Vi state affezionando agli interventi di Ivano Porpora? Anche io, dunque vi propongo questo. Comunicazione di servizio: domani niente post, sono a Firenze con Michela Murgia e Adriano Sofri per parlare di “L’ho uccisa perché l’amavo”. Se ci siete, vi vedo volentieri.
Anni fa, tra i vari prodotti che proponevo in giro per gli ospedali – ero area manager nel settore della teleria monouso – c’era il cosiddetto kit di prima accoglienza. Si trattava di un articolo per il ricovero ospedaliero composto solitamente da pigiama usa e getta, spazzolino e dentifricio, pettine o spazzola, ciabatte monouso, assorbente, sapone. Era un oggetto dal costo modesto, racchiuso in un involucro di tessuto non tessuto, e che ci veniva commissionato, con piccoli cambiamenti, per i neodegenti che non avessero di che cambiarsi: senzatetto, prostitute, incidentati – di solito.
Ce ne chiesero tantissimi per il servizio di violenza sessuale – prima a Trieste, poi a Milano, poi di lì in giro. Mi facevano fare un po’ di anticamera di fronte a quello che veniva chiamato asetticamente CVS e scoprii essere Centro Violenza Sessuale; poi dichiaravano – altri tempi – che quell’articolo era indispensabile, che quel po’ che c’era da pagare, magari riducendo un po’ il numero degli articoli interni alla busta, l’avrebbero pagato. Mi raccontavano, a Trieste, di quattro stupri denunciati a settimana – nelle settimane di calma. Mi dicevano, lamentando l’eccessiva composizione del kit perché ne potessero acquistare un numero equo, che, fra gli articoli, uno era assolutamente indispensabile: la spazzola.
La cosa mi colpì, e colpì chi in azienda prese in carico la personalizzazione da me richiesta. Pensavamo fosse indispensabile il pigiama, per coprirsi, o forse uno qualsiasi degli altri articoli per l’igiene personale. L’assorbente, magari. Le ciabatte, piuttosto, per camminare.
Mi dissero invece “Le donne devono recuperare, per prima cosa, il senso di esser donna”.
Era una frase bellissima da sentire, pregna di dolore. Una frase che mi atterriva, ogni volta che la sentivo o la pronunciavo: come se una parte di me capisse finalmente come ci fossero, da qualche altra parte nel mondo – ma una parte di mondo innervata nella mia parte di mondo -, persone che quel senso di esser persone lo avessero perso.
Certo, avevo l’esempio dei bambini dell’Africa, che ci venivano indicati a tavola come mirabili induttori di senso di colpa, ma – lo capii ben presto – si trattava di un esempio estremamente deviato: come pormi responsabile di uno spreco che si era ingenerato non a causa mia ma di chi mi aveva messo nel piatto ben più di quanto potessi o volessi mangiare?
Il ricordo della spazzola mi è venuto in mente qualche giorno fa, rivedendo, in occasione della morte di Franca Rame, il monologo che tenne a Fantastico 1988 sullo stupro. Monologo inquietante e che, a ben vedere, pare quasi mettere in secondo piano la vicenda dello stupro in sé – ossia: la violenza carnale che viene effettuata da parte di un individuo, solitamente uomo, ai danni di un altro individuo, solitamente donna.
La Rame spersonalizza la fase della violenza, come si dice avvenga: parla di un corpo che non è il suo, di alienazione. Come quella paziente di Oliver Sacks che sogna di staccarsi dal proprio corpo e il giorno dopo il rapporto col proprio corpo lo perde davvero. Insiste la Rame, invece, sugli altri segni di violenza: le sigarette spente addosso, il taglio che viene effettuato al golf e di lì alla pelle per 21 centimetri, e addirittura concede attenzione a segnali di origine ambientale – il monologo inizia con “C’è una radio che suona”.
C’è quello che si lamenta che tutti hanno avuto il loro turno e lui no.
In questa opera di infangamento, un’opera in cui uno tiene fermo e che si compie a turno, uno di loro – quello che appunto mantiene ferma la vittima – si lamenta che tutti abbiano avuto il loro turno e lui no.
Come ogni atto pregno, si scatena qui una ridda di significati, che non riguardano solo il durante (tutti hanno avuto il loro turno, lui no) ma il poi (di cui si parla pochissimo).
Quanto tempo ci metterà lei, poi, a pensare di poter fare l’amore col proprio compagno? A pensare di potersi far toccare dal proprio compagno, e a pensare di poterlo toccare? E a pensare di poter toccare un estraneo, e poter farsi toccare da lui? Cosa penserà quando le brucerà far la pipì? Come cambieranno i suoi rapporti di fiducia con qualsiasi uomo? Quanta fiducia avrà in se stessa, sapendo che ciò che è accaduto si è basato su un atto di forza che potrebbe ripetersi in presenza di una forza ancora superiore alla sua? Quanto riuscirà lei a sostenere la possibilità di non esser creduta – il dubbio insinuante che in qualche modo se la sia cercata?
A un certo punto del filmato, attorno ai 9’15” nel link postato, l’attrice si lamenta del dolore ai capelli. “Me li tiravano per tenermi ferma la testa” dice (il testo è qui).
Non è il monologo della Rame l’unico documento artistico che concede rilievo allo stupro. Mi vengono in mente, così su due piedi, “Arancia meccanica” di Stanley Kubrick, “La ciociara” di Vittorio De Sica, “La pelle che abito” di Pedro Almodóvar, “Irréversible” di Gaspar Noé, “Baise-moi” di Virginie Despentes, “Kill Bill 1” di Quentin Tarantino, “Magdalene” di Peter Mullan, “Lila dice” di Ziad Doueiri e la canzone di Luca Barbarossa “L’amore rubato”.
Ma quando ho sentito di quel dolore, di quel dolore ai capelli, e mi son figurato il corpo della vittima, il suo vagare per la città e la paura di denunciare, ho capito, in un modo mio particolare, il senso di una spazzola.
Grazie Ivano, e dàje così.
Una volta un mio fidanzato, dopo avere ascoltato al tg la notizia di un caso particolarmente violento di stupro, se ne uscì con le frasi: “Mi vergogno di essere uomo, chiedo scusa” e altre scose simili. Ne nacque uno dei peggiori litigi della nostra storia a causa del fastidio profondo che mi provocarono queste sue – per me assurde e ingiustificabili – argomentazioni. Che è un po’ lo stesso fastidio che mi provocano le domande che si pone qui l’autore del post… non le condivido assolutamente nel contenuto e le trovo quasi “morbose” (anche se so perfettamente che non lo sono e che l’autore se le pone con le migliori intenzioni). Invece il senso della spazzola nel kit, be’ quello lo trovo anch’io molto significativo come anche la sensibilità di Ivano e della sua ditta che hanno colto la cosa.
