Raffaella De Santis e Dario Pappalardo firmano questa inchiesta per Repubblica. Mi pare che possa fornire un contributo interessante anche a quanto si diceva ieri.
In Italia si pubblicano ogni giorno 160 libri, circa 60 mila all´anno, di questi 10 mila sono testi letterari alla prima edizione. Ognuno in media vende quattromila copie. Su decine di migliaia di autori, molto meno dell´un per cento vive della propria scrittura. Tra quelli che ci riescono, Andrea Camilleri, Gianrico Carofiglio e Andrea De Carlo, e non a caso in questi giorni figurano in cima alla classifica dei più venduti. Che con la letteratura non si mangi non è però una novità: Svevo, nonostante la stima di Joyce, era impiegato nell´azienda di vernici del suocero; l´ingegner Gadda lavorava in Rai; Bianciardi sbarcava il lunario con le sue traduzioni. E le cose da allora non sono cambiate.
Sono tre in sostanza le fasce in cui si possono dividere gli scrittori nel nostro Paese. La prima, quella degli “esordienti”, può aspirare, quando va bene, a un primo contratto con una grande casa editrice che si aggira tra i 5 mila e i 7 mila euro, con delle percentuali sui diritti che vanno dal 5% dei tascabili all´8%. Uno scrittore “medio”, invece, può contare su un anticipo che sfiora i 50 mila euro. Infine, c´è la ristretta “casta” formata da quelli che vendono oltre le 100 mila copie all´anno. Ed è chiaro che, in questo caso, la retribuzione aumenta: il prezzo corrisposto ancor prima della pubblicazione oscilla tra i 100 mila e i 400 mila euro. Ma qui vanno calcolati anche i guadagni ricavati dagli acquisti dei libri all´estero, di cui il 50% va all´editore e l´altro 50% allo scrittore. In Italia gli autori che possono permettersi di vivere di soli romanzi sono una decina al massimo. Quelli il cui solo nome li scaraventa direttamente nella top ten: come Niccolò Ammaniti e Sandro Veronesi.
Soltanto chi vende tra le 50 mila e le 100 mila copie – una percentuale minima – riesce a garantirsi un discreto tenore di vita. In Francia e nei paesi scandinavi, a soccorrere gli uomini di lettere ci sono sovvenzioni statali e borse di studio. Qui abbandonare il proprio mestiere rimane invece un lusso per pochi. E, per arrivare alla fine del mese, ognuno s´industria come può, tra lavori part time, scuole di scrittura e collaborazioni con giornali e case editrici. Altri rivendicano il diritto alla scrittura attraverso la Rete, dove sono nati collettivi come “Scrittori precari” e “Scrittori sommersi“.
Domenico Starnone, che è stato a lungo insegnante, oggi fa lo scrittore, ma non solo. È anche giornalista e autore di sceneggiature. Il motivo? Lo spiega lui stesso: «Di sola scrittura non si riesce a vivere». Anche quando si hanno all´attivo libri come Via Gemito (Feltrinelli), che nel 2001 ha vinto il premio Strega, o Ex Cattedra (Feltrinelli), ripubblicato in una nuova edizione ampliata. «Facendo una media tra i miei libri più venduti e quelli di minor impatto sul mercato, la cifra dell´anticipo per me si aggira tra i 50 e i 100 mila euro».
Nella rosa dei golden writer c´è Erri De Luca, che con il Peso della farfalla si è confermato uno degli italiani più venduti. «Ma per gli esordienti è diverso: non possono contare sulla scrittura per vivere», dice lo scrittore, che prima di scalare le classifiche ha fatto anche l´operaio: «Per arrivare a scrivere è meglio sporcarsi le mani. Solo così la scrittura può rimanere uno spazio libero, un tempo salvato al lavoro». De Luca però non dimentica i primi passi e il primo libro: «Per Non ora, non qui, uscito nel 1989, Feltrinelli mi pagò 1 milione e 800 mila lire, che equivalevano a due mesi e mezzo di lavoro in cantiere». Ma non sono certo cifre che bastano a dare sicurezza. In ogni caso, De Luca non è d´accordo sull´opportunità dei sussidi statali agli scrittori, come invece avviene in Francia: «L´assistenza economica trasforma lo scrittore in un burocrate. La scrittura è un atto di libertà, non un impiego che ha un fatturato».
Tra chi l´indipendenza l´ha conquistata con relativa facilità, c´è la vincitrice dell´ultimo Campiello (Accabadora, Einaudi). Michela Murgia, il successo di mercato lo raggiunge già con la prima prova narrativa Il mondo deve sapere. Il libro ambientato in un call center, che ha ispirato la sceneggiatura del film di Paolo Virzì Tutta la vita davanti, esce nel 2006 per le edizioni Isbn ed è un caso editoriale. «Chiaro che per farcela devi vendere a sufficienza», spiega la Murgia. «Io sono stata fortunata. Ho avuto successo già con il primo libro e questo mi ha permesso di mollare gli altri lavori. Uno scrittore che venda intorno alle 50 mila copie guadagna come un avvocato di provincia. Io ho già venduto 210 mila copie, dunque guadagno più di un avvocato di provincia». Prima di diventare scrittrice per mestiere la Murgia è stata operatrice fiscale, venditrice di multiproprietà e anche portiere di notte. «Quando ho esordito ho avuto un anticipo abbastanza consistente» – racconta – «ma adesso so che le cose sono cambiate. Gli esordienti sono pagati dalle piccole case editrici cifre irrisorie intorno ai 200-300 euro».
