IN TEMPI DI PESTE

Sembra difficile, ma non lo è così tanto. Gironzolando per il web, in questi giorni mi sto rendendo conto che, complice la levata di scudi “oddiolefemministecicensurano” dei giorni scorsi, il discorso è ormai inchiodato all’equivalenza parole responsabili=limitazione della libertà individuale. Mi è capitato di leggere argomentazioni come “manca solo che un hacker ammazzi una donna e siamo rovinati”, o “magari finiremo per avere una buona legge sul femminicidio ma saremo meno liberi”. E così via.  Volenti o nolenti, si sono formati due schieramenti che non comunicano. E dal momento che la cosa mi par grave, provo a fare un esempio di cosa si intende per assunzione di responsabilità individuale, chiamando in causa Giuseppe Faso e spostando il discorso sul razzismo (magari così si capisce meglio) e riproponendo qui un dialogo da lui scritto per un blog nel 2009. “Abbiamo imparato da Boccaccio che in tempi di peste e di disgregazione civile solo i racconti curano, rifocillano, riaprono alla comprensione della pluralità”, ha detto. E’ così. Leggete.
Di colore
La ragazza si ferma un attimo, in difficoltà. Il compito che si è assunta è più impegnativo del previsto: raccontare un cortometraggio di sessant’anni fa, che è stato mostrato alla classe, e bloccato due minuti prima dalla fine dall’insegnante: una strana storia di una vecchietta che perde il treno, prende un’insalata al self-service e poi si accorge che non ha la forchetta.
“Prende la forchetta, ritorna al suo tavolo, e là, davanti all’insalata, vede un… uno di colore..”
“Di colore? di che colore?” la interrompe l’insegnante.
“Di colore !” Fa lei.
Ma l’altro: “Che cosa intendi quando dici ‘di colore’?”
“Nero ! vede uno di colore che mangia con gusto la sua insalata, e…”
“Ah, uno nero di pelle… E perché hai detto ‘di colore’?”
“Dico così perché si offendono”.
“Chi? Chi si offende?”
“Loro!”
“Loro chi? quelli di pelle nera?”
“Si, se li chiamo neri si offendono. Allora dico ‘di colore’; c’è questo vecchio di colore davanti all’insalata, e…”
“Non capisco, scusami: ti è successo di dire ‘nero’ a una persona che se ne è offesa?”
“Certo!”
“E allora l’hai chiamata di colore e non si è offesa? E quando ti è successo?”
“Non una volta: sempre…”
“Fammi capire. Tu hai tanti amici neri di pelle, e…”
“No, non amici: conoscenti”
“Si, scusa: conoscenti. Tu conosci tante persone nere di pelle, e ogni volta che li hai chiamati neri, loro si sono offesi. Se invece li chiami ‘di colore’ non si offendono?”
“E’ così!”
“Mi sapresti dire una volta che è successo, con il nome e il cognome della persona che ha preferito essere chiamata ‘di colore’?”
“Ma è successo tante volte…”
“Appunto per questo, ti chiedo dettagli su una sola volta. Non ho bisogno per crederti di cento testimoni. Basta che tu mi dica, che so…Una ragazza, si chiama Aicha Mbacke, senegalese, eravamo a basket..”
“Non gioco a basket, ma a pallavolo…”
“Bene: questa Aicha, eravamo a pallavolo, ed è successo che le ho detto: Ma voi neri…E lei mi ha detto: non mi dire nera; mi offendo! E allora tu le hai detto: Voi di colore.. e a lei è andato bene…”
“Ma non ricordo, in questo minuto; un episodio. So solo che succede sempre…”
“Sì, hai ragione. E allora non ti chiedo di raccontarmelo per il passato. Facciamo così. Visto che succede sempre, ti capiterà ancora. E allora tu mi manderai un SMS, mi scrivi, per esempio, ‘Amadou Sene, alla stazione, cinque minuti fa’. E io capisco, e me lo segno”.
“Perché deve segnarselo?”
“Perché a me non è mai accaduto, ed è un fatto che ritengo improbabile, per cui vale la pena di segnarselo, ora, data, e poi verrò da te e mi racconterai per filo e per segno come è successo…”