OT.
Cara Loredana
ti ho infilata al gabinetto http://theblogaroundthecorner.it/category/ospiti/letture-al-gabinetto/ …
Ilaria, io, leggendoti, ho sempre la sensazione che gli uomini empatici nei confronti delle donne ti trovino estremamente critica. mentre quelli che nei confronti dei femminismi sono violentissimi, criticamente parlando, trovino il tuo consenso. Sensazione, ripeto. Ma molto precisa.
E’ vero che le poche volte che intervengo (qui o da Giovanna) è sempre per esprimere un disagio o una critica; infatti se sono d’accordo col post non sto a intervenire, se (come accade più spesso) non sono molto d’accordo o non so cosa dire idem, invece se qualcosa mi “punge” particolarmente intervengo… quindi in effetti non penso che i miei interventi piacciano alle persone femministe ma non è detto che siano per forza in linea con i non femministi. Però qundo intervengo non è mai per fare polemica ma solo per esprimere un’opinione nel mare delle altre opinioni.
gli interventi Ivan Porpora, oltre che belli, sono davvero importanti.
Ringrazio tutti.
Claudio: Ivano, non Ivan
Ilaria: certo che le domande son “morbose”. Nascondono in sé un “morbo”, come quando hai la febbre al labbro e ci passi la lingua su, sentendo caldo. Il senso di questi post non è erudire – perché io non sono donna e non posso parlare di donne se non ‘a sensazione’. È riflettere, investigare su, tornare e ritornare, chiedersi.
Io a gambe spalancate non sono mai stato. Probabilmente ho conosciuto donne stuprate; di certo non ho mai saputo lo fossero state. Parlo di questo abisso di incompletezza di informazioni e ci giro sopra.
‘Il senso di esser donna’ = una spazzola.

Ok.
Io sono malefico, vi propongo un esperimento mentale. Mettiamo che la violenza sia in senso contrario nella vostra (discutibile) logica binaria. Raramente accade, tuttavia si danno anche casi di violenza femminile su maschi.
Cosa mettiamo nel kit dell’uomo, a cosa corrisponde per voi il ‘senso di essere uomo’?
Chiaramente la spazzola è già definita come femminile, quindi niente. Una rivista di sport? Un set di cacciaviti? Una calcolatrice? Un fermacravatta? Un dopobarba?
Io lascio cadere tutti i discorsi che son fatti solo a scopo di provocazione.
Le domande di Ivano sono le stesse che mi sono fatta io ogni volta e non mi sono mai sentito per questo morbosa.
Come sempre è nello sguardo di chi giudica che c’è la morbosità, non in chi al contrario cerca solo empatia con la vittima.
(Chiedo scusa a Loredana).
Andrea, mi dispiace ma certi giochi intellettuali – che non trovo intellettuali – non solo non mi convincono, non solo non mi divertono ma li trovo pure pretestuosi.
Nessuno ha parlato del senso di esser donna in una spazzola.
Ho parlato – evidentemente, ma a volte l’evidenza di fronte alle provocazioni se ne va – del tentativo di recuperar il senso di esser donna attraverso una spazzola.
Cioè: un mezzo e non un fine.
Io provo molta empatia per la donna, ecco perché mi danno fastidio quelle domande.
@Ivano: sì, capisco la tua posizione e la apprezzo rispetto a chi non si pone neanche il problema. Ma non trovi che anche i tuoi interventi (non solo quest’ultimo) siano portati a concentrarsi sulla donna come vittima enfatizzando il ruolo maschile? Un motivo per cui quelle domande mi danno “fastidio” è che presuppongono che un uomo (o più uomini, come in questo caso) debbano avere una tale potenza da devastare irrimediabilmente la vita di una donna al punto da impedirle di avere rapporti normali col genere maschile o da perdere addirittura la fiducia in se stessa (???) e così via. No. Mi spiace, lo stupro è certamente una delle violenze peggiori che si possano subire e quand’ero piccola pensavo che avrei preferito morire piuttosto che essere violentata (adesso no), ma da qui a metterlo al centro della vita di una donna riducendola a eterna vittima e inchiodandola lì, questo non mi sembra essere dalla parte delle donne. Allo stesso modo mi ha dato fastidio il fatto che nelle commemorazioni per Franca Rame lo stupro sia stato al centro perfino nei titoli dei giornali o dei telegiornali (potevano inserirlo nel testo senza urlarlo nei titoli); certo, lei stessa ci aveva scritto su un monologo, ma non mi risulta che tutta la sua vita possa essere riassunta in uno stupro. L’idea poi che, se una donna è violentata da un uomo poi questo debba influenzare i suoi rapporti col compagno o con altri uomini la trovo sconcertante. Cioè se Tizio mi ha stuprata io devo temere Caio che poveretto non c’entra niente? Devo perdere la fiducia in me stessa (cioè oltre al torto pure la beffa)??? Non riesco a capirti…
Nel gesto di sazzolarsi c’è un prendersi cura di sé che è in primo luogo un volersi bene e un riconoscere a se stesse la propria forza di reagire. In certi casi occorre aggrapparsi a ogni piccola cosa per riemergere, come nella richiesta di un po’ di trucco e di smalto da parte di una malata in ospedale. Non ci vedrei nulla di più di questo – che è moltissimo, per me – e non mi crea problemi sentirlo chiamare “senso di essere donna”, perché lo stupro – quando è compiuto su una donna – è un attacco alla donna in quanto donna, alla sua libertà, alla sua sessualità. Come la violenza domestica.
Quanto agli uomini che dimostrano una certa coscienza di genere, contrariamente a quanto accade alla mia omonima a me suscitano tutt’altro che fastidio, e ringrazio Ivano Porpora. Ho saputo che il libro di John Stoltenberg “Refusing to be a man” è stato di recente tradotto in francese, e mi auguro che lo sarà presto anche in italiano.
Era “spazzolarsi”, ovviamente, chiedo scusa.
Mamma mia Ilaria che confusione che fai!
Non credo che serva Zauberei per dirti che si è proprio così, sicuramente una donna violentata avrà problemi a farsi avvicinare da un uomo, fosse anche il suo che la ama pazzamente.
