IO, LORO: DUE MODI DI CONCEPIRE LA NARRAZIONE

Cosa accade alla letteratura nel tempo del suo avvitamento, degli schieramenti non elettivi ma gelidamente efficienti, nel muro contro muro di gruppi e bolle, nel chiudersi in piccole cerchie in grado di muoversi, e di escludere o includere, in modo militaresco, nell’avvento di un drappello di autori e autrici abilissimi nella strategia di posizionamento, nel non capire da parte dei più vecchi quel che sta avvenendo e nel loro rinchiudersi in un’idea di mondo che strutturalmente non è più quella in cui sono cresciuti?
Proprio perché i tempi sono sfuggenti, è difficile dare una definizione, né sarebbe corretto farlo. Nell’articolo di Christian Raimo che ho citato ieri, l’autore scrive:
“Gli oggetti letterari che oggi – diciamo sempre – sono più interessanti sono quelli che mettono in scena una fame di giustizia insaziabile, un desiderio d’amore impossibile, un’ascesa sociale che crolla su se stessa, una solitudine senza lenimento”.
Ancora una volta mi pongo il problema del come si allestisce questa messa in scena. Dato per assodato che la letteratura mente – nobilmente, certo, ma pur di menzogna si tratta – forse occorre liberarla da quella che sta diventando l’identificazione più pericolosa: quella fra testo e chi lo scrive. Anche quando non si tratta di autofiction dichiarata, il discorso del Sé cannibalizza l’opera. Scrivo di donne perché sono una donna, scrivo di omosessualità perché sono omosessuale, scrivo di precariato perché sono della generazione precaria, scrivo di neri perché sono nero/a. Non dovrebbe funzionare così: una storia dovrebbe lasciare un segno in chi legge prescindendo dalla biografia di chi la scrive.
Faccio un esempio tratto dalle serie televisive: una, in particolare, potentissima. Them. Dieci giorni del 1953 dove si racconta la vita di una famiglia nera (padre, madre, due figlie) che, durante la seconda grande migrazione, si trasferisce dalla Carolina a Los Angeles, in un quartiere bianco. E’ un horror, forse: ed è così forte la narrazione, così avvincente l’identificazione di chi guarda (qualunque sia il colore della pelle di chi guarda, intendo) nell’angoscia e nella rabbia repressa dei perseguitati da rendere  dolorosa, a tratti quasi intollerabile, la visione. Quelle casalinghe bianche con le gonne scampanate che posizionano tavolini e sedie di fronte alla finestra della famiglia con bicchieri di tè freddo e radio a tutto volume “perché ai neri piace la musica”. Quel capo reparto che fa di tutto per far sì che il suo ingegnere se ne vada. Quei compagni di scuola che quando la ragazza risponde correttamente a una domanda su Emily Dickinson emettono versi scimmieschi. Non finisce mai. E non c’è nulla di ammiccante, di “guarda come siamo politicamente corretti, oh come” nella storia. E’ la messa in scena di un orrore reale, con arte.
Chi lo abbia scritto non conta. Conta che funzioni, nel senso che sappia suscitare emozioni e dubbi. Credo che questo debba fare anche e soprattutto la letteratura. Non sono sicura che riesca a farlo oggi, non sempre almeno. Non finché l’autore o l’autrice si prendono la scena e il libro passa in secondo piano, che è quello che accade, e accade sempre di più.

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