Ottocento euro al mese per il suo impiego part time al 50 per cento come agronomo al ministero delle Politiche agricole. Anticipi di 3500 – 5000 euro sui singoli libri, a seconda delle case editrici. Più collaborazioni con tre quotidiani, insegnamento ai corsi di scrittura, stesura di testi per il teatro. «In tutto 40 mila euro all´anno, se va bene. Ho comprato casa a Roma con un mutuo trentennale»: così Antonio Pascale (La città distratta, Einaudi; Questo è il paese che non amo, minimum fax) mette insieme il suo reddito annuale. «La maggioranza degli scrittori italiani non vive solo di scrittura. Il conto è presto fatto: 15 mila copie vendute, obiettivo che raggiungono in pochi, corrispondono a 15 mila euro di ricavi. Però non c´è solo il fattore vendite, ma anche un problema culturale: spesso gli scrittori non considerano il loro come un lavoro da retribuire. Sono i primi a non chiedere un compenso per le presentazioni. Io senza un gettone di presenza non vado da nessuna parte. Nel nostro paese non si crede più nel valore degli intellettuali come in Francia e Scandinavia».
C´è chi un mestiere non vuole proprio abbandonarlo. È il caso di Cristiano Cavina, che racconta la provincia emiliano-romagnola dove vive in romanzi come Nel paese di Tolintesàc (Marcos y Marcos), 30 mila copie vendute. «Se mi chiedono che lavoro faccio, dico il pizzaiolo», spiega. «Eppure con un libro ogni due anni riuscirei a vivere, soprattutto se accettassi anche altri lavori che rifiuto: articoli e sceneggiature. Per ogni titolo prendo un anticipo di 40 mila euro, poi ci sono gli incontri: ogni partecipazione mi viene pagata 300 euro, ma nelle scuole e nelle librerie degli amici vado gratis. Però non abbandonerei mai il mio posto al forno della pizzeria. Diventerei un pallone gonfiato. Per me è importante ricordarmi da dove vengo. Vivo ancora in affitto nell´appartamento delle case popolari dove sono nato. Gli aiuti agli scrittori? Non mi piacerebbe che lo Stato ci aiutasse. Lavorare davvero è più utile».
Una scelta completamente opposta è quella di Andrej Longo, autore di Dieci e Chi ha ucciso Sarah? (Adelphi), che non ha vissuto sempre di scrittura: è stato bagnino, cameriere, pizzaiolo. «Da due anni posso permettermi di non lavorare, tranne scrivere, ma quello è un divertimento non un lavoro. Sarei contrario comunque a finanziamenti statali agli autori. In Italia è difficile immaginare una commissione esente da interessi e lobby varie che si occupi di questo».
Antonio Pennacchi, vincitore con Canale Mussolini dell´ultima edizione del premio Strega, non dimentica comunque il proprio passato da operaio. «Sono uscito nel ´99 dalla fabbrica, 50 anni di fabbrica. Fabbrica di cavi elettrici e telefonici di Latina. I primi libri li leggevo la notte ai miei compagni di lavoro». E chiude la questione a modo suo. «Comunque non è una vergogna avere successo e fare i soldi. L´importante è raccontare alla gente storie vere».
Per tigna.
Ma se la media delle vendite è di 4-5 mila copie per libro pubblicato, come si fa ad affermare che l’autore medio prende 50 mila di anticipo?
Mi pare, sempre per tigna, che le vendite si riferiscano agli esordienti e non ai medi.
Se non erro 4-5 mila copia è la media di copie vendute in generale, non solo per quanto riguarda gli esordienti.
Comunque l’articolo è molto utile anche perché temo ci sia una visione sbagliata dei guadagni legati alla scrittura.
5 mila copie per un esordiente è tanto. Ci arrivano in pochi.
Peraltro, 50 mila di anticipo, anche, è parecchio. Gli anticipi, a quel che mi risulta, partono da 2000 (o anche meno) per arrivare, al massimo, a 15-20 mila euro. Da questo discorso escludo gli autori di best-seller, che non fanno testo.
Ha ragione Davide, conosco autori “famosi” che 5000 copie non le vendono. Tranne i best seller la tiratura emdia è di 800/1000 copie (tiratura, non vendita, anche di autori già pubblicati). Le cifre degli anticipi, in quest’inchiesta sono un po’ al rialzo. E gli esempi fatti troppo glam. In fondo Pascale, che è un autore più che consolidato, è già un’eccezione, figuriamoci gli altri.
Poi su questa mitologia del libero mercato tout cour nella scrittura dovremmo tornarci. C’è tutta un’arte, teatro, poesia, musica sperimentale, etc. che se non ricevesse sovvenzionamenti non potrebbe esistere. Ed infatti, in Italia, non esiste. Fare ricerca però non ha a che vedere con le vendite ma con lo spalancamento di nuovi scenari.
Gianni, il problema che sollevi in merito alla questione dei finanziamenti è reale. Ci sono settori importanti del teatro non solo sperimentale (penso alle tragedie greche nei siti classici: Siracusa, Taormina, Tindari…) che non potrebbero vivere senza finanziamenti pubblici; così come non potrebbe riuscirci la musica colta. Non a caso l’annuncio dei tagli al FUS fu salutato come una campana a morto per molte realtà impegnate nel teatro in Italia.
Invece, la sperimentazione riesce a vivere anche con pochi soldi, se c’è un clima culturale favorevole. Quanto intervistai per “Stilos” Alessandro Portelli, mi raccontò l’esperienza del Teatro Centocelle di Roma, che fu un’esperienza partita e vissuta “dal basso”, da una realtà di quartiere, in cui si faceva un lavoro di sperimentazione. C’è però da dire che per fare certe cose è fondamentale il clima culturale: se non c’è un humus fertile, certe iniziative non partono proprio.