Non voglio metterci dentro la mia storia personale e per fortuna di violenze di questo tipo non ne ho subite, ma di altre si e ti assicuro che poi non puoi proprio fidarti, ci vuole tanto tempo e più sei giovane più tempo ci vuole e soprattutto un sostegno psicologico. Ma tu che ti sei mangiata viva il tuo uomo perché ha tentato di solidarizzare con la donna vittima, temo che un discorso di aiuto psicologico lo possa intendere solo come un’eresia…
Ilaria, confesso di non capire molto bene. Non credo che Ivano volesse dire che se ti succede una sciagura di quel genere allora “devi” perdere la fiducia in te stessa, “devi” concentrare i tuoi ricordi su quella cosa, “devi” fermare la tua vita a quegli attimi; ma non credo sia sbagliato immaginare che per alcune donne – poche, molte, non lo so – possa essere anche così. Una persona che frequentavo anni addietro aveva subito uno stupro di gruppo e mi raccontava che per anni aveva avuto paure immotivate, vere e proprie fobie, e ci aveva messo tanto a recuperare un’intimità spontanea, non condizionata dall’esperienza vissuta. Poi posso anche capire il tuo fastidio davanti a posizioni che possono apparire – come dire? – dettate da nient’altro che dal politically correct, in qualche modo ipocrite, ma nel post di Ivano di oggi francamente fatico a trovare questa ipocrisia, che magari puoi aver invece letto nelle parole del tuo vecchio fidanzato (anche se non ho la palla di cristallo per sapere come sia andata quella vostra antica conversazione). A me pare, scusa se mi permetto, che la tua sia la reazione comune a molte donne che si fermano alla constatazione che uomini e donne sono diversi – biologicamente innanzitutto – e quindi un uomo non si deve permettere di cercare di capire certi meccanismi, che sono patrimonio esclusivamente femminile. Fosse davvero così, non sarebbe possibile alcuna empatia, mai. E nemmeno tanta grande letteratura.
E’ vero che una donna stuprata non deve essere relegata (o relegarsi) all’eterno ruolo della vittima, ma è altrettanto vero che per uscirne integri nel corpo e nella mente ci vuole tempo e aiuto.
Conosco persone che sono entrate in una profonda crisi dopo un furto in casa perchè il fatto che l’abitazione fosse stata violata aveva gettato ombra sulla sicurezza personale e della propria famiglia…proviamo a immaginare come ci si può sentire quando a essere violato è il corpo?
Perdere la fiducia (in sè stessi e negli altri) mi pare una reazione più che comprensibile almeno per i primi tempi.
E se una spazzola può essere d’aiuto a riavvicinarsi a una parte di sè che ci sembra ci abbiano portato via ben venga.
Io dopo un lungo e difficile ricovero, chiesi un rasoio prima della dimissione.
Mi sentii subito meglio.
Quando anni dopo a mia madre toccò uan sorte simile…le misi il rasoio in valigia perchè non volevo che si sentisse come mi ero sentita io quando mi rividi allo specchio dopo giorni in cui non potevo alzarmi per andare al bagno.
Io avevo 23 anni al tempo del ricovero, e mia madre 52 ai tempi del suo. Non era certo una questione di vanità, quella del rasoio, quanto proprio una questione di recupero della propria persona.
Gentile Elena, se io intervengo su un tema così delicato con argomenti che possono sembrare duri, si vede che sento di avere le cognizioni per poterlo fare. Perciò i tuoi “sicuramente” dosali meglio, grazie. La differenza tra me e te è che io non metto in dubbio che diverse donne possano restare traumatizzate da violenze al punto da avere bisogno di aiuto o da avere problemi con gli uomini; nella “cultura terapeutica” in cui siamo immersi e che ci spinge a sentirci traumatizzati e fragili per i motivi più futili, figuriamoci. Quel che dico io – e che tu invece sembri non volere ammettere – è che non tutte le donne abbiano questa reazione. Non siamo tutti uguali e diverse persone, di fronte allo stesso evento, possono reagire in modi diversi. Anche se sono donne. Sono una donna anch’io, avrà diritto di esistere il mio modo di sentire, oltre al tuo, tanto più che mi sto confrontando esattamente per capire il punto di vista di Ivano.
@Maurizio: sono d’accordo con te, non ho assolutamente pensato che questo post di Ivano sia ipocrita, ho scritto che capisco le sue ottime intenzioni. Ho solo espresso un senso di fastidio per il fatto che le domande che gli vengono spontaneamente in mente siano quelle e gli ho chiesto perché, in quanto ci leggo (ma volevo la conferma o la smentita) delle presupposizioni che personalmente non trovo valide. Sono d’accordo con te sul fatto che ci siano donne che possono reagire così e altre no. Non penso assolutamente che un uomo non debba affrontare certi argomenti, penso il contrario. Tra l’altro sono molte le donne (vedi Elena) che la pensano così. Io non distinguo tra uomini e donne…
Ilaria scrive di non distinguere fra uomini e donne. Piacerebbe poterlo fare anche a me, ma non ripeto qui i vecchi discorsi sulle effettive diseguaglianze perché la sensazione di cui sopra mi porta a credere che neppure davanti ai fatti Ilaria crederebbe che quella diseguaglianza ci sia, perché, probabilmente, non l’ha sperimentata. Tutti i modi di sentire sono legittimi, com’è ovvio, comunque.
A me il post di Ivano piace moltissimo. Davvero, aveccene. Mi è piaciuto molto il focalizzarsi sulla spazzola, e il ripercorrere gli aspetti del monologo della Rame che alludono alla spersonalizzazione.
Sul dibattito successivo. Io spesso, a interventi di uomini sulle questioni sessiste, degli uomini migliori diciamo ho la reazione di Ilaria. Non in questo caso perchè mi pare più preciso della media, ma è una cosa che prescinde, e che organizza la narrazione del maschio femminista. Ivano mi piace molto e spero che sia chiaro che non mi riferisco a questo post e manco ad altri pubblicati – oddio forse quello del culo sopra l’arco – ma per esempio questa reazione me la scatena sofri. E anche che ne so, Carofiglio di un certo romanzo, il poliziotto femminista che fece la lezione al centro antiviolenza e parlò tutto il tempo, togliendo spazio alla donna che doveva dividere il tempo con lui.Si avverte un vantaggio narcisista, un io so mejo perchè parlo male dell’altri maschi, e si organizza la narrazione con la polarizzazione maschio persecutore e cattivo, per cui la mejo cosa è ammetterlo e donna vittima e puarettella.