10 pensieri su “IN TEMPI DI PESTE

  1. Negro è offensivo, in italiano si dice nero e non c’è motivo di usare un termine spagnolo se non per rimandare esplicitamente alla schiavitù. L’equivoco tra le due parole penso sia dovuto proprio alle narrazioni americane degli anni passati, in cui viene usato il termine coloured. Solo che nelle ambientazioni alla Tom Sawyer era un modo per evitare nigger, che come negro in italiano, diventa inequivocabilmente offensivo, benché diffusissimo.
    Il pezzo che manca in Italia per capire l’equivoco l’ho trovato leggendo i romanzi di Lansdale ambientati nel Texas degli anni 30 e 50. Di colore era usato non tanto per evitare di offendere una minoranza, ma semplicemente perché considerata parola rozza, troppo terra-terra, da Saloon più che da pasticcini e tè.
    Motivazioni ipocrite, che però i vecchi narratori non spiegavano quasi mai, era talmente parte del loro mondo che forse lo davano per scontato.
    Ultimamente in Usa ci sono state forti polemiche per Django Unchained, a causa della “parola con la enne” pronunciata troppe volte. L’imbarazzo dell’intervistatore che non vuole pronunciare la “N word” può chiarire ulteriormente l’equivoco: non sembra imbarazzato dal farlo davanti all’attore nero, ma dal dover pronunciare quella parola brutta brutta. http://youtu.be/tYYBJ8XRdh4

  2. Più che di colore, che forse riguarda gli ambienti chic, da me si usa dire “scuro”. Però sento da tempo che viene anche detto: “di origine africana” oppure viene detto il paese di origine.
    Negro l’ho sentito dire, di persona, da Jlio che è un uomo africano, e da qualche ragazzino di città – ma complice di questo sono le ubriacature e l’avventatezza dei giovani dato che l’ho sentito gridare di fronte ai locali, quando scendevo in città, la sera, tra i gruppetti che magari si scaldavano un po’ tra loro.
    L’ho sentito dire anche nei film, naturalmente, e qualche volta in televisione anche se non so come siano cambiate le cose in questo senso siccome non ho un televisore da una decina di anni.
    Chiara, un’altra persona africana, non direbbe mai negro e credo che sia per via della sua estrazione sociale.

  3. In contesti come quelli raccontati genialmente da Quentin, l’uso della N-word ha assolutamente senso. Io la penso come Samuel L. Jackson

  4. @ loredana: grazie dell’apprezzamento
    @ davide: “di colore” da tempo ha tracimato dagli “ambienti chic”, come mostra il mio dialogo (quasi un verbale da un istituto professionale, allieva di piccolissima borghesia); quindici anni fa una mia cìvicina contadina, allora settantenne, usava “di colore” cone un eufemismo
    @ paolo; non so se Quentin sia geniale (lo trovo assai discontinuo, ma non discuto di questo), ma è vero che i contesti fanno molto. Nel caso dei titoli dei quotidiani sulla appena neo-ministra Cecile Kyenge, la salienza del colore della pelle rendeva ignobile, mi pare, l’eufemismo “di colore”, che, appunto come nell’episodio raccontato da Giobix, diceva di un imbarazzo dei giornalisti nell’eufemizzare la N-word. Peggio che pronunciarla, ma non c’era nessun contesto quentiniano. Semplicemente, la lingua batteva dove non doveva battere: sul colore della pelle come UNICA caratteristica da mettere sui titoli.

  5. Il racconto di Giuseppe Faso è interessante, mi fa pensare a quando facevo il servizio civile con i “non vedenti”. Una volta un musicista cieco che insegna al Santa Cecilia mi disse: “Io non voglio sentirmi dare del diversamente abile. E non mi piace nemmeno il termine non vedente. La parola corretta è cieco”.
    Riguardo quello che scriveva Loredana Lipperini, è giusto il suo discorso sulla responsabilità. Nel mio blog ho stabilito che accetto tutti i commenti, ma se una stessa persona mi manda 3 commenti negativi consecutivi, il quarto lo cancello. Alcune persone si sono ribellate, continuando a scrivere: “Io voglio dire quello che mi pare”. Ma non capisco perché dovrei essere torturata, solo per rispettare la libertà degli altri!

  6. Del primato morale e civile degli italiani (1843 o giù di lì )
    o della furbizia orientale ( prossima pubblicazione )

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