C’è una casta privilegiata che vive più che egregiamente di scrittura: quella dei parolieri di canzoni. Se si ha la fortuna di azzeccare un hit con testo anche idiota o scontatissimo (sole/amore/mare/gabbiani/morirei senza te/ e via discorrendo) si arriva a guadagnare cifre ASTRONOMICHE e per tanti anni. Confesso di aver provato – da giovane – a entrare in quel giro, ma non ci sono riuscito. Pare che farsi prendere in considerazione come parolieri dalle case discografiche sia un po’ come vincere un concorso per notai o commercialisti:-)
Si parlava di narrativa. Se si allarga il campo, scrivendo manuali tecnici si può campare piuttosto bene, arrivando a 60-70.000 euro lordi l’anno. Anche con i giochi in scatola si può guadagnare ottimamente, ed è un campo in cui gli italiani vanno forte. Solo per citare un caso recente, “Wings of war” (di Andrea Angiolino e Pier Giorgio Paglia) è diventato un best-seller internazionale.
Quoto appieno Gianni. Il problema, perché di problema si tratta, è che in Italia lo scrittore può e deve contare solo sul mercato, fatto abbastanza unico nei paesi occidentali (immaginatevi in Italia un poeta laureato). Io, per parte mia, rientro da anni nel novero di quanti campano di libri. Anche se più che un vanto ne faccio una lamentazione, perché farei anche a meno di passare le canoniche dodici ore al giorno davanti al pc, se appunto, non dovessi confrontarmi solo e unicamente con il mercato.
Ecco, allora attacco con la mia solita insopportabile lagna, stile “delenda Carthago”.
Nella mia vita di scrittrice di genere, pubblicata e premiata in concorsi, ho visto in tutto rimborsi, premi e anticipi che non si avvicinano alle spese vive (non dico il tempo, che lasciamo stare, dico la corrente per il pc, il toner e la carta della stampante, il collegamento internet, qualche spostamento per presentazioni o congressini di settore…). Le cifre che sono citate qui, anche le piu’ basse, per me rimangono un sogno inarrivabile.
Me ne sono fatta una ragione, evidentemente non sono abbastanza brava e/o fortunata, e poi, dato che scrivo e che scriverei comunque, non posso farne a meno, cerco poco alla volta di avvicinarmi all’atarassia accontentandomi della scrittura in se’ e della terapia che rappresenta, rispetto al male di vivere.
Pero’ figurarsi quando arrivano i critici d’accatto, i ragazzini saputelli, i troll dei forum, i malati di protagonismo demolitorio, che voglia ho di sopportarli, in cambio di niente, al piu’, come dice il poeta, di una “gloria da str…”.
Visto che danno per scontato che chi e’ pubblicato sia comunque un privilegiato. Visto che come tale, e come immeritevole a prescindere (nota l’incompetenza e l’irresponsabilita’ del settore, teso solo al vacuo marketing e che lascia a languire geni incompresi), deve essere sbeffeggiato, criticato fino alle viscere anche solo per un incipit o una quarta di copertina, e ridotto in macerie, anzi, in coriandoli.
Ecco, di fronte a tutto questo, viene fuori la domanda che una vita di sforzi, delusioni, frustrazioni non e’ riuscita a tirarmi fuori: ma chi me lo fa fare?
L’articolo mi meraviglia un poco. Non credo che siano solo una decina, in Italia, coloro che vivono di sola scrittura. Io sono tra quelli, sebbene il mio nome appaia raramente in vetta alle classifiche, e ne conosco altri (non li nomino per rispetto alla loro riservatezza). Una quarantina circa.
Per venire alle cifre, prendo per ogni romanzo circa 30 mila euro di anticipo, divisi in due rate. Vendo 10-12 mila copie dell’edizione rilegata, cui seguono le edizioni tascabili. Qui sta il segreto del reddito garantito, almeno per chi, come me, ha un pubblico in prevalenza giovanile. I tascabili rendono in apparenza meno, però alcuni miei romanzi sono stati ristampati una trentina di volte (in qualche caso di più). Alla fine, i diritti riscossi si avvicinano all’importo dell’anticipo. E’ così ogni anno, a partire dal 1997. I miei inizi come narratore, su Urania, risalgono al 1994.
Senza essere un autore di bestsellers, sono però un autore di longsellers. A me va bene così. Conduco una vita soddisfacente, non mi manca nulla. Mi definirei benestante. Certo, bisogna scrivere molto e sempre. Sono altrettanto importanti, naturalmente, la forza dell’editore, le capacità dell’agente letterario, il tipo di narrativa cui ci si dedica, ecc.
Mi stupiscono le lamentazioni di alcuni miei colleghi, molto più famosi di me e tradotti in tutto il mondo. Forse hanno bisogni superiori a quelli che ho io. O, più semplicemente, dicono bugie.
A me non preoccupano tanto i guadagni degli scrittori (che, comunque, meritano di più), quanto l’affermazione: “in Italia si pubblicano ogni giorno 160 libri”, che sono invece davvero troppi per un paese che non legge
Stavo per rispondere con una mia opinione quando ho letto l’intervento di Valerio Evangelisti che, grazie alla sua esperienza, parla in prima persona. Sapevo, infatti, più o meno quello che dice lui. Mi pare, in sostanza, che se ci si limita a considerare lo scrittore di libri propri e basta, allora la situazione è di un certo tipo. Ma se a ciò si aggiungono le possibilità che un autore ha di scrivere interventi, articoli, recensioni e anche tenere corsi di scrittura, la lista dei “sopravviventi” con la scrittura si allunga di parecchio. Detto questo, è ovvio che tra vivere bene e acquistare una villa con ogni libro pubblicato la differenza è rimarchevole.
30 mila euro di anticipo mi sembrano davvero tanti, io che sono impiegata in una categoria che è ancora considerata super privilegiata (bancaria) ho un cud che non arriva ai 28000 euro lordi. Forse a chi inizia ad affacciarsi al mondo editoriale adesso, pur riscuotendo un discreto successo, non è riservato lo stesso trattamento econimico di chi ha iniziato a scrivere 15 anni fa.