Ma nello stupro, la realtà dei fatti in alcuni momenti assume disgraziatamente proprio quella forma. Non tanto nella cultura che genera lo stupro e lo assolve, che è appunto condivisa da un gruppo di maschi e femmine, e osteggiata da un gruppo di maschi e femmine, quanto nel nucleo della dinamica. In quel momento, quando si compie i ruoli sono fermi, in specie quando le due parti in causa non si conoscono personalmente, non c’è la relazione familiare. In quel momento, è uno stress come altri per le vittime, e fornisce un disturbo post traumatico da stress, ci saranno le variabili interindividuali, chi un po” più chi un po’ meno, le stesse che si registrano davanti situazioni che procurano malessere simile, ma di fatto ti confronti con uno che ti scopa per ammazzarti, che è pervaso non dalla pulsione di sesso ma dalla pulsione di morte. Che crea questo cortocircuito cognitivo grave – sostenuto dalla disparità di forze. Che la donna spesso è meno forte dell’uomo, e uno è meno forte di molti. Allora, al di la delle variazioni interindividuali, e la donna è vittima, poche storie. Ed è fastidiosissimo, doverlo constatare, ma si fa prima a prenderne atto.
Non so, Ilaria, magari sbaglio ma il tuo non mettere in dubbio “che diverse donne possano restare traumatizzate da violenze al punto da” etc.. suona parecchio di presa per i fondelli quando poi dopo scrivi: “nella “cultura terapeutica” in cui siamo immersi e che ci spinge a sentirci traumatizzati e fragili per i motivi più futili, figuriamoci”. Insomma, dove sta il tuo capire? Mi ricordi un pò quelle persone che non ammettono debolezze, ansie, depressioni negli altri, tutto è esagerato.
Riguardo le domande che trovi morbose, è vero, trovo anch’io che presuppongano lo sfruttamento di una potenza (in questo caso fisica, e c’è, esiste!) da parte dell’uomo, ma credo che per quanto dia fastidio pensarlo questo è esattamente il punto. L’utilizzo di una posizione di forza per piegare.
“recuperar il senso di esser donna attraverso una spazzola.
Cioè: un mezzo e non un fine.” scrive Ivano Porpora.
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Certo.
Però nessun* ha risposto alla mia domanda-esperimento: quale oggetto scegliereste per “recuperar il senso di essere uomo”?
L’esperimento mentale serve per rendersi conto dell’assimetria nell’uso (quindi nel significato e nella performatività) di certe espressioni a seconda della classe sessuale cui sono destinate. Quell’assimetria è significativa di una certa costruzione della differenza.
Del resto Ilaria, seppure su altre espressioni, sta rilevando anche lei l’effetto di costruire proprietà che non esistono realmente e per lei si traducono in una gabbia. Loredana le risponde riportandola a un canone della disuguaglianza (disuguaglianze ‘effettive’), come se ciò che sente Ilaria fosse legittimo, ma oggettivamente irrilevante.
No, Andrea, oggettivamente irrilevante no. Solo che, dagli interventi di Ilaria in altri thread e altri blog, mi rendo conto che i discorsi di genere la trovano ostile. Il che, ripeto, è legittimo “per lei”: a differenza di quanto si pensa e si scrive sui femminismi, non intendo fare il lavaggio del cervello a nessuno. Non dopo anni di post, articoli e libri sul punto: chi vuole informarsi senza il solito pregiudizio della femminista cattiva che vuole limitare la libertà della meritevole fanciulla, ha a disposizione non poco materiale.
Andrea io non ho risposto, anche se la domanda è interessante magari ci torno dopo per due ordini di questioni. Il primo è che il binarismo che connota me, e penso molti commentatori, non si configura come una coppia di interruttori o così o colà, ma come un ellisse i cui due fuochi sono statisticamente più popolati in rappresentazioni che fanno combaciare sesso e genere. Che non vuol dire che non ci siano soluzioni intermedie, soluzioni invertite, ma che in tanti casi le persone si organizzano così mentalmente. Io ci dovrei pensare a cosa ridare a un uomo che ha subito una violenza, forse per esempio una schiuma da barba e un rasoio. Ma potrebbe anche essere una cazzata. Di fatto le donne chiedono una spazzola, non è che la richiesta viene dall’astratto o dal pregiudizio, ma dall’esperienza concreta. Sereno che non ci arrivava nessuno.
Poi perdonami. Io sento il benaltrismo. Tu porti avanti una tematica sacrosanta che è la discussione della prospettiva di genere. Ma qui si parla di stupro, un fenomeno circoscritto – degli uomini sulle donne. Che non vuol dire, non riconoscere che ci siano altre forme di violenza anche ai danni degli uomini o che non sia giusto il tuo discorso. Ma semplicemente è ot, un po’ incrongruo.
Ecco, mi trovo abbastanza in sintonia con Zauberei, per es. Forse se uso questa parola il mio punto di vista sarà più chiaro: resilienza. Non nego affatto che durante uno stupro la donna sia vittima, è un dato di fatto. E certamente non ne uscirà tranquilla e serena, ma – ecco dove concordo con Zauberei – come avviene a tutti dopo avere subito una grave violenza, di qualunque tipo sia. Cioè mi dà fastidio il pensare che lo stupro debba avere un portato più grave rispetto ad altre violenze altrettanto gravi, perché questo va a enfatizzare (secondo me erroneamente) il potere che un singolo uomo può avere sulla vita di una donna.
Inoltre, se (non ci piove!) la donna è vittima nel momento dello stupro, non lo sarà necessariamente per sempre. Non è affatto detto che debba perdere fiducia in se stessa o negli uomini. Ho subito una violenza tremenda? E’ già grave così! Perché devo portarmela dietro per tutta la vita, perché devo lasciare che questo singolo individuo rovini tutta la mia vita e se la prenda per sempre? Lo stesso vale per un bambino abbandonato, per chi è sopravvissuto a un sequestro e così via. In tutti questi casi la reazione può essere: ho subito un trauma terribile, la mia vita ne sarà segnata per sempre, oppure: ho subito un evento terribile, è capitato, adesso assorbo la cosa ma non me ne lascerò condizionare per tutta la vita perché io sono più forte di uno stronzo che mi ha fatto del male e più forte anche di una società che mi vuole relegare a povera eterna vittima. Ecco perché resilienza.
Ilaria, quello che dici immagino sia assolutamente giusto da un punto di vista terapeutico. Fossi uno psicologo (e ci tengo a dire che non lo sono e anzi ne capisco davvero pochino) e dovessi supportare una donna che ha subito una violenza cercherei di far passare esattamente i concetti che tu esprimi. Ma qui si sta parlando d’altro, del sentire immediato, che non necessariamente sarà quello (auspicabile) che tu racconti. Sentire, non ragionare. E’ chiaro che molte vittime di violenza tenteranno di razionalizzare proprio in quel modo; non so se ci riusciranno, però, e tanto meno se ci riusciranno subito. Un conto è raccontarsi una storia, altro viverla. Mi sbaglierò, ma penso che siano davvero poche le donne capaci di reagire istintivamente nella maniera che tu descrivi. Anzi, in generale credo che poche persone siano in grado di divincolarsi così prontamente dal ruolo di vittima nel momento in cui subiscono un abuso, non necessariamente sessuale. Poi dici che uno stupro non è di per sé più grave di altre violenze che una donna può subire: qui mi ritiro, non sono una donna e non sono in grado di giudicare. Personalmente, da uomo, non ho difficoltà a riconoscere che sarei più pronto a sostenere una seduta di tortura piuttosto che un abuso sessuale, e penso che sia così per molti uomini. Per le donne non so, anche se riconosco di aver sempre dato per scontato che tra le infinite sfumature della violenza, fisica e psicologica, gli abusi sessuali abbiano un qualcosa di più torbido e un maggior potenziale di offesa. Insomma, mi apre che quanto tu dici sia più il come “dovrebbe” essere che come “è” in realtà.
