IL SENSO DELLA FINE (E DEGLI INIZI)

Sono rimasta molto colpita, ieri pomeriggio, dalla conversazione fatta con Gennaro Sasso a Fahrenheit su Dante e sulla sua lettura della Divina Commedia. Sulla tematica “apocalittica” sottesa ma centrale. Sul fatto che per Dante la storia fosse, in un certo senso, finita. Ora, da diversi anni, e dunque da prima del Covid, io ho la sensazione che quel senso della fine, che pure esisteva ancora nel Novecento, sia svanito.
A intuirlo, vent’anni fa, fu il molto amato Paolo Fabbri, che sul punto  mi regalò un testo. E ve lo ripropongo, perché come pochi riescono a fare, avevo visto molto, molto lontano. E perché tutti noi, oggi, abbiamo paura dei mondi, e dei cicli, che finiscono.
“Il senso della fine è oggi attualissimo, ora che l’immagine dell’Apocalisse, nella forma della catastrofe ecologica da noi stessi provocata, è tornata a bussare alle nostre porte, agitata da profeti veri o falsi che siano.
L’Apocalisse è certamente uno dei libri meno conosciuti della nostra tradizione religiosa, anche se fa parte della Rivelazione. Perché non lo leggiamo? Forse per la lentezza della storia, forse perché siamo piuttosto distanti dalle immagini che propone e dai suoi angeli intenti a divorare libri cosparsi di miele. Truculenze a parte, l’Apocalisse porta nella nostra cultura l’idea di una fine desiderata. Perché tale è l’idea dell’Apocalisse: la fine del mondo è necessaria perché rinasca un nuovo mondo, un mondo trascendente a cui tutti dovremmo in qualche modo aspirare. Ne abbiamo paura? Certamente sì: in generale, la cultura contemporanea teme la fine. Anzi, la esclude: nemmeno la morte individuale, in una certa misura, viene presa in considerazione come esistente.
Bisognerebbe, a questo punto, tentare una piccola tipologia delle culture: alcune sono culture che cominciano, dunque mettono l’accento sull’origine (la fondazione della città da cui si svilupperanno, per esempio), poi puntano la storia a partire da questo episodio e non finiscono. Laddove l’inizio è messo in evidenza, cioè, non ci si cura troppo della fine. Le culture contrapposte sono quelle che non si pongono il problema di quando e cosa è cominciato: niente Big Bang, niente formazione dell’universo, niente apparizione dell’uomo sulla terra. Marcano soltanto la fine, vivono in funzione del Big Crunch.
Infine, esistono le culture più savie: quelle che concepiscono sia i miti dell’origine che i miti della fine. E dunque l’Apocalisse. Poi c’è la cultura contemporanea: assolutamente straordinaria. Infatti, non si preoccupa del proprio inizio (inducendo gli studiosi ad interrogarsi su quella che viene chiamata perdita di senso della storia), non si preoccupa della fine, rimuove l’apocalisse. Al punto che un uomo straordinario come Franz Kafka ha potuto scrivere che il giorno del Giudizio tutti aspetteranno il Messia: che però sarà in ritardo e arriverà probabilmente il giorno dopo.
Questa è la situazione in cui ci troviamo: ammettiamo di utilizzare toni apocalittici quando parliamo di un mondo che potrebbe avere una fine, ma questa fine viene sempre differita. L’Apocalisse, però, non finisce di morire: qualcuno ha scritto che l’arte era morta, qualcun altro ha detto che dopo Auschwitz non era più possibile fare poesia. Nonostante tutto, però, questi annunci apocalittici sono sempre accompagnati dalla continuazione della pratica dell’arte e della poesia. Questo significa che l’Apocalisse non ha fine. Dovremmo, allora, cambiarle nome. Chiamiamola Ipercalisse”.

3 pensieri su “IL SENSO DELLA FINE (E DEGLI INIZI)

  1. I miti fondativi dal Ganesh o Dioniso smembrato, al big bang sono basati su una aporia, che le Cose possano provenire dal nulla. In quanto tali possono trasformarsi continuamente in qualcosa d’altro contraddicendo la stessa propria identità ed eternità. Stessa cosa per i miti della fine: la morte è un andar nel nulla è da qui nasce l’esigenza di una resurrezione, di una reincarnazione riproducendo la follia della fede nel divenire come continuo annullamento che pervade tutto il pensiero occidentale.

  2. Apocalisse viene dal greco e significa “rivelazione”. Se non ho capito male questo libro si serve di allegorie, linguaggi figurati per dare speranza in un mondo nuovo dove il bene, la risurrezione, avranno la meglio sul disordine e la cattiveria del mondo, dopo una lotta tra queste forze avverse. Dunque io la vedrei in positivo. Abbiamo storicamente distoro il significato, il male ha forme così grottesche e difficili da raffigurare che non può esistere, né durare. Credo che Giovanni intendesse, in poderosa sintesi, lasciarci questo messaggio. Positivo

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