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Sul New York Times, Ezra Klein racconta di aver “ucciso” il suo account gmail dopo vent’anni: cosa si fa quando si ha un milione di messaggi non letti nella casella di posta? Capita. Ricordo un pomeriggio con Michela Murgia, dieci anni fa: eravamo a Firenze per presentare “L’ho uccisa perché l’amavo”, io sarei ripartita, lei no, e mi stavo riposando nella sua camera d’albergo quando ho sbirciato il suo computer e ho esclamato “Michi, hai cinquecento mail non lette!”.  “Per forza: come sopravvivo, altrimenti?”, mi disse.
Ora, essendo una fissata col senso del dovere (e di colpa), continuo a leggere tutto. Solo da un anno o due ho cominciato a non rispondere sempre, con il risultato che chi non ha ottenuto risposta (e si tratta nella maggior parte dei casi di richieste di lettura o recensione) mi riscrive, e tutto diventa più complicato. Ma, pur non avendo messaggi non letti, mi ritrovo in quel che dice Klein: è diventato più difficile trovare quel che invece ti serve.  “Gli algoritmi di Google avevano iniziato a deludermi. Quello che loro pensavano fosse una priorità e quello che io pensavo fosse una priorità divergevano”.
Non è solo una questione di algoritmi, credo: è una questione di memoria, e non ha troppo a che fare solo con gmail: quando siamo in presenza di valanghe di informazioni, dimentichiamo quello che stavamo cercando, dimentichiamo quello che ci è utile.
Succede anche nei social, come ho provato a scrivere tante volte: siamo in contatto con centinaia, migliaia, decine di migliaia di persone, teoricamente, ma nei fatti la solitudine aumenta. Perché, e ancora una volta ha ragione Klein, “la vicinanza richiede tempo”.

HATE!

La vicenda di Google, dunque: ovvio che la sentenza di Milano faccia discutere mezzo mondo. Personalmente concordo con quanto scrive Zambardino sul suo blog e con quanto da tempo si sostiene qui e altrove sulla responsabilità individuale (etica, per intenderci)…

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