Zauberei, secondo me ci sono alcuni problemi in quello che dici.
– La rappresentazione del continuum di genere fa ormai parte dello standard of care; ma allo stesso tempo quel modo di ordinare il genere produce effetti concreti minimi. Uno degli argomenti per disinnescarlo è ciò che mi pare scrivi tu, cioè che c’è una frequenza dei comportamenti e di conseguenza un realismo del senso comune che guida i nostri discorsi e certi fatti sociali cui rispondere. E’ una questione complessa, ma secondo me è un argomento costruito male che non ha davvero una pertinenza col continuum di genere.
– Non esiste dialogo senza carità interpretativa. Ho scritto ‘esperimento mentale’ ‘raramente accade’ ‘sono malefico’. Ho anche scritto un milione di volte che se è ragionevole e giusto parlare di femminicidio, non lo è affatto parlare di un supposto termine analogo al maschile (così come non esiste una supposta ‘eterofobia’ nel senso dell’orientamento sessuale). Quindi ciò che chiami ‘benaltrismo’ – ma riferendoti in sostanza alla fallacia del ‘tu quoque’ – è davvero fuori luogo.
Aggiungo una cosa che mi era sfuggita:
“il binarismo che connota me, e penso molti commentatori, non si configura come una coppia di interruttori o così o colà, ma come un ellisse i cui due fuochi sono statisticamente più popolati in rappresentazioni che fanno combaciare sesso e genere.” [Zauberei]
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E’ riduzionismo pensare che la questione del binarismo sessuale riguardi vissuti in cui non “combaciano sesso e genere”. Casomai quella è stata la chiave, quarant’anni fa, per capire che esiste una dimensione del genere costruita, e più recentemente che esiste una parziale costruzione anche del ‘dato’ sessuale.
Oggi la questione del binarismo sessuale è una prospettiva per capire le persone cisgender. Guardate per esempio quel link che avevo lasciato alla ricerca empirica (mi pare) della Stagi sull’educazione al genere.
Io consiglio la lettura di “Questo è il paese che non amo” di Antonio Pascale, il capitolo in cui parla di Elizabeth Costello di Coetzee. Ma pure “Vergogna”, a questo punto. Capisco i commenti di Ilaria ( con il link ), e la sua giusta contrarietà a ciò che le disse il fidanzato, e un po’ anche alle domande di Porpora. Sono domande legittime, ma dicono ciò che noi pensiamo di un fatto senza in realtà conoscere ciò che pensa l’altro, solo che diventano di fatto ciò che “si pensa” in certi casi.
@ andrea barbieri
il tuo discorso è ragionevole, però la domanda è retorica, e vale a prescindere.
@ Maurizio
credo che Ilaria ( con il link ) sia stata fraintesa, ma semmai dirà meglio lei.
Il problema di “mi vergogno di essere uomo” è che non c’è nessun modo di essere uomini o donne. è un pensiero sessista, seppure fatto con le buone intenzioni. Così come dire “non potrò mai sentirmi come una donna”, oppure “parlo da uomo” o “parlo da donna”.
A proposito di Refusing to be a “man”, si chiama così anche una canzone dei Propagandhi.
http://www.youtube.com/watch?v=lx9UX72eMa0
I’m not going to try to tell you that I’m different from all the rest.
I’ve been subject to the same de-structure of desire and I’ve felt the same effects;
I’m a hetero-sexist tragedy.
And potential rapists all are we.
But don’t tell me this is natural.
This is nurturing.
And there’s a difference between sexism and sexuality.
I had different desires prior to my role-remodelling.
And at six years of age you don’t challenge their claims.
You become the same.
(Or withdraw from the game and hang your head in shame).
I think that’s exactly what I did.
I tried to sever the connections between me and them.
I fought against their further attempts to convince a kid
that birthright can bestow the power to yield the subordination
of women and do you know what patricentricity means?
I found out just a couple of days/months/years/minutes ago.
It means male values uber alles and hey!
Whaddaya know… sex has been distorted and vilified.
I’m scared of my attraction to body types.
If everything desired is objectified then maybe eroticism needs to be redefined.
And I refuse to be a “man”.
Ilaria. Io però ti seguo solo parzialmente. Associo i danni dello stupro alla compagine dei danni dei disturbi post traumatici da stress, con la consapevolezza dell’importanza della resilienza, dell’incidenza dei fattori protettivi, della storia pregressa della persona a cui il trauma capita in sorte. Ma non credo che possa esserci un’assenza di traccia eterna, dopo eventi di questa entità neanche per i caratteri più soliidi. E mi spiace di non essermi fatta capire, ma io non penso che lo stupro sia uguale ad altri tipi di violenza, colpa mia che non sono stata chiara: non lo è. Il passaggio dalla semantica sessuale, fornisce una contundenza in più un messaggio devitalizzante in più, una via diversa nel minare la soggettività di chi è vittima. Si cortocircuita con un dato profondamente vitale e relazionale e questo lo mette su un piano diverso dell’esperienza. In quel senso si, un singolo uomo ha potere su una singola donna, ce l’ha cazzo. Questo è il problema. E un conto è sperare che certe cose siano provate, ma non sono provate, si prova altro. Si prova la negoziazione con quel potere che psichicamente ha vinto – vince sempre, e con una dolorosa dialettica si ricostruisce il proprio. La differenza non è tra chi ci riesce prima e chi dopo, ma tra chi si e chi no. Chi si non di rado, in modo parziale, che spesso mantiene delle aree irrisolte penose. Ci sa campare assieme, ecco la differenza.
In ogni caso, c’è contesto e contesto. Io credo che politicamente, in un’atmosfera di dibattito pubblico refrattaria all’assunzione di responsabilità rispetto a temi del genere, l’ultima cosa intelligente da fare è dire: nun p vero che le donne so traumatizzate, ci hanno la resilienza. E’ una mezza verità utile nei contesti operativi, nelle discussioni complesse del fenomeno, ma in circostanze come questa è prioritario sottolineare la problematicità. Prioritario e realistico.
