INTERLUDIO: IL READER'S INGEST DI STEINER

Dedicato a tutti coloro che lamentano la decadenza e caduta dei tempi, della cultura, della grammatica. Per dare cultura bisogna cercarla. Bisogna essere curiosi. Bisogna essere umili. Del come Beniamino Placido incontrò Steiner, 29 settembre 1989.
Il signore e la signora Steiner, trent’anni dopo. Non proprio trenta ma ventotto, ventinove anni fa mi accadde di ricevere, in un pomeriggio d’ estate, una telefonata assolutamente imprevedibile dall’Hotel Hassler di piazza di Spagna. Il signore e la signora Steiner vorrebbero conoscerla. Può venire a prendere un caffè con loro, qui da noi? Il signor Steiner, proprio lui! Che piacere, quale onore. Che cosa avevo fatto per meritarmelo? Pochissimo, in verità. Avevo recensito per il Terzo Programma radiofonico il curioso, ambizioso libro di un giovane critico anglosassone che si intitolava nientedimeno Tolstoj e Dostoevskij. Che osava affrontare, senza conoscere il russo, questi due giganti. Che li affrontava, difatti. E li sistemava, anche: Tolstoj come scrittore pagano, Dostoevskij come scrittore cristiano. Diversissimi fra di loro, ma accomunati dalla pratica di quella che Matthew Arnold chiamava l’ high seriousness, la serietà profonda. George Steiner che mi cerca! Ma come ha fatto, a sapere di me? Quale fortuna, quale onore, comunque.
Non era però George Steiner che mi cercava. Erano suo padre e sua madre. Che, in viaggio di vacanza per l’ Europa, si erano fermati a Roma. Appena scesi in albergo, avevano acceso la radio per sentire un po’ di musica. Quand’ecco, fra un brano e l’ altro di musica classica, una conversazione per loro incomprensibile dove però si parla del loro figlio. O si sbagliano? Non si sbagliano. Il portiere dell’ albergo si mette in moto (altri portieri, altri tempi) e il giorno dopo mi convoca.
Adesso, dopo ventotto-ventinove anni, incontro finalmente George Steiner. E’ a Roma per inaugurare le conferenze shakesperiane in onore del nostro Giorgio, Giorgio Melchiori: al quale dobbiamo lo splendido Shakespeare con traduzione a fronte nei Meridiani di Mondadori. Nel frattempo, George Steiner è diventato un’ autorità internazionale. Insegna parte dell’ anno a Cambridge, parte dell’ anno a Ginevra. Nel frattempo, ho continuato a leggere i suoi libri, che hanno titoli alteri e provocanti: La morte della tragedia, Linguaggio e silenzio, Dopo Babele. Dove si pongono, senza alcuna alterigia, domande grosse: è possibile la letteratura dopo Auschwitz? E quale letteratura? E perché gli uomini hanno inventato il linguaggio (tanti linguaggi, vedi la torre di Babele)? E perché oggi si stanno dimenticando di questa bellissima invenzione, la stanno trascurando?
Ed eccolo qui davanti a me, il professor George Steiner, atticciato gentiluomo mitteleuropeo, con la sua aria perfettamente composta. Contraddetta da un curioso tratto (di cui avevo letto in infinite interviste): un braccio destro rattrappito. Che sostiene però una mano ferma, e una stretta di mano fermissima. Ricostruiamo quel vecchio episodio. Di cui suo padre gli aveva parlato, a suo tempo.
Veramente suo padre gli ha parlato, prima di morire, di cose assai più importanti. Gli ha sconsigliato, per esempio, di trasferirsi in America: Se lo fai, dai ragione a Hitler…
“Mio padre aveva ragione. Hitler aveva detto: non ci devono essere più ebrei in Europa. Gli ho voluto dar torto. Sono rimasto in Europa. Anche se in America vado spesso: a insegnare, a tenere conferenze… ”
E a fare scandalo. Come quella volta che ci andò per sostenere la tesi dell’ America come archivio dell’ Eden. Come archivio, semplice archivio della cultura, che si fa, invece, in Europa. Ne abbiamo parlato, anche su questo giornale: lo sa? Certo che lo sa, naturalmente. Perché George Steiner legge e parla naturalmente anche l’ italiano (beata naturalezza). Ed in Italia ha due eroi. Due personaggi modello, che tenta di imporre anche in Inghilterra, nelle conversazioni del dopocena al Churchill College, sfidando e forzando quello che lui chiama il provincialismo anglosassone. Questi due studiosi di cui George Steiner si definisce modestamente e sinceramente devoto allievo, sono: Gianfranco Contini e Sebastiano Timpanaro. “Il Leopardi di Timpanaro”, dice trasognato. E comincia a citare il suo Leopardi. A memoria, certo. Perché della memoria George Steiner è un devoto cultore. Nel suo saggio su Antigone, che sta per essere tradotto in italiano da Garzanti, sostiene che gli schemi mentali che ci servono a capire a sentire, a soffrire anche oggi, sono depositati nella nostra memoria storica. Provengono tutti dall’ antichità classica: greca, latina, ebraica. I nostri archetipi, i nostri miti, da Narciso a Ulisse ad Edipo, vengono tutti di lì. Che cosa abbiamo inventato noialtri moderni, dopo? Forse soltanto il mito di Don Giovanni… Della memoria Steiner è sostenitore anche in un altro senso.