Dal rapporto sull’editoria dell’Aie: «Nel 2008, ultimo anno per cui si hanno dati sulla produzione, sono stati pubblicati 58.829 titoli compresi quelli destinati all’adozione scolastica. Per il secondo anno consecutivo si registra un calo della produzione di titoli, mentre la tiratura media è di 3600 copie, con una diminuzione di 200 copie rispetto all’anno precedente». Sempre secondo l’Aie il fatturato complessivo di libraria (tutta compresa, anche online) e scolastica (eliminando quindi rateale, corrispondenza, elettronica, metà prezzo, vendita biblioteche, collezionabile in edicola, etc) fa 2.163.000 euro. Difficile quindi ragionare su vendite medie di 4-5000 copie, in realtà è più corretto stimare almeno la metà. Mediamente – sapendo che parliamo della media del pollo – un libro in Italia può rendere a un autore circa 2-3000 euro. Dopo di che quella media si compone di un certo numero di titoli, non so dire quanti, che vendono migliaia, decine di migliaia e centinaia di migliaia di copie, e un numero enorme, davvero enorme, che non arrivano al migliaio. Più che in altri settori, l’editoria oggi può dare da vivere a un numero davvero ristretto di autori mentre la maggior parte può, quando va bene, arrotondare un reddito già esistente (ho riportato dati ufficiali e fatto le dovute deduzioni. Se ho commesso errori madornali ne prendo volentieri atto)
@Camilla, ma insomma sarò pesante ma è così: 160 titoli al giorno! In un paese che non solo non legge, ma ne ha massimo orrore. Quelli che potrebbero, stanno tra un rigo e un due orette di rete (caspita, Loredana riceve 30 libri a settimana e gli altri? Poi che ne fate? Affittate magazzini? Li bruciate nottetempo?). Non è un problema di meritare un reddito migliore, qui ci sono i presupposti per nuovi cassaintegrati della cultura.
Lavorare ed essere poveri da un quadro della tragicità del presente.
Questa citazione libera da un recente comizio sindacale mi serve per segnare due aspetti.
La ricchezza ed il lavoro.
Credo che se si pubblicano tanti libri, se gli scrittori non ci vivono e questi libri non si leggono è segno che tanti editori dovrebbero fallire… …sparire ogni anno a due o tre alla volta..
Ma questo non succede, gli editori medi e grandi sono gli stessi da decenni più o meno.
Quindi…
Un’idea potrebbe essere limitare le uscite a quelle realmente significative e rivedere le ripartizioni di incasso tra autori ed editori tipo 50 e 50 anche in patria.
Allora i pochi, meritevoli autori, che vengono pubblicati non sarebbero obbligati a fare altri lavori e li farebbero solo per piacere.
Gli scrittori peggiori tra l’altro non sarebbero pubblicati per la gioia di tutti e sopratutto di loro stessi che potrebbero maturare una scrittura migliore.
Se uno scrittore fosse considerato di interesse nazionale e culturale certo che meriterebbe di avere una sovvenzione e un sostegno. Pero’ in questo caso bisognerebbe che l’esablishment leggesse libri per giudicare gli scrittori da “sostenere” e già questo sarebbe un problema. Lasciamolo fare ai francesi…
Ci sono editori creativi e scrittori che non sono che impiegati senza anima.
Io ritengo che storicamente un opera che piace poco a tanti vale come una che piace tanto a pochi. In questa ottica vendere è un pregio a prescindere. Chi diventa ha successo con un libro mediamente bello, arriva comunque, a toccare il cuore di migliaia di persone partendo dalla propria penna. Questa capacità comunicazione non è forse una delle prerogative dell’arte contemporanea?
d.
Mi scuso per la forma approssimativa del post. ero concitato.
d.
@ Giulia
gli anticipi sono, per l’appunto, anticipi: se un editore (non i miei) dà 30.000 € di anticipi, è perché pensa che il libro (non uno dei miei) ne incasserà almeno tanti. E, ovviamente, versa sì l’anticipo, ma comincia a pagare i diritti d’autore dopo averli scalati dalla somma anticipata. Dov’è lo scandalo? Scandaloso è che tu (e tutti coloro che lavorano dietro salario, me compreso) anticipi il tuo lavoro (=la tua forza lavoro) al padrone, e che lui ti corrisponda il salario solo alla fine del mese.
(chiedo scusa per i termini e la sostanza “vintage”)
@Giulia, gli anticipi sono dati, di solito, in base a un’ipotesi dell’editore. In pratica l’editore suppone, spesso tendendo al ribasso, che un determinato libro andrà a vendere tot, e ti corrisponde l’anticipo sulle royalities di quel tot, trattenendo una percentuale di sicurezza, visto mai arrivino i resi. Io vivo di scrittura. Se un editore mi dovesse pagare poco, io non vivrei. L’editore, con i libri che io scrivo, guadagna soldi, e il pagarmi l’anticipo è parte del suo rischio d’impresa, rischio non sempre tale, visto che già in prenotazione si può intuire quanto un libro andrà a vendere, e spesso gli editori fanno un giro presso i distributori ancora prima di chiudere un contratto. Come scrivevo sopra, a me già sembra vergognoso che un paese che si considera civile lasci al solo mercato la sopravvivenza degli scrittori (per quelli che riescono in effetti a sostentarsi con il proprio lavoro), ma che addirittura gli editori debbano appoggiare i rischi sulle spalle degli scrittori, be’, questo mi sembra addirittura insultante per il lavoro di chi scrive.
Scusate, mi sono espressa maluccio. Quando ho detto che 30.000 euro mi sembrano tanti non intendevo dire che sono troppi, ma voleva essere un’espressione di stupore: non sapevo, in tutta onestà, che gli editori deponessero tanta fiducia in alcuni scrittori.
