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Questioni di memoria: un blog serve anche a questo, a ricordare che, per esempio, gennaio è il mese delle discussioni sull’editoria: ci sta, perché si apre un nuovo anno e vengono annunciati i nuovi libri. Ma la questione rimane identica. Per questo, riposto qui un articolo che ho scritto per La Stampa nel gennaio 2023, esattamente due anni fa. E i problemi sono sempre quelli.
“C’è un dato interessante che è stato fornito a fine anno: le prime edizioni dei libri sono aumentate del 13,5 per cento, le seconde (e successive) diminuiscono del 18,4. Il che fa dedurre che la vita dei libri si abbrevia ulteriormente. Il che fa dedurre anche che la questione della critica non è disgiungibile dalla possibilità di scegliere di quale libro parlare: e fra settanta-ottantamila novità l’anno è quasi impossibile. E qui entra in ballo il discorso del recensirsi fra amici su cui si soffermava Piero Dorfles su queste pagine: a costo di rischiare l’accusa di ingenuità, penso che a volte si recensiscano i libri di chi si è già letto perché è difficilissimo trovare gli altri. E’ un problema, e non piccolo, e neppure nuovo: ma si sta aggravando. Come può il lettore professionista assolvere al suo compito nell’oceano di titoli che si trova davanti? A volte, banalmente, sceglie la via più semplice: l’autore già conosciuto.
A questo si aggiunga il peso che grava su tutti, esordienti e no, nella corsa al libro di successo. Si dirà che tutti desiderano il best-seller, e non da oggi. Ma non come negli ultimi tempi, che vedono moltiplicarsi gli sforzi per concepire il romanzo determinante. Sforzi dolorosi, continuativi, fatti non solo di scrittura ma di relazioni e strategie che, si ritiene, faranno di quel testo un best-seller. Dovrebbe essere noto da tempo che non funziona così. I best-seller sono quasi sempre stati casuali: semplicemente, un libro che arrivava nel momento giusto e su, cui, certo, si concentra l’intuizione e poi lo sforzo promozionale di un editore.”

Considerazioni sparse sulla non lettura. In primo piano, i soldi. Ogni volta che si fa questo discorso salta fuori qualcuno che col ditino alzato dice: “e allora lo spritz? E allora l’iPhone? E allora il macchinone?”
Non funziona esattamente così. Mi ha scritto stamattina un amico, che nominerò se mi dà il permesso, ma mi ha autorizzato a raccontare la storia.
“Siamo, dice, un gruppo di amici. Disoccupati o part time, stipendi sotto i mille euro mensili. Ma siamo lettori forti, e spesso non vogliamo aspettare che le biblioteche acquisiscano quel titolo che stavamo aspettando, e ogni mese ce ne sono diversi. Ma i libri costano fra i quindici e i venti euro, e la spesa diventa impossibile.
Dunque, li compriamo insieme: ognuno versa una piccola quota, in modo che, dividendo il costo totale fra cinque persone, l’acquisto diventa accessibile. Come li leggiamo? Tirando a sorte: estraiamo i biglietti con i nostri nomi da un cestino, e il primo estratto inizia la lettura, che poi passa agli altri. Alla fine qualcuno tiene fisicamente in custodia il libro: c’è un ex libris con i nostri nomi, su Google Drive c’è un file con i titoli acquistati e il nome di chi lo tiene in consegna. Ognuno ha dedicato una sezione della libreria al “bookshaming”, dove si tengono i libri in comune, che possono essere richiesti per rilettura in qualsiasi momento.
E’ un paradosso. Anche in questo caso legato alle tante uscite e soprattutto alla scarsità di soldi. Mi rendo conto che il mercato editoriale non viene aiutato da questo sistema, perché un solo testo viene letto da cinque persone. Ma come si fa? I libri aumentano, in numero e costo, e gli stipendi non crescono, e il lavoro nemmeno. Quindi il problema non è l’editoria, o non solo: è il lavoro”.

