IL VIAGGIO DEL TRENINO

Novembre, giorno sei. Sotto il diluvio, esce oggi Questo trenino a molla che si chiama il cuore. Se qualcuno avesse domande sul titolo, la risposta è in una delle più famose poesie di Fernando Pessoa, Autopsicografia:
Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
che arriva a fingere che è dolore
il dolore che davvero sente.
E quanti leggono ciò che scrive,
nel dolore letto sentono bene
non i due che egli sentì,
ma solo quello che non gli appartiene.
E così sui binari in tondo
gira, per intrattenere la ragione,
questo trenino a molla
che si chiama il cuore.
C’è un motivo, nella scelta. I motivi, in effetti, sono tre, e si intrecciano in un luogo, che è la Val di Chienti, Serravalle, casa: un luogo che sta cambiando, e per sempre, sfregiato dai piloni della Quadrilatero. Si arriverà prima al mare, è vero, ma quelle gole, quelle montagne, non saranno più le stesse. Ognuno valuti se il gioco vale la candela: quello che racconto nella prima parte del libro è come è stato condotto quel gioco, a partire dai giorni del terremoto del 1997.
Allora è un libro “civile”, un saggio, un’inchiesta? No e in parte sì. E’ una storia, e come una storia viene narrata, in prima persona. Perché il secondo filo che va a intrecciarsi è quello della memoria, di mio padre che a Serravalle è nato e lontano da Serravalle è morto, e di cosa significa diventare adulti senza un padre, e tornare sui luoghi della propria infanzia quando si è già madri, e di come le cose girano in tondo, e fuggono con il tempo, perché arriva un momento in cui ci si rende conto che non è vero che il tempo ci appartiene.
Allora è un memoir? No e in parte sì. Perché ci sono le storie della Valle, e più lontano quelle dei Sibillini, e il girotondo del trenino racconta di come ogni magia della Signora della grotta, quella che attende l’eroe sotto il Monte Sibilla, sia stata trasformata in miracolo, e infine la Signora e la Madonna diventino una.
Allora è un libro sulle donne? No e in parte sì. Perché è anche una riflessione su cosa significhi avere un doppio e cosa significhi scrivere e leggere fantastico, perché anche questa storia è nata nella Valle, e se questa è la parte che attirerà il pettegolezzo e in certi casi (prevedibili) l’insulto, non importa, perché solo in un racconto poteva essere narrata, e altro non dirò. Perché quel che dovevo dire l’ho già scritto.
Allora è un’autofiction? No e in parte sì. E’ tutto questo insieme ed è soprattutto un atto d’amore: per i luoghi e le persone che li abitano, per mio padre, per Chiara, per la Signora dal freddo sorriso, per le storie stesse.
Per anni ho scritto del mondo che vedevo: quello delle donne, quello della rete. Questa volta ho scritto del mondo che è nel mio cuore. Non è uno spartiacque, o forse sì, ma un passo necessario. Ognuno lo accolga come crede: quel che posso dire è che questa sono io, fino in fondo. E sono felice di consegnare a chi legge la me che ha dormito nell’ombra.  Quella, direbbe Pessoa, che non mi appartiene.

14 pensieri su “IL VIAGGIO DEL TRENINO

  1. Arrivo qui.
    Scopro che qui scrivi di cosa diversa da quella che sei solita scrivere.
    Ok.
    Per me sei questa.
    Per forza di cose.
    Questa che esce da queste righe.
    E poi.
    Ecco.
    Ritrovo che c’è un dio dentro.
    E lo ritrovo in “arriva a fingere che è dolore
    il dolore che davvero sente”.
    Sorrido.
    E mi richiudo…
    Così come sono arrivato.
    Così me ne torno.

  2. E’ un bellissimo post. Mi piace molto quel che dici, tra tutte le parti di te rappresentate c’è anche quella che combatte in questo caso per una zona che veramente non sarà più la stessa! Staremo a vedere. Inoltre porterai finalmente un tradizionale e caro trenino proprio da quelle parti – spero!