Mi permetto di farmi un’opinione e dire che se si ricevono 30.000 euro di anticipo ci si campa eccome! E pure bene.
Perciò uno scrittore medio che ne riceve 50.000 è più che benestante. Ovvio che si sta parlando di soldi e non di arte, ma se di arte si vuole campare, allora questi sono numeri più che sufficienti. Perciò quando il sig Evangelisti (che rientrano nelle perone che io volgarmente definiscono “quelli che ne sanno”)fa notare che “Mi stupiscono le lamentazioni di alcuni miei colleghi, molto più famosi di me e tradotti in tutto il mondo. Forse hanno bisogni superiori a quelli che ho io. O, più semplicemente, dicono bugie” mi chiedo se questi numeri siano relativi SOLO a scrittori che si portano avanti condizioni economiche da 10-15 anni, e se tali condizioni siano riviste fortemente al ribasso per gli scrittori giovani (non anagraficamente, parlo di esperienza).
Cioè, la mia è proprio una domanda: è così? Gli scrittori che hanno alle spalle 15 anni di publicazioni hanno contratti diversi da scrittori che hanno alle spalle tre libri ben venduti?
Perchè se così NON fosse, allora sì, che qualcuno mente.
Giulia,
28000 lordi l’anno sono una sicurezza che il 99% degli scrittori pubblicati italiani ti invidiano.
30.000 euro di anticipo per un libro NON vuol dire all’anno, ma per un lbro, one shot, che magari l’autore ci ha messo anni a scrivere. E magari il prossimo lo finirà fra chissà quanti anni. Sempre se il precendente è andato bene, altrimenti accetterà un anticipo più basso, sempre se trova il modo di essere pubblicato.
E stiamo parlando di autori “fortunati” non della massa dei pubblicati.
Insomma, ti assicuro, i tuoi 28.000 farebbero gola eccome, non schifarli.
Confermo. Io ho firmato sette contratti editoriali con editori veri e e distribuiti sul territorio nazionale e il massimo dell’anticipo ottenuto è 3000 euro. Invece con un’antologia letteraria per le scuole medie, coi guadagni di cinque anni mi ci sono comprato una casina in montagna.
Perchè continuo a scrivere romanzi allora?
Perchè è divertente.
Qual’è il problema? Anche Joyce faceva il bancario. Chi ha messo in testa a questa pletora di abitanti della Parusia che scrivere romanzi debba meritare un supplemento di paghetta dallo Stato? Ma scherziamo? Lavora e scrivi, poi se scrivendo campi, meglio. Sono lavori senza garanzia, com’è giusto che sia quando si ha a che fare con la creatività. O inferno o paradiso, spesso postumo. Per gli altri rimangono i gironi del purgatorio.
Inoltre aggiungo lo scandalo assoluto dei libri di testo scolastici, vere e proprie truffe. Se qualcuno ha l’intelligenza e il coraggio di spiegarmi quale funzione abbia il rinnovare ogni anno i testi di scuola che non sia Università, testi carissimi per informazioni che più assodate di così si muore, si faccia avanti. Ogni lavoro ha la sua lobby che sporca il mondo. Professori compresi.
“Ho sempre vissuto con un profondo senso di ingiustizia il fatto che certi immensi talenti (il commercio delle cui opere muove montagne di miliardi DOPO la loro morte), siano stati condannati in vita agli stenti più mortificanti. Ed è sorprendente constatare come nemmeno i più penosi sacrifici o difficoltà riescano a distogliere chi si sente, suo malgrado, vocato o, si potrebbe dire, condannato all’espressione, dal mettere su carta o su tela o su marmo o su qualunque altro supporto il frutto del proprio talento. Per Baudelaire tu sei addirittura un santo del martirologio delle lettere. ‘Voi tutti che avete aspirato all’infinito’, dice, ‘pregate per Poe che vede e che sa: intercederà per voi.’…
Da “Lettera a Edgar Allan Poe”. Qui:
http://lucioangelini.splinder.com/post/6007956
Hommequirit, scrivere romanzi è un lavoro. Non riconosciuto come tale, né dallo stato, né dall’Istat, né, spesso, dagli editori, par di capire da quanto si legge in certi articoli che parlano di anticipi. Scrivere romanzi è un lavoro che, come altri lavori, contribuisce al lavoro di chi con i romanzi ci campa (gli editori, i critici letterari, gli uffici stampa, i librai, i distributori librari). Come nel caso di altre forme d’arte, vedi teatro, danza, lirica, il venir finanziati consentirebbe una libertà creativa che, dipendendo meramente dal mercato, non si può avere. L’assenza di garanzia, onestamente, non mi sembra un gran valore aggiunto.
Le cifre che leggo sono pazzesche! Mi darò alla letteratura!
Scherzi a parte, credo che il meccanismo del reddito in ambito letterario non sia così differente da quello di altri settori. Ci sono alcuni (le “star”) che diventano ricchi, altri che vivono bene (Evangelisti ne ha indicati una quarantina tra quelli da lui conosciuti) e altri ancora – la maggior parte – che sono costretti alla precarietà o a inseguire altre opportunità di reddito.
Mi permetto – anche a seguito di alcuni commenti su ciò – di fare un esempio, dal teatro.
Le compagnie riconosciute dal Ministero per il Teatro d’Innovazione sono 93. Facendo la media della somma complessiva della relativa quota di FUS, cadauna percepisce 58mila euro all’anno. In media gli addetti sono 8, tecnici compresi, pari a 7250 euro l’anno a testa. A questi si aggiungono quote variabili di finanziamenti di altri Enti (media: 10mila annui) e poche lire per incassi e laboratori. Quando va bene, ad ogni addetto giunge in tasca una cifra compresa tra i 10 e i 12mila euro l’anno (lordi!).