Ieri sera, su Facebook, ho espresso il mio stupore per le discussioni sull’editoria di questi giorni. Cosa succede, in pratica? Che si perdono lettori, e lo sappiamo. Che i libri vendono poco, pochissimo, e sapevamo pure quello. Che se ne pubblicano troppi, e sfioreremo probabilmente le centomila novità nel 2025, e anche questo era noto. Che stare sui social non garantisce la vendita, né per i libri “letterari” né per quelli pop (dovrebbe ancora bruciare il bagno di sangue per Amiœ. Il manuale del cörsivœ di Elisa Esposito). Che, insomma, siamo in stallo.
E’ che non si riesce a fare un discorso collettivo, ma solo individuale, e i discorsi individuali finiscono sempre per essere ciechi, e non riuscire a vedere quello che si ha intorno. Il lavoro culturale non riguarda il destino di una sola persona, ma di tutti coloro che provano a sopravvivere in questo durissimo ambito.
Però, tanto per rinfrescare la memoria, ripubblico qui un articolo scritto per Repubblica nel 2011, che seguiva quello sulla resa che ho citato ieri. Avevo intervistato alcuni editori, che al tempo fornivano una strada. La domanda è: chi ha percorso quella strada, oggi?
Allora si diceva questo: “«Capitalismo da straccioni», commenta Sandro Ferri di E/O che spiega come funziona il mercato: «Noi editori, tutti, facciamo titoli che perdono soldi nell´ottanta per cento dei casi, e lo sappiamo in partenza. Ma intanto li facciamo uscire, perché librai e distributori li pagano: quando ci sarà la resa, gli ridarai i soldi, ma intanto hai tra le mani un flusso di denaro. Perché lo facciamo? Per avere visibilità, in parte. I grossi editori prendono sempre più spazio in libreria: e se usciamo con trenta titoli abbiamo più possibilità di farci vedere. E perché ci facciamo ingannare da un´illusione».
E oggi?

Ho sempre immaginato il mio spirito del Natale – comprensivo di passato, presente e futuro perché siamo in tempi di risparmio – identico a Frank’n’furter, il protagonista di Rocky Horror Picture Show che proprio nel 2025 compie cinquant’anni. Uno spirito con tali fattezze provocherà accuse sparse di gender e transfemminismo, cosa che va molto di moda da ultimo:  ma l’immaginario è l’immaginario, e uno spirito del Natale come il vecchio Frank ha molti vantaggi: mette di buon umore e canta bene, e a confronto i trascurabili svantaggi (lustrini seminati sui tappeti, lampade spostate per centrarsele sul viso mentre canta “I’m going home”, qualche portacenere rovesciato durante un time-warp preserale) sono poca cosa. Del resto, uno spirito del Natale in guêpière vale quelli canonici, e magari è persino beneaugurale rispetto a un Clarence qualsiasi.
Gli indirizzo una letterina sullo stato delle cose dell’editoria, che non cambia troppo, ahinoi. E gli chiedo Pazienza, Passione, Parole. E pure qualche lustrino.

Rito del mattino: caffé,  yogurt, libro da rileggere, rassegna stampa online. Bene. Sulla newsletter del Corriere della Sera, a proposito di Sanremo 2025, leggo:

“Quello che è certo, perché l’ha detto ufficialmente Conti, è che nelle canzoni «non si parlerà di guerra e immigrazione», ma di «famiglia e rapporti personali». Per carità, meglio non rischiare con temi difficili, meglio mantenere buoni rapporti con tutti, a partire dal governo, meglio restare nazionalpopolari e mettere da parte l’impegno”.

Ti pareva, penso. 
Poi però mi chiedo: di cosa parla la maggior parte dei romanzi italiani usciti o in uscita? Famiglia e rapporti personali. 

