Nel mondo là fuori sappiamo bene cosa accade. Ma siamo talmente abituati al distacco da ripiegarci sulle piccolezze del mondo qui dentro. E nel mondo qui dentro, in questo periodo, tornano i suggerimenti, attraverso libri e Internet, sul come fare spazio nelle nostre case per sentirci meglio: via le vecchie carte, i vecchi abiti, via tutto quello che accumuliamo senza sapere perché.
Ma c’è un tipo di accumulazione a cui pensiamo più raramente: quella digitale. Lo ricorda Ezra Klein in questo articolo sul New York Times. Klein racconta di aver “ucciso” il suo account gmail dopo vent’anni. Gmail, al suo esordio, era un club per iniziati: si poteva accedere soltanto su invito, offrendo un bel po’ di spazio gratuito rispetto alle altre caselle di posta, e una volta ottenuto (fu, se non ricordo male, Giulia Blasi a invitarmi) si provava persino quel brivido di appartenenza esclusiva che con molta abilità le aziende digitali sollecitavano. Prima di trasformarsi, come ricorda Klein, in entità che ti sfruttano invece di porsi al tuo servizio, come illusoriamente credevamo.
Ma c’è di più. Le nostre vite digitali si sono trasformate in un armadio della vergogna. Non quello, tristemente noto in Italia, dove si celavano i documenti sui crimini nazifascisti. Qualcosa di meno, come sempre. Ovvero,
“quella zona della tua casa dove stiponi le cose che non hanno altro posto dove andare. Non deve essere un armadio. Può essere un garage, una stanza, una cassettiera. Qualunque sia lo spazio, è definito dall’assenza di scelta. Ci sono cose che ti servono lì dentro. Ci sono cose di cui non avrai mai bisogno lì dentro. Ma man mano che l’armadio della vergogna cresce, il compito di scavare o riorganizzare diventa troppo arduo”.
Dunque, scrive Klein, cosa si fa quando si ha un milione di messaggi non letti nella casella di posta? Capita. Ricordo un pomeriggio con Michela Murgia, dieci anni fa: eravamo a Firenze per presentare “L’ho uccisa perché l’amavo”, io sarei ripartita, lei no, e mi stavo riposando nella sua camera d’albergo quando ho sbirciato il suo computer e ho esclamato “Michi, hai cinquecento mail non lette!”. “Per forza: come sopravvivo, altrimenti?”, mi disse.
Ora, essendo una fissata col senso del dovere (e di colpa), continuo a leggere tutto. Solo da un anno o due ho cominciato a non rispondere sempre, con il risultato che chi non ha ottenuto risposta (e si tratta nella maggior parte dei casi di richieste di lettura o passaggi radiofonici) mi riscrive, e tutto diventa più complicato. Ma, pur non avendo messaggi non letti, mi ritrovo in quel che dice Klein: è diventato più difficile trovare quel che invece ti serve. Non è solo una questione di algoritmi, credo: è una questione di memoria (la nostra), e non ha troppo a che fare solo con Gmail: quando siamo in presenza di valanghe di informazioni, dimentichiamo quello che stavamo cercando, dimentichiamo quello che ci è utile.
Anche perché non riguarda solo Gmail, prosegue Klein:
“Secondo iCloud, ho più di 23.000 foto e quasi 2.000 video che riposano da qualche parte sui server Apple. Ho decine di migliaia di brani che mi piacciono da qualche parte su Spotify. Quanto viene annotato nella mia app Notes? Quante conversazioni ho archiviato in Messenger, in WhatsApp, in Signal, in Twitter e nei DM di Instagram e Facebook? Ci sono tante cose che ho amato in quegli archivi. Ci sono tante cose che mi farebbe piacere riscoprire. Ma non riesco a trovare ciò che conta nel pantano. Ho rinunciato a provarci”.
La coazione a ripetere è una delle maggiori insidie del nostro tempo. Ci siamo dentro da un quarto di secolo. Magari, cominciamo a parlarne.