Questa mattina ho letto un’intervista a una psicoterapeuta che, in sostanza, ammonisce le ragazze a diffidare dell’ultimo appuntamento con l’ex. Nel dettaglio, dice Virginia Ciaravolo:
«C’è una sorta di inconsapevolezza di fronte al pericolo. Tante vanno all’ultimo appuntamento senza minimamente immaginare cosa può accadere. Perciò è importante rimarcare sempre, senza mai abbassare la guardia, che la violenza maschile è ovunque. Il bruto non è solo nei titoli dei giornali. È a scuola, nelle discoteche, in strada, nei gruppi di amici. È nell’uomo che parla di amore».
E’ una lettura che mi sconcerta. Come si fa a immaginare non solo una responsabilità, sia pure velata, da parte di chi accetta un incontro per chiarire? Come si fa a suggerire che ci si deve muovere, da adolescenti e giovani, in un mondo dove il maschile si identifica con il bruto? Una cosa è parlare di patriarcato, che esiste, non è morto e continua a fare danni, un’altra è pensare che chi ti parla d’amore può ammazzarti sempre e comunque.
Poi, ho molte amiche che sostengono la necessità della difesa personale da imparare presto, prestissimo, per quanto riguarda le ragazze.
E io capisco tutto e immagino che ci sia una parte di ragione o forse una ragione intera, ma penso anche che non dovrebbe essere così, non dovremmo immaginare un mondo così e non dovrebbero immaginarlo le ragazze e le donne.
Ma nemmeno i ragazzi.
Qualche mese fa, Jennifer Guerra scriveva su fanpage dell’abbassamento dell’età dei giovani violenti: “Un rapporto del 2024 di Save The Children evidenzia come tra gli adolescenti ci sia una propensione al controllo all’interno delle relazioni, specie attraverso i social, e che persistono stereotipi radicati. Chi si occupa di violenza di genere e ne va a parlare nelle scuole riferisce una sorta di regresso, o la percezione di un divario tra le opinioni delle ragazze – sempre più consapevoli e informate – e quelle dei ragazzi – che sono sempre più ostili e vanno subito sulla difensiva”.
Ed ecco il punto: come ci si arriva a quei ragazzi? Scrive ancora Jennifer Guerra:
“Una parte di responsabilità va ascritta alla cronica assenza di educazione sessuale e affettiva a scuola, in uno dei pochi Paesi rimasti in Europa a non prevederla nel calendario scolastico. Dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, il ministro dell’Istruzione Valditara aveva lanciato il progetto “Educare alle relazioni”, mal concepito ma comunque mai avviato, e molto osteggiato dal fronte anti-gender che lo reputa una forma di indottrinamento. Ma la prevenzione, su cui comunque non si investe abbastanza, è un contenitore che può essere riempito di tante cose diverse, ed è qui che sta la parte più difficile di questa responsabilità.
La prevenzione che abbiamo conosciuto da quando il nostro Paese ha firmato il primo piano anti-violenza nel lontano 2013 è quella delle panchine rosse, degli inviti a chiamare il 1522, dei “Denunciate!” e dei “Se ti picchia non è amore”. Messaggi che sono serviti senz’altro a creare consapevolezza del fenomeno della violenza di genere, ma che forse meritano di essere rivisti o superati. Non solo perché il messaggio è arrivato soprattutto alle donne (che in effetti sono più propense a rivolgersi alle forze dell’ordine o ai centri antiviolenza) e quindi ha mancato il vero obiettivo della sensibilizzazione – cioè gli uomini – ma anche perché non dice quasi nulla a questa nuova generazione di possibili vittime e possibili autori di violenza”.
Dunque bisogna insistere perché nelle scuole si parli, nei modi giusti e con le persone giuste e nelle giuste circostanze, di tutto questo, liberandosi dalle pressioni dei cosiddetti Pro-Vita e dei fondamentalisti che agitano lo spettro del gender quando si parla di educazione sessuale e affettiva nelle scuole. Certo che non è risolutivo, certo che bisogna lavorare su tantissimi livelli: ma da qualche parte si deve pur cominciare. E gli spettri, veri, da agitare, ci sono: sono quelli delle ragazze e delle donne che mentre ministri e ministre temporeggiano e fanno distinguo sono morte davvero. E non saranno le ultime. Purtroppo.