SIATE FRAGILI

Ieri, a Fahrenheit, Paolo Nori ha raccontato un aneddoto che si trova anche sul suo blog. Questo:
“… hanno chiesto a me e a Ugo (Cornia) di scrivere un racconto proprio che avesse per tema proprio la morte, per un’antologia che si doveva chiamare, quella sì, Tra poco saremo tutti morti. Quando sono andato alla presentazione di quell’antologia e ho preso in mano il libro, mi sono accorto che il curatore aveva cambiato il titolo, l’antologia si intitolava Racconti di un giorno che sai. Quando sono andato sul palco, eravamo a Modena, alla biblioteca Delfini, se non ricordo male, forse ricordo male, una volta sul palco avevo detto che c’era da chiedersi cosa sarebbe successo se Thomas Mann avesse intitolato il suo racconto Un giorno che sai a Venezia. O Tolstoj, il suo, Un giorno che sai di Ivan Il’ič.
Dentro quell’antologia, qualche giorno dopo, avrei trovato un breve testo di Dario Voltolini in cui ci sarebbe stato scritto: «Mio papà è morto da tanti anni, eppure nella mia mente, ma nel mio corpo altrettanto, riconosco un movimento che ha a che fare con lui. Che è lui. La morte e la vita, diciamo spesso con una frase semplice, sono aspetti della medesima cosa. E per quanto possiamo complicare la faccenda, è poi questa semplicità a dirci qualcosa di essenziale, non certo le complicazioni. Tutto il dolore per la perdita di mio padre, tutto il dolore provato da lui, tutto il dolore che c’è, è qualcosa di forte. Dovessi dire che si è affievolito con il passare degli anni, mentirei. Certo, è mutato. Ma permane e questa permanenza ha a che fare con il tempo e con me più che ogni considerazione astratta, intellettuale o letteraria che io possa fare. Noi sappiamo così poco. E quel poco che sappiamo cerchiamo di dimenticarlo. Per fortuna non ci riusciamo».”
Però ci proviamo, a dimenticare.  Sempre a Fahrenheit, ieri, ne abbiamo discusso a lungo, abbiamo cercato di raccontare  come il dolore sia qualcosa che cerchiamo nelle storie altrui e nelle pagine dei libri, e che tendiamo a respingere quando ci è vicino. Quando lo vediamo. Quando qualcuno ce lo ricorda, e dice (osa dire) “sto male”. Allora, ci ritraiamo come se il contagio del dolore si estendesse a noi, ritenendo intollerabile la fragilità della persona che abbiamo davanti e che non vogliamo fragile, la vogliamo così come la conoscevamo, sorridente, allegra e forte.
Non so quanto un trentennio di culto della vittoria, dell’efficienza e del successo ci condizioni in questo. Molto, mi verrebbe da dire. Dover esibire la corazza dei Cavalieri dello Zodiaco di cui parla Zerocalcare in Dimentica il mio nome, o la facilità, anzi, l’abilità con cui si supera il dolore, il lutto, la paura, alza il nostro punteggio.
Eppure, credo che la fragilità stia esattamente nel negare la fragilità. Un’amica, ieri, mi ha scritto una frase bellissima: “ i giapponesi rinsaldano con l’oro le fratture delle ceramiche”. Noi gettiamo le ceramiche rotte, temo. Faccio solo un esempio. Chiarelettere ha pubblicato circa un anno fa Sia fatta la mia volontà, un libro straordinario di Marina Sozzi (che ha anche un blog parimenti straordinario, Si può dire morte). Non l’ha recensito quasi nessuno. Nominare significa rendere reali, si sarà pensato. Ma la morte esiste, e si sconfigge solo con la parola, e con la memoria che alla parola è legata. Non con il silenzio.
Non siate affamati e folli. Siate fragili. E rivendicatelo.

13 pensieri su “SIATE FRAGILI

  1. E’ che si ha molta paura, fragilissima paura di soccombere anche a un tipo di sconquasso mentale provocato da un trauma forte, ovvero un lutto – qualunque esso sia (cioè anche la morte di una parte di noi). Non abbiamo più molto tempo per l’elaborazione. Siamo più soli, anche fisicamente, senza le famiglione patriarcali a circondarci. Ma dovremmo anche aver sviluppato più capacità di comprendere tutto questo. E invece c’è molta paura di perdere una immagine di se e di se stessi presso gli altri. E poi forse speriamo di vedere nell’altro il ‘vincitore’ sul trauma della morte, perchè è vero che esiste un modo per accostarsi al dolore, ed è il lasciarsi cambiare… Ma accidenti, è un lavoro duro di tutta una vita. Ma tutto questo non c’entra niente con un aspetto che rimane orribile e inaccettabile: come si affronta la morte negli ospedali e nei luoghi di cura da parte di persone frettolose e incompetenti. Questo sì è un (nuovo?) trauma. Credo che il libro di M.Sozzi sia fondamentale, se come sembra, affronta anche questo.

