IL SENSO DI UNA SPAZZOLA

Vi state affezionando agli interventi di Ivano Porpora? Anche io, dunque vi propongo questo. Comunicazione di servizio: domani niente post, sono a Firenze con Michela Murgia e Adriano Sofri per parlare di “L’ho uccisa perché l’amavo”. Se ci siete, vi vedo volentieri.
Anni fa, tra i vari prodotti che proponevo in giro per gli ospedali – ero area manager nel settore della teleria monouso – c’era il cosiddetto kit di prima accoglienza. Si trattava di un articolo per il ricovero ospedaliero composto solitamente da pigiama usa e getta, spazzolino e dentifricio, pettine o spazzola, ciabatte monouso, assorbente, sapone. Era un oggetto dal costo modesto, racchiuso in un involucro di tessuto non tessuto, e che ci veniva commissionato, con piccoli cambiamenti, per i neodegenti che non avessero di che cambiarsi: senzatetto, prostitute, incidentati – di solito.
Ce ne chiesero tantissimi per il servizio di violenza sessuale – prima a Trieste, poi a Milano, poi di lì in giro. Mi facevano fare un po’ di anticamera di fronte a quello che veniva chiamato asetticamente CVS e scoprii essere Centro Violenza Sessuale; poi dichiaravano – altri tempi – che quell’articolo era indispensabile, che quel po’ che c’era da pagare, magari riducendo un po’ il numero degli articoli interni alla busta, l’avrebbero pagato. Mi raccontavano, a Trieste, di quattro stupri denunciati a settimana – nelle settimane di calma. Mi dicevano, lamentando l’eccessiva composizione del kit perché ne potessero acquistare un numero equo, che, fra gli articoli, uno era assolutamente indispensabile: la spazzola.
La cosa mi colpì, e colpì chi in azienda prese in carico la personalizzazione da me richiesta. Pensavamo fosse indispensabile il pigiama, per coprirsi, o forse uno qualsiasi degli altri articoli per l’igiene personale. L’assorbente, magari. Le ciabatte, piuttosto, per camminare.
Mi dissero invece “Le donne devono recuperare, per prima cosa, il senso di esser donna”.
Era una frase bellissima da sentire, pregna di dolore. Una frase che mi atterriva, ogni volta che la sentivo o la pronunciavo: come se una parte di me capisse finalmente come ci fossero, da qualche altra parte nel mondo – ma una parte di mondo innervata nella mia parte di mondo -, persone che quel senso di esser persone lo avessero perso.
Certo, avevo l’esempio dei bambini dell’Africa, che ci venivano indicati a tavola come mirabili induttori di senso di colpa, ma – lo capii ben presto – si trattava di un esempio estremamente deviato: come pormi responsabile di uno spreco che si era ingenerato non a causa mia ma di chi mi aveva messo nel piatto ben più di quanto potessi o volessi mangiare?
Il ricordo della spazzola mi è venuto in mente qualche giorno fa, rivedendo, in occasione della morte di Franca Rame, il monologo che tenne a Fantastico 1988 sullo stupro. Monologo inquietante e che, a ben vedere, pare quasi mettere in secondo piano la vicenda dello stupro in sé – ossia: la violenza carnale che viene effettuata da parte di un individuo, solitamente uomo, ai danni di un altro individuo, solitamente donna.
La Rame spersonalizza la fase della violenza, come si dice avvenga: parla di un corpo che non è il suo, di alienazione. Come quella paziente di Oliver Sacks che sogna di staccarsi dal proprio corpo e il giorno dopo il rapporto col proprio corpo lo perde davvero. Insiste la Rame, invece, sugli altri segni di violenza: le sigarette spente addosso, il taglio che viene effettuato al golf e di lì alla pelle per 21 centimetri, e addirittura concede attenzione a segnali di origine ambientale – il monologo inizia con “C’è una radio che suona”.
C’è quello che si lamenta che tutti hanno avuto il loro turno e lui no.
In questa opera di infangamento, un’opera in cui uno tiene fermo e che si compie a turno, uno di loro – quello che appunto mantiene ferma la vittima – si lamenta che tutti abbiano avuto il loro turno e lui no.
Come ogni atto pregno, si scatena qui una ridda di significati, che non riguardano solo il durante (tutti hanno avuto il loro turno, lui no) ma il poi (di cui si parla pochissimo).
Quanto tempo ci metterà lei, poi, a pensare di poter fare l’amore col proprio compagno? A pensare di potersi far toccare dal proprio compagno, e a pensare di poterlo toccare? E a pensare di poter toccare un estraneo, e poter farsi toccare da lui? Cosa penserà quando le brucerà far la pipì? Come cambieranno i suoi rapporti di fiducia con qualsiasi uomo? Quanta fiducia avrà in se stessa, sapendo che ciò che è accaduto si è basato su un atto di forza che potrebbe ripetersi in presenza di una forza ancora superiore alla sua? Quanto riuscirà lei a sostenere la possibilità di non esser creduta – il dubbio insinuante che in qualche modo se la sia cercata?
A un certo punto del filmato, attorno ai 9’15” nel link postato, l’attrice si lamenta del dolore ai capelli. “Me li tiravano per tenermi ferma la testa” dice (il testo è qui).
Non è il monologo della Rame l’unico documento artistico che concede rilievo allo stupro. Mi vengono in mente, così su due piedi, “Arancia meccanica” di Stanley Kubrick, “La ciociara” di Vittorio De Sica, “La pelle che abito” di Pedro Almodóvar, “Irréversible” di Gaspar Noé, “Baise-moi” di Virginie Despentes, “Kill Bill 1” di Quentin Tarantino, “Magdalene” di Peter Mullan, “Lila dice” di Ziad Doueiri e la canzone di Luca Barbarossa “L’amore rubato”.
Ma quando ho sentito di quel dolore, di quel dolore ai capelli, e mi son figurato il corpo della vittima, il suo vagare per la città e la paura di denunciare, ho capito, in un modo mio particolare, il senso di una spazzola.

54 pensieri su “IL SENSO DI UNA SPAZZOLA

  1. Ilaria, secondo me non c’è disaccordo. Con tua madre ti comporti benissimo. La sua espressione identitaria è sacra e tu la tratti con attenzione. Quel che difendo NON è una sorta di normatività opposta a quella binaria, irrealistica, in cui le persone vengono spossessate del rapporto col loro corpo, con ciò che sentono come identità e ruolo di genere, della loro psicosessualità. Difendo un’antropologia della varianza umana. Il senso di essere donna o uomo o altro, e ogni altra determinazione attinente l’identità sessuale, ce le raccontano gli individui, ognun* arricchendole delle proprie peculiarità; non le calano dall’alto tizio o tizia in base a ipotesi statistiche tra l’altro con strumenti di ricerca empirica più che discutibili. Pensa a quanto c’è voluto alla psichiatria per accettare che l’orientamento sessuale abbia naturalmente una varianza, e ancora oggi si servono della coppia di idee-cetriolo omosessualità-eterosessualità che replicano la loro fissazione per il binarismo, ovvero la fissazione di ridurre la ricchezza della realtà. Quindi c’è tanta strada da fare.

  2. ehehe, sei fortunato che è finita. L’ho offerta a un amico, se non finisco dietro le sbarre ci riprovo. Poi non ti ho detto che era vegan ( sul sito ci sarà lo spazio anti-specista? ).

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