Si tenga presente che la media è molto alta, giacché ben 15 tra le 93 compagnie superano i 100mila euro cadauna (e di queste, 3 superano i 200mila). Insomma, alla maggior parte delle compagnie “sperimentali” tocca una miseria. La sperimentazione si fa nella precarietà e sotto-pagata.
Ma c’è un’ulteriore dato interessante.
Le compagnie che producono spettacoli “di ricerca” sono molte di più delle 93 riconosciute dal Ministero. E può capitare – e capita sempre più spesso – che una compagnia non finanziata proponga spettacoli immensamente più “belli” di quelle che godono del privilegio ministeriale. Come vivono? Di espedienti: con gli incassi, insegnando, rubando … (e pubblicando).
Mi chiedo: le “star”, e cioè quelli che diventano ricchi (ma anche le posizioni mediane), quanto dipendono dai precari? Sappiamo bene che il sistema editoriale ha bisogno di “titoli” (di quantità) … Cosa sarebbero le “star” senza le “merde”?
Salario “operaio” per tutti?
NeGa
Perché un autore dovrebbe prendere delle sovvenzioni?
Non so, un amico mi ha raccontato che un giovane musicista francese in difficoltà economiche riceveva un tot di euro dal governo. La sua professione di musicista aveva, dopotutto, delle necessità economiche per essere compiuta dignitosamente come strumentazioni, vestiario e spostamenti, verso queste spese lo stato andava in contro in qualche modo.
Vera o verosimile questa storia è una provocazione, ma possiamo riflettere se da noi, al contrario, ci sia ancora magari l’idea che l’arte non sia un lavoro, che i soldi guadagnati con la creatività siano un po’, rubati o un po’ più sporchi di quelli provenienti dal lavoro ‘normale’.
Forse mettere sullo stesso piano un idraulico e un romanziere, se non altro a livello civile e civico può essere salutare nel rapporto comune con l’arte stessa, abbattendo qualche muro.
D.
@hommerquirt
Il libro di testo è uno strumento indispensabile per l’insegnante, a meno che se ne faccia uno da sè.
Che poi gli editori facciano aggiornamenti fasulli per evitare il mercato dell’usato è un fatto. Che ci siano anche un sacco di brutti libri è un fatto.
Il mio (nostro, visto che eravamo tre autori) era bellissimo.
@Valter Binaghi
Non dubito che il suo fosse bellissimo. Ma di antologie è pieno il mondo e non vedo come la sua possa essere apprezzata dallo studente, tra l’altro in piena era internet, dove l’insegnante farà bene a sfruttare questa biblioteca condivisa invece di fruttare dal suo testo amorevolmente compilato ma superfluo e imposto a uno studente che non distingue pere da mele. Se poi l’insegnante di turno ha bisogno del suo testo per insegnare allora ha sbagliato lato dell’aula.
@Michele Monina
Scrivere un romanzo è un lavoro, certamente. Ma a differenza di altri lavori è qualcosa che troppi vorrebbero fare, e solo per il banale motivo che hanno letto che amore fa rima con cuore e i romanzi più improbabili possono decretare fama e gloria. Inoltre hanno detto loro che appunto anche i grandi della letteratura hanno dovuto attendere il successo, perciò per quale motivo non dovrebbero anche loro dare alle stampe il loro romanzetto? A tal fine sono fiorite sempre più case per autori a spese proprie, scriventi veri e propri che finanziano l’editoria in attesa che qualcuno venga loro a dire che erano geni incompresi. Non vedo invece che attinenza abbia il finanziamento delle compagnie teatrali o delle orchestre sinfoniche con la diaria data al bohemien che è bene resti in soffitta. Chi era quel saggio che ricordava che i grandi poeti hanno bruciato i loro versi e i cattivi li hanno pubblicati?
Vorrei interpellare la padrona di casa, che seguo sempre con interesse.
Molte delle sue critiche sono condivisibili. Tuttavia compilare il suo chaier de doléances è molto più facile che porvi rimedio, e ovviamente lei lo sa. Ma la difesa del libro e della diffusione della lettura non passa attraverso la moltiplicazione dei testi, né da una retribuzione da società comunista, purtroppo inattuabile. Facile prendere la difesa dello scrittore che non sbarca il lunario. Difficile è dirgli di cambiare mestiere. Ancor più coraggioso farlo all’inizio di una improbabile carriera e proprio per tutelarlo. O queso atteggiamento è visto come cinismo e mancanza di ecumenica sensibilità?
Hommequirit, le parole riportate qui sopra sono quelle di un’inchiesta che ho postato.
Se avessi avuto la pazienza di leggere i commenti nel post precedente, avresti notato che, sì, nel caso di scrittori che non trovano editore e finiscono col pubblicare a pagamento pur di avere il proprio nome su un oggetto, ho detto che pubblicare non aiuta a crescere, nè a vivere.
Ci mancherebbe pure questo,sovvenzionari gli scrittori!
A legger questo articolo,sembra di leggere un cahier de doleances di bottegai,che fanno conti d’ogni genere.
Poi magari sarebbe anche interessante andar a vedere la qualità di quel che scrivono.
Il dottore non ha ordinato a nessuno di scrivere,lo fai a tuo rischio e pericolo,o occorre sempre il paracadutino?
Chissà che direbbe un imbaud,un Joyce,un Beckett,un Ginsberg….leggendo questi articolo!
Questi son discorsi da impiegatucci del catasto,mica di artisti,è infatti poi vai a leggere e non ti resta quasi sempre nulla.
Se nel nostro paese poi non si crede nel valore degli intellettuali in genere,è perchè questi signori ci han messo molto del loro per non esser creduti da molti.