  3. A volte il Daimon può essere perso di vista, non coltivato, accantonato, ma prima o poi tornerà per possederci totalmente, per definire la nostra immagine, per far emergere quello che chiamiamo il “me”.
    Buon viaggio al trenino 😉

  4. D’accordo. La risposta è che non lo so con certezza, e non ho la presunzione di immaginare che non lo sapesse neanche Pessoa, ma mi piace pensarlo. Non un dio, comunque. Perché il treno che intrattiene la ragione è, per me, la parte della nostra vita che la ragione stessa si compiace di osservare come un gioco. E che invece è più importante della nostra esistenza sotto la luce.

  5. I luoghi degli affetti più cari oltraggiati e lesi è come una ferita dentro il proprio cuore! Il libro ci riporta ad atmosfere intime ed a ricordi passati legati a quei luoghi, quando erano ancora intatti, e ci racconta la consapevolezza odierna e recuperata dell’amore per essi insieme al dolore per immaginarne la fine. Bellissimo!

  6. Ho appena terminato di leggere “Questo trenino a molle che si chiama cuore”. L’ho letto tutto d’un fiato. E’ molto scorrevole e anche coinvolgente. Per me in particolare, specialmente quando ricordi gli ultimi giorni di vita di Chiara. Molto ricco di contenuti, che può essere letto in diversi modi. Per chi non conosce le Marche, come me, e in particolare la Val di Chienti, è la curiosità di conoscere a motivare la lettura e in questo senso può essere letto come una guida, non turistica, ma di viaggio. Una guida, per intenderci, non del turista frettoloso dei viaggi organizzati, ma del viaggiatore che, alla fine del soggiorno, fa propria la località visitata. Nello stesso modo come viaggiava Chiara.
    Inoltre riesci a descrivere in maniera esemplare il passaggio della Valle dalla società rurale alla società attuale, piena di tante contraddizioni e anche tante penalizzazioni. Tanto che la terra di confine più che “limen” (confine d’incontro) – metaforicamente la molla del trenino si distende – molte volte diventa un “limes” (confine di scontro) – la molla si contrae -. Così questa dualità che vedi anche nei luoghi geografici (il tempio antico che diventa chiesa, ecc…), la trasferisci anche nei luoghi interiori. E in questo senso riesci a fornire al lettore anche una sorta di ulteriore guida per addentrarsi nei propri luoghi interiori, sempre in lotta tra “limen” e “limes”. Per continuare la metafora della molla, con un cuore che si chiude in se stesso o si apre completamente.
    E’ anche un libro che parla della morte, come ne parlava Chiara. Non lontana e distaccata. Non nemica e avversaria come nel Settimo sigillo di Bergman. Ma sorella. Sorella morte di francescana memoria. Del resto Chiara, citando Agostino d’Ippona – mi sembra le Confessioni – ricordava che noi umani siamo o vivi mortali o morti viventi. E nel tuo libro tutti i morti che ricordi sembrano essere in vita. Anche se, come scrivi, “non tornerà nessuno dalla morte”. Purtroppo. Grazie.

  7. Credo di essere stato il primo ad averlo acquistato a Macerata: il mio libraio di fiducia me lo ha preso dall’imballo appena arrivato in libreria, profumava ancora di inchiostro e aveva le copertine appiccicate ai libri che lo accompagnavano. Mi sono subito fiondato a pagina 67, per rivivere l’evento che ha marcato ogni maceratese che lo ha vissuto: il terremoto del 26 Settembre 1997, la notte del mio 30simo compleanno… e da lì mi sto dipanando con voracità. Fa un certo effetto leggerti, cara Loredana, soprattutto quando i luoghi e le situazioni che racconti o che fai raccontare da chi citi sono così familiari al Sottoscritto (i miei sono di Camerino e Sarnano-Macerata, fin da piccolino ho frequentato i Sibillini): adesso non mi resta che (tentare di) capire “il dolore che non ti appartiene” ma che è più vero di quello reale e di quello finto, per dirla con la poesia di Pessoa che ha ispirato il bel titolo del tuo libro.
    P.S.: Alternerò la lettura con quella della nuova traduzione integrale delle fiabe e delle storie di Andersen, riempiendo gli occhi con le sue illustrazioni e con quelle di Paolo D’Altan per “Pupa”. Così, per contrappuntare o per sottolineare di volta in volta quel che hai scritto.

  8. Cara Loredana, ci rivedremo alla Biblioteca Filelfica di Tolentino questo sabato! Per me sarà un gran piacere, a libro letto. 🙂

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