  2. Mi sembra che anche il titolo originario che Ugo Cornia voleva dare al suo primo romanzo, che poi si è chiamato “Sulla felicità a oltranza” ed è a tutti gli effetti un testo tutto basato sulla elaborazione del lutto per la morte dei genitori, avesse un titolo simile (che è stato appunto non accettato dalla casa editrice). Ed è un libro che consiglio vivamente a chi ha perso persone care (ma non solo: è davvero un bel romanzo in quanto tale)… io l’ho regalato spesso ad amici che stavano soffrendo. Io noto che da un lato oggi la fragilità è da un certo punto di vista “sdoganata”, ma per le cose futili, quando può essere “pucciosa”, tenera. Ma quando si tratta di affrontare realmente il dolore profondo come la morte o la malattia, si alzano muri, barriere di paura inconfessata. E da qui la solitudine, sia di chi sta male sia di chi non riesce a stare accanto a chi sta male.
    Mi ha sempre fatta sorridere questa cosa che Pavese ha scritto sul suo diario ed è molto vera:
    “Un uomo che soffre lo si tratta come un ubriaco: “Su, andiamo, basta, via, ora basta, non fare così, basta…”

  3. E’ il grande tabù del nostro tempo . In pubblico ci si inventa tutti i più assurdi giri di parole per evitare termini precisi ( “morte”- “malattia”- “menomazione” etc ) . In privato il dolore lo si vuole “addomesticare ” con le pillole o con i diversivi …Tutti mascheramenti di eventi gravi forti la cui portata devastante ( fisica e/o psicologica) rischia di travolgerci. E invece no – le maschere al reale non servono . Rivendichiamo davvero il diritto al dolore , alla perdita e al lutto . E’ la nostra vita e dobbiamo guardarla in faccia senza travestimenti ed edulcorazioni . E combattere.

  4. penso che non potrò mai scordare le due ore nella corsia del pronto soccorso con mio padre, in quella che sarebbe stata la sua terzultima notte, tremante sulla barella divorato dalla febbre della broncopolmonite classica che accompagna la consunzione che mi teneva la mano, trascurato dal personale di servizio a causa di una interpretazione spietata delle regole del triage

  5. Eugenio Borgna aiuta a riflettere nel suo “La fragilità che é in noi” .Molto meglio riconoscerla e valorizzarla che rimuoverla da noi stessi e dalla società.

  6. Mi è sempre piaciuto chiamare le cose col loro nome. Mio padre non è mancato a causa di una malattia incurabile. Mio padre è morto perché aveva il cancro. Trovo sia una questione di rispetto verso noi stessi e verso la memoria dei nostri morti. Sarà per questo che parlo da sempre di morte coi miei figli e loro non ne risultano minimamente scioccati. Andare al cimitero è naturale come andare la domenica a pranzo dalla nonna.

  7. Aggiungerei la visione del bellissimo “Bella addormentata” di Marco Bellocchio: andrebbe proiettato in tutte le scuole e visto da ognuno di noi.

  8. A proposito di “bella addormentata”:certo Luca passarlo nelle scuole.ma la prima “educazione” (intesa all’inglese)passa dalle famiglie.le visite al cimitero ai parenti defunti sono un primo passo.dire che il nonno o il tal parente e’partito per un luogo lontano e’ un’assurdita’che generera’altre assurdita’…Io ricordo che andare al cimitero a trovare i nostri cari non piu’in vita era una specie di festa.
    E la morte faceva parte del tessuto della vita familiare.forse e’solo grazie a questo che ho potuto comprendere la complessita’spesso sfuggente della vita adulta.e di cio’devo ringraziare la mia famiglia c che ha saputo insegnarmi la morte.

  9. Complimenti per la bellissima puntata di Fahrenheit, che ho ascoltato in auto (andando a Marina di Carrara a lavorare in un posto che poche ore dopo è stato allagato). Pensavo con qualche tristezza che si fa fatica a costruire – mi pare – un confronto di simile pacata ricchezza sul razzismo che dilaga, o sulla deumanizzazione degli adolescenti, così intrisa nel discorso quortidiano. Speriamo di riuscirci, un giorno. Intanto però voglio contribuire ai riferimenti bibliografici, ricordando il bellissimo, delicato, ironico “Finte”, di Paolo Teobaldi, dell’ed. e/o, di una decina d’anni fa. Finte, appunto,rituali e strategie di fronte alla morte di una persona cara.

  10. Da poco mia mamma non c’è più. Dire che rivive in me che “riconosco un movimento che ha a che fare con lei” é nel quotidiano. Quella che mia mamma é stata come donna è una domanda di ogni giorno . Già ,era “la mamma” , non volevo , non sapevo capire altro. Me lo chiedo ora , lo scopro . La sua reticenza , il mio non vedere si disvela oggi. Chissà.

  11. Ci voleva davvero un trentennio di culto della vittoria dell’efficienza e del successo per titolare un libro “Sia fatta la mia volontà”. Per capirlo nella sua ingenua presunzione, basta immaginarsi in copertina il sorriso del famoso bellusconi; Sia fatta la mia volontà. o meglio ancora, lo sketch di quello che gli faceva tipo la parodia; Cetto la Qualunque; Sia fatta la Mia volontà. ( olè)
    Certo che è difficile parlarne, per esempio il titolo dell’antologia di cui parla Nori, mi sembra molto più potente nella sua versione finale ( racconti di un giorno che sai) che in quella originale.
    Si è stata depennata la parola “ morte, ma a volte e specie su certi temi, la letteratura non deve pretendere di avere l’immediatezza di un libretto dell’istruzioni, ma piuttosto tentare di accompagnare il lettore di fronte.
    Tra poco saremo tutti morti” poi , più che al conosciuto evento, rimanda al demenziale, agli scherzi tra adolescenti, alla paurosa banalizzazione commerciale delle feste ammericane.
    Ciao,k,

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