Per una serie di circostanze, in questi giorni malaticci ho pensato parecchio al sistema editoriale e a cosa si chiede a chi scrive. Intanto, come è ovvio, si chiede di vendere, e di vendere possibilmente subito, nel giro di due settimane. Qualora non ci si riesca, come ben sanno coloro che scrivono, non solo il libro torna in resa, ma il numero di copie vendute peserà sui libri successivi come il cuore dell’ingiusto nella psicostasia egizia, e le prenotazioni verranno ridotte ai minimi, innescando una spirale di condanna silenziosa da parte di (alcune) librerie e di (alcuni) editori. Come se fossero gli autori a dover vendere e non gli editori e i librai a contribuire alla vendita, visto che in fondo gli autori dovrebbero solo scrivere, ma facciamo finta che sia così.
La logica è comprensibile, trattandosi di un mercato: che sia anche una logica pagante è tutto da vedere, però. Anche perché per bilanciare quell’esiguità di vendite si chiederà dunque all’autore o all’autrice di spendersi in presentazioni, di essere presente il più possibile con il suo corpo e la sua eventualità abilità di performer. Che però dovrebbe essere un altro lavoro: l’intrattenitore o intrattenitrice, appunto, e non lo scrittore o la scrittrice.
Cosa voglio dire, infine? Niente che chi scrive non sappia già. Ovviamente resta la libertà di sottrarsi, di dire no, di fare spallucce e di continuare a scrivere quello che si ritiene giusto. Mi chiedo soltanto per quanto tempo questo sistema potrà sopravvivere e quanto, alla fine, dei corpi degli autori e delle autrici si farà a meno: perché lo spettacolo va bene, ma troppo spettacolo finisce con l’allontanare. Poi, al solito, io resto convinta che siano le reti a funzionare, che siano le connessioni fra piccole realtà, dove i numeri di copie vendute e la performance contano molto meno dei progetti comuni. Ma magari ho torto, anzi di sicuro.

Infine, sono tornata, con alle spalle un mese e mezzo fitto di incontri e di scrittura, e come a ogni ritorno trovo sul tavolino la pila di libri di settembre. Come ogni anno, mi chiedo come andrà. Come ogni anno, penso a quante cose belle abbiamo a disposizione, e faccio voti perché trovino la loro strada. Cosa non semplice. Perché da troppo tempo si ripete la lamentazione comune dei troppi titoli. E’ un problema, e non piccolo, e neppure nuovo: ma si sta aggravando. Come può il lettore professionista assolvere al suo compito nell’oceano di titoli che si trova davanti?
Dunque forse bisognerebbe tirare il fiato, ricordare che la vita di un libro è imprevedibile, come molti sanno, e scrivere con l’anima in pace. Bisognerebbe anche che la critica avesse più spazi per esprimersi e per fare il suo lavoro, che, ripeto, non è quello di far vendere, ma quello di analizzare. Bisognerebbe, infine, placare le aspettative generali. Perché se si continua così, gli scrittori a inseguire il libro che vende tantissimo, gli editori a dover vendere tantissimo quel libro, i librai a dover basare le prenotazioni su quel che si è venduto, mentre noi tutti, lettori e scrittori, continuiamo ad annaspare tra novantamila titoli l’anno, si implode, semplicemente. E anche in tempi brevi.
Detto questo, voglio comunque fare gli auguri di buon vento ad alcuni libri fra i molti che mi aspettavano a casa: Nei nervi e nel cuore di Rosella Postorino, Ogni cosa è per Giulia di Lucia Tancredi, Il gelso di Gerusalemme di Paola Caridi, Le mie cose preferite di Susanna Tartaro. E le bozze dell’imminente Il male che non c’è di Giulia Caminito.
Tutte amiche tue, bofonchieranno i soliti. Tutte scrittrici che conosco e amo, rispondo: come al solito, si è amici di qualcuno perché lo stima, e non si stima qualcuno perché è tuo amico. Ma che lo scrivo a fare?
Ben ritrovato, commentarium.

Tra le pile di libri su vari tavoli, che somigliano ormai a plastici del Grand Canyon, ci sono quelli che aspettavo e volevo leggere (e voglio leggere) ma non sono ancora riuscita ad aprire. In ordine sparso, Alma di Federica Manzon, Marabbecca di Viola Di Grado, Storia dei miei soldi di Melissa Panarello, Chi dice e chi tace di Chiara Valerio, La reputazione di Ilaria Gaspari, Missitalia di Claudia Durastanti, Il fuoco che ti porti dentro di Antonio Franchini, Dove la luce di Carmen Pellegrino, O Caledonia di Elspeth Barker eccetera eccetera, e chiedo venia a chi non ho nominato perché non è un’esclusione o una diminuzione, ma una dichiarazione di impotenza.
Quel gioco di equilibri che permetteva di pubblicare Naipaul e Uccelli di rovo è andato all’aria, perché escono IN NUMERO MAGGIORE ottimi libri, ma escono tutti insieme, rischiando di annullarsi a vicenda.
E’ un problema enorme.
In più, mentre scrivevo questo post, ha suonato il corriere portandomi Il famiglio della strega di Francesca Matteoni. Sono nei guai. Anzi, siamo, tutte e tutti, scrittrici e scrittori, in grossi guai.

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