Andrea noi ci litighiamo sempre e non siamo riducibili a posizioni comune, anche se prob non siamo lontani. Brutalmente a me questo tuo discorso, in questo contesto non mi aiuta. Non mi da strumenti concreti, perchè buona parte delle occasioni in cui si consuma lo stupro, riguarda persone che hanno un rapporto piuttosto banale con le rappresentazioni di genere. Se io do Butler e soci a una donna stuprata quella fidate, me lo tira in testa. Ti sento sempre come destruens ma come costruens? io che ci faccio in questo contesto, per donne giovani ed etero che hanno questo problema? Perchè a disconoscere la LORO prima che nostra semantica di genere, si rischia di cadere in una retorica fredda, avvertita come snob inutile e lontana. Quella dicotomia è il loro linguaggio reale, che è divenuto linguaggio psichico. La ridiscussione è roba sofisticata che in questo momento non può entrare, perchè quel femminile tanto sorpassato e binario e da loro avvertito sacro identitario e violato. E questo è tragico. E’ irrispettoso non prenderne atto, anche se noi leggiamo noi stessi in un altro modo.
ps. Viva shane per aver citato il libro di pascale!
Shane, potrei porre un’altra domanda delle mie: se il discorso è ragionevole, perché mi lasciate solo nel farlo?
Mi ha molto turbata leggere questa frase: ” mi dà fastidio il pensare che lo stupro debba avere un portato più grave rispetto ad altre violenze altrettanto gravi, perché questo va a enfatizzare (secondo me erroneamente) il potere che un singolo uomo può avere sulla vita di una donna.” E non perché io non comprenda il fastidio (per carità, lo comprendo benissimo) ma perché, per quanto sia difficile ammetterlo, ritengo che lo stupro sia un crimine più grave proprio perché legato a quella disuguaglianza cui fa riferimento Loredana, che sarebbe assolutamente controproducente ignorare. E’ fastidioso, ma doveroso ammettere che è più grave.
Dopodiché, che ci sia resilienza è fuori discussione, direi che lo dimostrano i milioni di donne che quotidianamente sopravvivono, anche se, di nuovo, non correrei il rischio di banalizzare la difficoltà del riprendersi solo per non ammettere una vulnerabilità, perché non è che la violenza la cancello negando la vulnerabilità, purtroppo.
Non voglio dilungarmi troppo, ma proprio questa mattina sulla prima pagina dell’International Herald Tribune c’è un articolo su una terapia di gruppo che sta funzionando molto bene con le donne vittime di stupri di guerra nella Repubblica Democratica del Congo, dove lo stupro è un’arma di guerra utilizzata “di routine” e si calcola – i numeri sono tremendi – che il 40% delle donne, circa due milioni, lo abbia subito (il paese è chiamato “la capitale mondiale dello stupro” dalle Nazioni Unite).
“Hundreds of thousands of Congolese females, from toddlers to grandmothers — possibly as many as two million, according to one study — have been raped by rebel fighters or government troops. Notoriously brutal attacks have included gang rapes and penetration with guns, knives and other objects that have torn apart women’s reproductive systems and intestines, sometimes beyond repair.” Sottolineo: da bambine di pochi anni a donne anziane, spesso stuprate con oggetti taglienti, spesso senza possibilità di recupero degli organi coinvolti. E sappiamo che è successo anche in Italia, all’Aquila, per dirne una.
Eppure per molte il miglioramento c’è stato, e con la nuova terapia anche più velocemente che in passato, pare.
Qual è la prima cosa che viene notata e raccontata come esempio di segno di ripresa? Il ricominciare a spazzolarsi. “One woman, she said, initially showed up unwashed, her hair uncombed and her clothing dirty. She was in her 50s, and had been raped a few years earlier. Her husband rejected her and began to see other women, and her in-laws wanted little to do with her.
But after a few therapy sessions she began grooming herself and wearing clean clothes, and thanked the counselor for helping her to realize that she was an important person. Her family had begun to treat her better, she said.
“She started to shine, and they could see past the woman who was raped, who didn’t comb her hair, the one whose fault it was for being raped,” Ms. Jinor said.”
Qui tutto l’articolo (e scusate la lunghezza del commento, ma mi sembrava molto a proposito segnalarlo): http://www.nytimes.com/2013/06/06/health/therapy-for-rape-victims-shows-promise.html?pagewanted=all
Per Andrea Barbieri e tutti, per chiarezza: quando non sono a Roma, o sono lontana dal computer per una giornata intera, attivo la moderazione dei commenti. Non prendetevela per questo, non è rivolta al commentarium ma alle due-tre persone fuori di testa che non aspettano altro. Mi dispiace, ma ormai è una prassi che, mio malgrado, ho dovuto adottare.
Il mio commento è stato scritto questa mattina, ma era in moderazione. Vedo che ora appare dopo altri che non ho intenzionalmente ignorato, anche perché dicono cose che, anche se non le avevo espresse, mi trovano molto d’accordo, e mi riferisco a Zauberei. Anche nell’articolo che ho segnalato, è molto chiaro che le donne riescono a tornare a funzionare all’interno della loro comunità – alcune, non tutte, e fortunatamente, grazie alla terapia, un numero sempre maggiore. Ma non tutte, e stare meglio non significa che è come se nulla fosse successo.
La canzone dei Propagandhi segnalata da Shane la conosco, e trovo che, come il libro di Stoltenberg, non dichiara vergogna biologica ma grande consapevolezza dei costrutti culturali. In questo senso mette, secondo me giustamente, in discussione la costruzione culturale della violenza di genere.
@ andrea barbieri

non ti volevo lasciare da solo, ho scritto brevemente solo per dirti che ti seguo, ma che non ho capito dove stiamo andando, quindi volevo aggiungere altro, ma non trovavo le giuste parole. Ho pensato, “meglio aspettare”. Poi adesso posso scrivere solo dopo le 21.
Cmq ti sbobino quello che ho pensato leggendoti. la risposta è nessun oggetto, perché gli uomini non hanno oggetti o comportamenti così identificativi, se proprio vogliamo provarci direi una sigaretta o una birra, o un sacco da prendere a pugni. naturalmente la spazzola non è stata scelta da qualcuno, è risultata essere un oggetto richiesto. però parlo anche senza cognizione di causa. Di recente Obama è tornato sul problema degli stupri nelle forze armate, stupri che coinvolgono in maniera strutturale anche gli uomini, quindi là c’è la possibilità di conoscere come si comportano gli uomini che sono vittime. Poi almeno in questo caso, la costruzione culturale di un genere fornisce una pezza d’appoggio per la vittima. Oppure magari ogni uomo che dovesse trovarsi in questa situazione avrà un suo modo di fare, non lo so. Ma non è qui che volevi andare a parare giusto?