Mea culpa per non aver interrogato i commenti. Mi scuso per la domanda pleonastica.
forse anch’io come traduttrice avrei diritto a sovvenzioni statali, considerando le tariffe (10-12 euro a cartella) pagate da grandi e piccoli editori, e la vita grama che si fa. Solidarizzo istintivamente con i precari, categoria alla quale appartengo da 30 anni, eppure non mi è mai venuto in mente di avere “diritto alla traduzione” (parafrasando lo slogan dei collettivi di Scrittori precari). Invece, da tre anni faccio anche un secondo lavoro (la babysitter) con grandissima soddisfazione.
per il resto, sottoscrivo i commenti di hommequirit e marotta.
@hommerquirt
Oltre che inserire il cervello, prima di parlare bisognerebbe conoscere l’argomento. Internet non è la banca dell’abbondanza, i testi di pubblico dominio sono per lo più classici, niente o quasi di contemporaneo e soprattutto non brani adatti a lettori di 11 anni. Inoltre la informo che un’antologia letteraria è innanzitutto un progetto didattico con una didattica della lingua, dei generi, attività da svolgere ecc.
E’ un po’ come al bar, no? Davanti al televisore tutti gli italiani sono CT meglio di Lippi.
@Valter Binaghi
A queste argomenti non si dovrebbe rispondere, lo sa? La questione è che l’aggiornamento della didattica è uin problemo interno a chi la produce. Naturalmente sarebbe facile replicarle che è difficile far capire qualcosa a qualcuno quando il suo reddito dipende proprio dal non capire quel qualcosa. Ma la considero intelligente e faccio mie le sue critiche.
Vorrei ricollocare il punto di vista nel rapporto tra scrittore ed editore.
Li dove il rapporto è creativo allora si fa il bene anche economico di entrambi, se il rapporto è solo imprenditoriale, allora non va.
Lì dove l’editore è agente, vero curatore, distributore, compagno di viaggio militante ed impegnato allora diventa soggetto fondamentale della relazione artistica e della produzione.
Quando invece l’editore tratta i libri e le persone come merce indefinita, allora si passa allo sfruttamento e i libri diventano come i vestiti o i cotechini.
Viva l’artista artigiano, che lavora di buona lena sul suo pezzo aspirando all’empireo letterario o all’intrattenimento di massa, stando all’interno di un clima vitale, creativo e rivoluzionario col proprio editore.
Abbasso l’artista- mucca da mungere e da tenere a stecchetto – che deve fare tre lavori quando l’editore ne fa uno solo.
Se fare l’arte (e tradurla) non paga, non deve pagare neanche venderla e stamparla.
Allora artista ed editore tutti a fare i pizzaioli, ma al 50 e 50 degli utili letterari.
O no?
D.
@Valter Binaghi
Scusi ma non credo che la sua antologia letteraria sia molto diversa e importante dalla messe infinita di quelle degli anni precedenti. Lei sa le racconta.
Io sapevo che in Italia gli scrittori che campano dei propri libri si contano sulle dita di una mano. Gli altri tutti a scrivere sceneggiature o a piatire collaborazioni con quotidiani o riviste.
Apprendo invece che c’è una quota – ristretta, per la carità – che insomma qualche euro lo tira su ( leggo di 30000 o 40000 euro l’anno, di casette in montagna, sacrosante, sia chiaro) e questo mi conforta ma anche stupisce. Mi stupisce perché se si parla di queste cifre lo si deve all’esistenza di un mercato che invece in tutti i blog letterari viene indicato come corruttore dell’arte e responsabile del degrado letterario.
Ora non nego che le cose stiano così e però, amici scrittori, qui dobbiamo metterci d’accordo: questo benedetto mercato fa bene o no? io ho sempre ritenuto di no ma se poi apprendo che qualche volta permette al talento di produrre con un minimo di serenità allora cambio idea. La figura dello scrittore più o meno sovvenzionato è roba della Mosca di Ivan Bedzomni, quella dello scrittore che per tirar su qualche liretta di felicità scrive antologie (alle quali non crede ma nella cui rendita mercatizia confida) mi rimanda a un immagine di felice libertà. E non è poco, per un’attività che ho visto e vedo produrre nevrotici, frustrati e addirittura psicotici in quantità.
Io domani devo andare in classe a consegnare ai miei studenti gli esiti della prima verifica e spiegare loro che il libro di testo che non ho scelto io, che è stato adottato prima che gli insegnanti sapessero in quali classi avrebbero insegnato, contro la cui adozione in ogni caso ho votato contro sia in dipartimento che in collegio, ha fatto dei danni alla loro comprensione. Se l’Hommequirit, che sa tutto di libri di testo e di prassi didattica, vuole spiegarmi come è possibile spiegare la filosofia greca a partire da un testo il cui impianto critico-storico non ritiene di dover tenere presente quell’avanguardista postmoderno che è Jaeger, prendo appunti.
@Sara
La mia era una battuta. In ogni caso la differenza di qualità esiste in tutte le cose, dal parmigiano ai libri di testo.
@zilberstein
Leggi bene, per cortesia. Casette in montagna se ne comprano con lavoro molto pagnottesco che è fare libri di testo per le scuole. Il mercato letterario, al di là di qualche decina di fortunati che oltre al proprio genio possono vantare contratti con le major è meno che miserabile. Tenuto in piedi dal sacro furore o dalla vanità (vedi tu quale dei due, dopo aver letto il libro) degli autori e degli editori.
E alla fine diciamo che questo articolo di repubblica è fuorviante. Le cifre saranno anche giuste, ma riguardano una piccolissima parte di ciò che si pubblica in Italia. Come se facessimo un’analisi dei guadagni dei calciatori partendo dagli stipendi pagati dalla Sampdoria in su, senza contare i campionati di promozione, le serie cadette, e le provinciali di serie A. Capisco che di tutto questo nelle redazioni dei grandi giornali si sa poco, sarà questo il motivo per cui di tutta questa scrittura ed editoria si occupano anche poco.
