto invece non è nemmeno in questione tra i politici attuali (e non solo in Italia), attenti, come sono, soltanto a conservare il proprio status e a lasciare furbescamente il popolo nell’indolenza e nell’ignoranza.
Ho il fondato timore che anche questa opinione, per molti, sarà tacciata di “populismo”: del resto l’ipocrisia non ha limiti.
Savarino, una gentilezza, piccola: prova a leggere il testo di Galli, o, se hai voglia, di riascoltare il suo intervento in podcast. Il concetto di democrazia è un po’ più complesso di così. Grazie.
Nadia Urbinati ha sciorinato con chiarezza quello che avevo percepito con immediatezza confusa dalle immagini e dai suoni delle manifestazioni statunitensi. Per quanto riguarda i fondamentalismi che si agitano nelle acque della riconquistata libertà di parola di tanti paesi arabi, perché meravigliarsi? quando salta il tappo di un regime oppressivo, che aveva negato la libertà di parola a tutti, è il momento della libertà di espressione per tutti, anche per i fondamentalisti. Ma siccome sappiamo che oggidì nelle società dei paesi arabi e islamici non ci sono più soltanto loro, e magari non sono nemmeno la maggioranza dei capaci di prendere la parola, perché esagerare la loro importanza facendone la sigla preponderante?
Non conosco il saggio di Carlo Galli, Il disagio della democrazia, anche se su internet si trova un piccolo estratto del primo capitolo.
In attesa di leggerlo per intero, mi permetto di chiarire meglio la mia idea.
Il mio non è affatto un disagio né soggettivo né oggettivo ma una critica “logica e valoriale” ovvero strutturale dei sistemi democratici.
Non un disagio “della” democrazia ma “contro” la democrazia, per usare gli stessi termini di Galli.
Non ha senso distinguere una democrazia reale da una ideale.
Ammesso che un senso ce l’abbia: che cosa dovremmo dire allora del comunismo che “idealmente” sembrava quasi uno sviluppo della cristianità, mentre nella sua applicazione pratica è stato soltanto una dittatura, tenacemente opposto a quei valori che esso stesso predicava?
Dovremmo parlare coerentemente di “disagio” dei comunisti?
Troppo comodo.
Il punto centrale della questione è la libertà: unico valore assoluto, di sostanza, non negoziabile con parole vuote.
Ll’analisi di Galli indirettamente sembra fare da megafono alla mia inziale domanda:
perché non si utilizza internet per ridurre questo disagio, soggettivo o oggettivo che sia?
La verità è che si ha paura a farlo, perché ridurrebbe notevolmente il potere di controllo delle masse.
Se volta per volta si potesse decidere sulle questioni pubbliche, locali o nazionali, per esempio attraverso sondaggio, il popolo avrebbe più potere ma i giochi dei politici sarebbero completamente stravolti e non si potrebbe più scambiare il voto per legittimazione sine die alla propria rappresentanza.
I costi sarebbero pressoché zero, proprio come la volontà di farlo.
Ritengo che l’alternativa alla democrazia ci sia e sia anche auspicabile.
In questa sede non mi sembra opportuno approfondire il concetto, ma voglio sottolineare e sperare che nel futuro ci si occupi più attentamente della necessità di un sistema alternativo perché la “democrazia” è soltanto fumo negli occhi (non si è trasformata ma…è, non so se ho reso l’idea).
Per il resto consiglio anch’io un libro:
“Sudditi-Manifesto contro la democrazia” di Massimo Fini
Ce ne sarebbero in verità tanti altri, quasi tutti classificati come “classici del libero pensiero”…