@ zauberei
@ ilaria ( senza link )
ho da poco cominciato a suonare in un gruppo punk hardcore
@ Loredana
Ti avevo scritto questo messaggio che evidentemente non hai letto (è tra quelli in moderazione):
“Avrai le tue buone ragioni, sarai a Firenze e hai messo tutto in moderazione.
Però ti chiedo il favore di cancellare il mio commento in moderazione di venerdì, 7 giugno 2013 alle 8:00 – e ovviamente anche questo.
Se ho voglia di rispondere, rispondo da un altro sito.
Grazie”
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Quindi mi era chiaro che quando sei lontana metti tutto in moderazione.
Ma se io avevo chiesto di togliere il commento (che non hai tolto) era per un altro motivo: non ha senso che esprima le mie idee nel colonnino di Lipperatura perché a mio parere non è il posto giusto per farle arrivare, ma anzi finiscono per essere avvilite da finte risposte tecniche o da incomprensione silenziosa.
Ho la possibilità di farlo altrove, con persone preparate, penso che lo farò da un altro sito. Tutto qui
@ Shane, infatti non mi interessano i casi di violenza sessuale su uomini da parte di donne o uomini. Non mi interessano perché la sproporzione della violenza maschilista-eterosessista è evidente.
Ho solo riflettuto sul modo in cui si usa l’espressione “senso di essere donna”. Ne ho messo alla prova il significato invitando a mostrare le condizioni in cui si userebbe l’espressione “senso di essere uomo”. (Qui queste espressioni non sono usate nel senso di ‘identità di genere’).
Nessun* è riuscit* collegare un oggetto-simbolo a quell’espressione. Anche la sorpresa nel doversi cimentare in questa cosa è significativa; e probabilmente continuando nell’analisi diventerebbe chiaro che non esistono nemmeno le condizioni per ritenerla pensabile.
Rifletto su queste strane asimmetrie che rivelano, secondo me, l’inconsistenza della griglia del binarismo sessuale per interpretare il genere.
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Scrive Zauberei:
“Andrea …. se io do Butler e soci a una donna stuprata quella fidate, me lo tira in testa.”
Fa bene. Che c’entra la Butler?
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“a disconoscere la LORO prima che nostra semantica di genere, si rischia di cadere in una retorica fredda, avvertita come snob inutile e lontana.”
Questa ha i campanelli, io sono qui a dire che un individuo non è riducibile a una classe sessuale, quindi un discorso sulla ‘frequenza’ è molto pericoloso perché ci si misura con una sofferenza individuale. E attenzione anche all’idea di una ‘semantica di genere’, perché l’idea di cosa sia il genere è molto diversa anche tra persone ‘straight’. Quindi chi è snob e lontano, tu a colpi di riduzionismo e dialetto psicodinamico, o io?
@ andrea barbieri
mumble mumble. Intanto sto provando a fare una torta, quindi te ne offro una fetta virtuale. Vorrei sapere qual è il sito a cui ti riferisci. Ho però una sensazione indefinibile, nel senso che io non trovo nulla di strano in ciò che dici, ma non capisco in che senso il genere vada interpretato. Perché è ovvio che un individuo non lo possiamo ridurre alla sua classe sessuale, ma in questa storia io vedo una pratica molto semplice. Poi quando la nominiamo, usiamo un’espressione semplicistica, che non credo corrisponda a ciò che nomina. E più di tutto non vedo le implicazioni pratiche, cioè non le vedo nel senso che non le conosco, di questo discorso, al di là di quella più immediata di rendere le persone più aperte mentalmente. Scusa se alla fine ti faccio perdere tempo e ti scrivo cose confuse.
Andrea è questo, quando gli dici proprio questa cosa che dici te “l’individuo non è riconducibile a una classe sessuale” in quel momento con quella storia, e con quella circostanza, quelle si incazzano. Al di la delle parole, che nessuno dei due è mi auspico – ma non ci giurerei – così ingenuo da credere che in un dialogo con una donna colpita certe formule verrebbero usate, sia della mia che della tua posizione la questione è l’importanza del genere assunto in tantissimi casi in quella circostanza, l’affetto per la rappresentazione culturale che non è solo degli altri e introiettata ma rielaborata amata fatta propria e ferita. E perciò non è quella la sede, e quindi secondo me manco questa, per discutere con quella sintassi e quella prospettiva, perchè non serve. Aggiungendo pure, finiscila con questo richiamo alla psicoanalisi, perchè qui di analitico non c’è proprio un bel niente, non c’è un solo concetto, ti parlo delle prassi che si applicano nei centri, ad opera di operatori che a volte sono psicologi, altre no, psicoanalisti quasi mai.
Reslienza non sta per cancellazione. E si, la violenza di Lui o peggio Loro (la maiuscola non e’ razionale, e’ che sono grossi, forti, pesanti. Ti tengono, non ti puoi muovere.) ti fa diversa. E non saprai mai che persona saresti stata se non ti fosse capitato. Non perche’ ti perdi, ma e’ una cosa che hai attraversato, vissuto, e non ti puo’ lasciare indifferente. C’e’ un prima e c’e’ un dopo. E nel dopo, cosi’ come nel prima, ognuna ha la sua storia, le sue strade, i suoi simboli. C’e chi ha bisogno di infinite docce, piu’ che spazzole. Altre non vogliono una gonna, per decenni. C’e’ chi torna a sentirsi persona quando le torna la fame, il gusto per quel che le piace mangiare. Resilienza non e’ credere che un altro corpo piu’ grande e forte del tuo, domani, non ti fara’ paura. Non e’ inventarsi che in fondo stai in piedi e quindi e’ come se non fosse successo niente. Resilienza e’ re-imparare a interagire. Con te stessa e con l’altro, separare l’altro maschile da quel/quei maschi violenti che hai incontrato, re-imparare la tua fragilita’ almeno fisica e dove puoi proteggerti, come puoi difenderti. Tornare a sentirti forte, magari addirittura inviolabile, un giorno. Tornare a fidarti, un giorno.
Ma le domande di un uomo che si interroga, pensando a una donna in ospedale, ai giorni che verranno dopo il giorno che ha vissuto, non sono indici puntati, almeno non queste. Sono un tentativo magari ingenuo di ascolto, di apertura. E come tali le trovo rispettose, e non mi irritano, anzi.
Zauberei, tra la presunta citazione che fai tu “l’individuo non è riconducibile a una classe sessuale”, e quel che davvero ho scritto: “un individuo non è riducibile a una classe sessuale”, c’è differenza.