“Bisogna imparare e custodire molte cose a memoria. Continuo ad imparare brani di prosa e di poesia: quando posso, come posso; in tutte le lingue che conosco”.
Questa affermazione mi riporta all’ultimo libro di Steiner, Real Presences, pubblicato quest’ anno da Faber and Faber, a Londra. Dove Steiner si definisce, ancora una volta, non già un matre-à-penser, ma un matre-à-lire. Un maestro di lettura. Ma davvero lei insegna l’ arte della lettura ai suoi studenti di Cambridge, di Ginevra? “Certo. E’ un’ arte. E si sta perdendo. Non si ha più la pazienza di affrontare un romanzo lungo, un libro difficile. Insegno la difficile arte della lettura all’Università. Come? Prendiamo un brano qualsiasi di Shakespeare, di Dickens, di Milton e cominciamo a leggerlo insieme, in classe. Partiamo dal livello più semplice. Che cosa significa questa parola? E quest’ altra? Insegno ai ragazzi ad usare il dizionario. Che uomo è quello che non ama i dizionari? Che non li sfoglia, che non li sciupa quotidianamente?”. E poi? “E poi passiamo al livello grammaticale-sintattico: come sono organizzate, queste parole? Il mio maestro Roman Jakobson diceva: non capisce la grammatica della poesia chi non sa apprezzare la poesia della grammatica. La poesia si fa portando le parole al confine estremo della grammatica e della sintassi. Al limite del comprensibile. Prendiamo Shakespeare, nel Sogno di una notte di mezza estate: There sleeps Titania some time of the night. E’ quasi sgrammaticato. Come si potrebbe tradurre in italiano? Lì dorme Titania parte della notte? a un certo punto della notte? No. Non si può. La poesia è un’ esperienza di frontiera. Ai confini della grammatica. Ai confini del conoscibile. Ai confini di Dio…. ”
Aspetti, professor Steiner, questo me lo dirà più tardi. E’ il nocciolo del suo ultimo libro. Torniamo alla memoria. “A questo punto invito i ragazzi (li costringo, se posso) ad imparare a memoria. Ad ingerire (to ingest, diceva il dottor Johnson) brani di prosa e di poesia. Ingerire e ricordare. Ingerire e ruminare. Ripassarsi quelle parole, quelle poesie quando si passeggia, quando si guida l’ automobile, quando si sta per addormentarsi. Non di un Reader’ s Digest abbiamo bisogno, ma di un Reader’ s Ingest. Ingerire e ruminare. E’ l’ unico tipo di critica letteraria che vale. L’ unico che ci porti vicino al meaning di una poesia, al suo significato…. ”
Ma lei sostiene, proprio in quest’ ultimo suo libro, che non siamo più in grado di cogliere il significato di nulla, meno che mai delle opere d’ arte, perché abbiamo rotto il vecchio patto biblico con Dio. Non lo chiamiamo più in causa. Non lo prendiamo più sul serio… “E’ vero”. Non ha paura, Mister Steiner, di ritrovarsi in compagnia di coloro (sono tanti, tantissimi) che dicono oggi: non c’ è politica possibile senza religione; non c’ è etica, non c’ è pratica letteraria possibile senza Dio? “Al contrario. Sono spaventato, disgustato dalla crescita di questa falsa religiosità dogmatica, fondamentalista, che si vede dappertutto: anche in Italia, mi dicono. Voglio dire invece che non si fa letteratura né musica, né pittura se non si pone la questione di Dio. La questione, non la rivelazione. La poesia nasce sempre dalle grandi questioni”. Dalla grande serietà, l’ high seriousness di Matthew Arnold? “Proprio da quella. Ci sono oggi le condizioni per la pratica di quella serietà? No, non ci sono. Viviamo un periodo di inflazione, come ai tempi della Repubblica di Weimar. C’ è troppo di troppo. C’ è, non a caso, il problema di sistemare i rifiuti, le scorie. Anche nella critica letteraria. Troppi saggi, troppi articoli, troppe analisi. Scritti e pubblicati magari solo per futili ragioni universitarie. Abbiamo bisogno di tornare ad affrontare le domande, le questioni essenziali”. George Steiner è un uomo inquieto, insoddisfatto: per molte ragioni grandi. E per una piccola. Che lo accora, però. E che mi ha autorizzato a rivelare. Gli dispiace non essere conosciuto abbastanza in Italia. Non quanto lo è altrove: in Francia, in Germania, in America. Questo suo ultimo libro, per esempio, al quale lui tiene molto è una piccola summa delle sue idee , ancora nessun editore gli ha chiesto di tradurlo nella nostra lingua. Dice: “E’ una cosa come dire? heartbreaking. Come direste voi in Italia? Direste forse: che fa male al cuore?”. Sì, diremmo proprio così. Fa male anche a noi, Mister Steiner.

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