Esiste un’idea anglosassone dello scrittore come lavorante della scrittura, che oltre che creare, insegna, scrive articoli, fa l’editor, collabora di qua’ e di la’ che qui sembra in qualche modo sbagliata.
E’ ovvio che ognuno si sceglie il secondo lavoro che gli pare, ma comunque mi sembra meglio scrivere uno spot intelligente, un articolo interessante o un comizio sentito piuttosto che un libro in più senz’anima per pagarsi la bolletta.
O no?
C’è un aneddoto calzante che Stephen King racconta credo in danse macabre, il suo primo saggio sulla scrittura.
King lavorava in una lavanderia, in attesa del posto fisso come insegnante di letteratura inglese al liceo. Appena gli arrivò la lettera di convocazione salutò con esultanza la lavanderia e i colleghi. Ricevuta la prima busta paga da insegnante tornò dai lavandai a chiedere un part time.
D.
Esiste un’Associazione degli Scrittori Bolognesi che, all’atto della fondazione, fissò un tariffario delle apparizioni in pubblico. Personalmente non vi ho mai aderito, come fecero anche Stefano Benni (che vende dieci volte più di me) e altri, pur con tutto il rispetto.
Il fatto è che guadagniamo già molto. Il mio reddito, al lordo delle tasse, si aggira come minimo sui 60 mila euro all’anno. Comprende gli anticipi, i diritti (12% sui rilegati, 6% sui tascabili) e altre voci secondarie. Ciò che mi viene dalle edizioni estere è trascurabile.
Non sento il bisogno di finanziamenti statali, e le rare volte in cui faccio presentazioni pubbliche, non chiedo una lira. Non sono autore di libri capaci di schizzare in cima alle vendite, né godo di particolari promozioni. Mi accontento di guadagnare – qualcuno dirà a sbafo – molto più di un operaio o anche di un impiegato. Guadagno quanto un artigiano, che è poi quel che sono.
Mi irritano, però, le continue lamentazioni di certi miei colleghi (di vecchia data: “carmina non dant panem”). Amici, viviamo una condizione privilegiata. L’esordiente magari è un poveraccio (per i miei primi Urania ricevevo a forfait tre milioni di lire a romanzo), noi no. Smettete di frignare.
Gianni Biondillo, perdonami, ma dove ho schifato il mio redddito? Se ho scritto che con 30.000 euro lordi si campa più che bene, è perchè è così, perciò, per cortesia, non facciamo della retorica su un commento puramente matematico. Dato che tanti scrittori lamentano, credo a ragione, di non poter campare con la scrittura, mi pareva calzante fare un esempio realistico: se io campo con 27500 euro, credo che uno scrittore possa farlo con 30.000, no?
Poi non saprei dire, ed è quello che mi chiedo, quanti siano gli scrittori che scrivono un libro all’anno e ricevono 30.000 euro di anticipo, perchè se come dice il sig Evangelisti non sono poi così pochi, allora davvero lo scrittore è un privilegiato e non c’è motivo di parlare di sovvenzioni statali.
Finanziamenti agli scrittori? Vorrei capirne di più. Si tratterebbe di un contributo pubblico a chiunque scriva un libro? A chi ne ha scritti un tot? A chi li chiede per “vivere di scrittura”? Oppure si pensa a una kommissione politika che li somministra come avviene, per esempio, per il cinema? Non c’è il rischio allora che gli scrittori “amici degli amici” ricevano i finanziamenti pubblici e gli altri che, per spirito di indipendenza, desiderio di libertà o semplice sfiga non hanno santi in paradiso, si trovino in una condizione ancora peggiore nel contrattare diritti e tutto il resto in concorrenza con chi ha un reddito garantito dallo Stato (non perché faccia un altro lavoro, ma perché è uno “scrittore certificato”)?
Vorrei capire una cosa. Con “vivere di scrittura” si intende vivere del mestiere di scrivere a tutto tondo, o vivere dei ricavi dei propri romanzi? Nel secondo caso, bisogna essere bravi, scriverne abbastanza da garantirsi un reddito, godere di molte ristampe. Nel primo caso, ci sono diverse possibilità [traduzioni per chi le fa, reportage, recensioni, inchieste, corsi di scrittura] che permettono a chi le sa e le vuole sfruttare di garantirsi un reddito. Che tipo di reddito è un altro discorso. Io da impiegato guadagno 1000 euro al mese e campo con difficoltà, ma campo.
Non vedo bene il discorso contributi statali, se serve a creare una piccola casta di “artisti” che scrivono senza sporcarsi le mani, fatto salvo il diritto agli ammortizzatori sociali di tutte le categorie di lavoratori: qualcosa che in Italia manca per molti.
Scusate, ma c’è qualcosa che non va nelle cifre che avete pubblicato.
Partendo dalle cifre ufficiali menzionate da Salvatore Cannavò nel suo post, se dividiamo il fatturato annuale del settore librario per il numero di titoli che escono ogni anno, risulta che ogni “novità” vende mediamente per un totale di 36,76 euro! Quante sono, 2 o 3 copie?
E’ una media, d’accordo, ma è ben lontana (moooolto lontana!) dalle medie citate qui, ma che si avvicina parecchio a quelle reali che alcuni giornali ogni tanto riportano.
Per fare un esempio, tralasciando le grosse case editrici, dato che nei dati ufficiali di cui sopra sono compresi tutti i nuovi titoli indipendentemente dall’editore, sappiamo tutti che la media delle vendite che può raggiungere il libro di un esordiente pubblicato da una piccola casa editrice è al di sotto delle 200 copie! E anche questa è una media. Sì, perché non è affatto raro che il libro di un esordiente venda appena una decina di copie, magari contro un altro esordiente che arriva a venderne un paio di migliaia. E i risultati esulano dalla qualità del libro, questo ve lo posso assicurare.
Quindi, la media di 4-5000 copie non può essere reale, assolutamente.