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Il tuo cavallo di battaglia è sostenere che io vorrei far leggere Judith Butler (perché poi proprio lei?) alle donne violentate, quando ho soltanto fatto un esempio della ricerca della Stagi sull’educazione dei bambini verso stereotipi di genere.
Comunque quando discuti mi sembri Rambo. Sei una pubblicità anti binarismo
@ Shane
nel film Lincoln, in assemblea, un tizio che vuole dimostrare l’assurdità dell’abolizionismo dice: di questo passo voteranno anche le donne. Estendere il diritto di voto è “soltanto” un cambiamento di mentalità riguardo al genere: abbattere una differenza sessuale che fino ad allora si pensava ovvia. Altre sono state abbattute dopo. E’ un cammino, e a questo punto va affrontata la questione “perché continuiamo con queste due ceste, quando non riescono a contenere la ricchezza dei corpi e dei ruoli di genere?”. Quando si realizzerà questo cambiamento di mentalità, che comunque tra i giovani è già in atto, si vedranno chiaramente le implicazioni di un’idea.
Il sito è in costruzione, e sarà una costruzione lunghissima…
Andrea, perdonami se mi intrometto, ma io credo che qui nessuno stesse dichiarando irrilevanti le tue precisazioni. Per come la vedo io, è sia questione, come scrive Zauberei, di ciò che molto concretamente si fa quando si accoglie chi ha subito violenza e la/lo si accompagna nel suo auspicabile superare il trauma, sia del fatto che la frase ormai quasi incriminata è una frase che Ivano cita, che lo ha colpito, che si riferisce a donne – indipendentemente da come loro si percepiscono in termini di genere – perché quello è ciò che vede la persona che viene citata. E’ la “pratica molto semplice” di cui parla Shane. Ma non è volontà di ridurre la questione a uno stereotipo, secondo me.
Nell’articolo che ho citato si parla di “grooming”, e io stessa ho semplificato in modo razzista, per fare un esempio. Ho parlato di spazzolarsi, mentre in quel caso è più probabile l’uso di un pettine. Me ne sono resa conto un secondo dopo avere inviato il testo, e anche questo parla di come a volte pensiamo in automatico, ma mi è altrettanto evidente che subito dopo la riflessione più attenta all’altro/a, a non appiattirlo/a sulla mia lettura, è arrivata.
Mia madre è in ospedale in questi giorni, e il desiderio di spazzolarsi e truccarsi è indubbiamente culturalmente determinato, ma è sia qualcosa che la aiuta, sia un gesto che a me conferma il suo attaccamento alla vita, il suo desiderio di guarire, di sopravvivere. Se a spazzola sostituiamo il più generico “grooming” inglese, io credo che possiamo trovare un oggetto per tutti.
Ultimo pensiero sui capelli. Nel racconto di Ivano si parla del dolore alla testa di Franca Rame, del suo uscire dal proprio corpo: attraverso la spazzola c’è un nesso simbolico che è forte, per me, sia in termini della relazione corpo mente sia in termini di tanto che nella nostra storia culturale è legato ai capelli, e per le donne in particolare: il velo e la tonsura, ad esempio, ma non solo. Mi dispiace un po’ che di questo abbiamo parlato poco, a me aveva colpito molto.
Ilaria ti propongo un piccolo ragionamento in modo che tu controlli i passaggi.
– Siccome, come fai notare, esiste una storia culturale che riguarda il genere, e dunque esistono dei fatti sociali che producono comportamenti, sarebbe sbagliato non considerarla una “realtà” (seppure sociale).
– La premessa mi serve per sostenere che l’espressione “il senso di esser donna” si appoggia a una realtà, senza dovermi riferire a dubbie evidenze biologiche o discorsi simbolici non verificabili.
– A questo punto cerco di stabilire una grammatica per quell’espressione – di due regole, – in modo che non generi degli equivoci ed effetti performativi, ma che sia appunto la descrizione di un fatto.
1. Direi prima di tutto che l’espressione coesiste con altre: “il senso di esser uomo”, “il senso di essere altro da uomo o donna” (questa è una cattiva formulazione perché è negativa, prendila come approssimazione grossolana).
2. Le espressioni che ho elencato sopra hanno senso in una narrazione di sé, non come proprietà generali di una classe che viene calata sull’individuo.
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E saluto la mamma. Se chiede ‘E chi è?’ puoi dirle ‘Un tipo che non trova di meglio che fare discorsi strani’
I tuoi discorsi, Andrea, non li trovo affatto strani. Forse non sono stata abbastanza brava a spiegare quanto invece io mi auguri che – e mi attivi perché – molte più narrazioni di sé emergano, in modo che quello che viene calato sugli individui riesca sempre meno a soffocare la loro libertà e le loro scelte. L’unico disaccordo che vedo io è su quanto ciò stesse succedendo in questo caso, sia nel post, sia nei commenti.
Quanto a mia madre, questi discorsi hanno molta più rilevanza nella storia della sua vita di quanto io non voglia adesso raccontare, e l’idea di femminilità che le è stata imposta ha comportato per lei non poche sofferenze. Ciò non toglie che, ironicamente, proprio io che non perdo nemmeno un minuto a pensare a uno smalto, e semmai segnalo il problema di proporlo troppo spesso come, diciamo così (chiedo scusa per la semplificazione enorme e banale), un “must” del modello unico mediatico femminile generico, mi trovo a incoraggiarla se lo chiede. Anche perché quando hai una carotide chiusa, mezzo corpo paralizzato, e però trovi la forza e il desiderio di lasciare che l’altra parte ti guidi a recuperare l’uso del braccio e della gamba, per me va bene anche se il desiderio è quello di truccarsi e vedersi ancora bella in termini molto stereotipati. E non sto criticando dei modelli in generale, incluso l’uso dello smalto, sto parlando a partire dalla consapevolezza del male che quei modelli a lei in particolare hanno fatto. Ma ora è un discorso che passa in secondo piano.
Come sei letterale Andrea, lo so che non diresti esattamente questo. Ma proporresti ragionamenti che hanno dietro questo. Poi ahò ognuno pensasse, e nel caso – lavorasse come crede. Ilaria ha inteso perfettamente quello che volevo dire.
Il testo di Ivano Porpora è così semplicemente bello, di una sensibilità non comune, che non vedo come possa essere interpretato negativamente.
Non capisco quali siano le domande morbose.
Grazie Ivano per aver spiegato il valore di una spazzola.
@ andrea barbieri
ok – grazie – faccio prima io a imparare a fare le torte
manifesto del non-senso dell’esser viv*
“uno specchio si aggira per l’Europa…abolizione della proprietà privata delle spazzole…doppie punte di tutto il mondo: unitevi!”