GLI SCRITTORI, I SOCIAL E TUTTO QUANTO

C’è un lunghissimo articolo di Christian Raimo sul Tascabile che si presta a diverse considerazioni: anche perché affronta nei fatti tutto l’affrontabile in ambito letterario, editoriale, critico. Forse, se posso, fin troppi temi per un articolo solo. Ma ci sono diversi punti su cui vale la pena iniziare un ragionamento.
Ne scelgo uno. Il rapporto fra scrittori e social. Ma non nel senso, o non solo, di una adattabilità di chi scrive al mezzo che usa quotidianamente, non importa se per convinzione, per militanza (essere su una piattaforma per provare a modificarne le consuetudini linguistiche), per calcolo autopromozionale. E forse neanche della posizione scelta dai Wu Ming, citati nell’articolo, nel momento in cui hanno abbandonato i social medesimi, con l’auspicio di una futura trasformazione: “Una nuova blogosfera post-social è possibile. Anzi, il suo formarsi è altamente probabile”.
Penso, piuttosto, a come la presa di posizione di chi scrive in ambito culturale, sociale, politico risenta della natura divisiva dei social stessi. I social nascono come fomentatori di odio, o per meglio dire di fazioni contrapposte: è possibile (e questo dovrebbe essere, forse, uno dei compiti di chi conosce il potere della parola per professione) usare un linguaggio diverso, è possibile provare a utilizzare ed evidenziare modi alternativi di discussione, ma nei fatti quello è. Uno contro uno. E non può che essere così, perché l’illusione che i social hanno contrabbandato è quella secondo la quale uno vale uno. E questa volta no, non è così. In Amadeus, il film che Milos Forman ha tratto dalla commedia di Peter Shaffer, c’è un momento illuminante: è quando Salieri, prendendo fra le mani gli spartiti che Constanze Mozart gli ha portato in visione sperando in benevolenza per il marito, capisce fino in fondo l’incommensurabile talento del rivale e, dopo il trillo del Kirye Eleison nella Messa in do minore, lascia scivolare i fogli in terra, vinto. E’ che quel talento o lo si ha o non lo si ha. Puoi perfezionarti, diventare un bravo narratore, un piacevolissimo artigiano della musica o di qualsiasi altra arte. Ma non un Grande. Ingiusto? Sì. Infatti Amadeus è splendido per questo motivo.
Come scrive il collettivo Ippolita in Nell’acquario di Facebook, l’illusione è quasi inscalfibile:
“L’internet 2.0 sarebbe la realizzazione online di un mondo perfettamente democratico, in cui ogni netizen (net citizen, cittadino della rete) contribuisce al benessere comune, innanzitutto in quanto consumatore. (…) Cittadini connessi e consapevoli, è impossibile per loro subire i soprusi delle amministrazioni corrotte, la manipolazione del marketing, la propaganda degli estremisti religiosi, nazionalisti e xenofobi, i raggiri dei malintenzionati, la violenza nascosta in tante relazioni sociali (a cui solitamente si affibbiano nomi in inglese, dal mobbing allo stalking), i ricatti del crimine organizzato. Il cybercittadino sceglie sempre in maniera consapevole. L’ignoranza insomma sarebbe un problema residuale, le guerre una questione di mancanza d’informazione, e persino la fame e la povertà saranno risolte dall’abbondanza di informazioni e di relazioni gratuite, stabilite nella grande piazza democratica di internet.”
I social, per fare un solo esempio, non ci hanno permesso fin qui di approfondire davvero, non nella sede giusta, la complessità del caso Amanda Gorman e delle sue traduzioni. Un punto in particolare, di cui qui si è già parlato e che per me è dirimente: il modo in cui il mercato si appropria di un’istanza, sia essa dei femminismi, o di Black Lives Matter o di qualsiasi sacrosanto movimento che in modo altrettanto sacrosanto chiede visibilità. Anche in letteratura e in editoria. Ma, come si è già detto, quell’istanza viene trasformata in prodotto, e molto spesso, se posso, all’idea di prodotto facilmente smerciabile si adegua in primo luogo chi scrive: questo piacerà alle donne, questo agli omosessuali, questi ai neri, eccetera. Ci piace? Legittimo. Questo snatura la qualità dei testi? No, quando quella qualità c’è, quando i libri sono, al solito, “onesti”, nascono da un’esigenza che non calcola in automatico a riga tre, dieci, venti quanto quello scrivi incontrerà i favori di questa o quella categoria. Questo è il Male? No. Il mercato non è sempre il male: per qualche decennio, prima che arrivassero scopritori e scopritrici dell’ultima ora, chi scrive ha difeso King, considerato “monnezzone” e “di mercato” da una grandissima parte della critica e dei, come si suol chiamarli oggi, mediatori culturali. Il problema è quando ci si adegua a quel mercato senza provare a inserire una variante, senza provare a spostare di pochi centimetri almeno l’algoritmo.
Ma di questo, gli scrittori, le scrittrici, i critici, riescono a discutere sui social? No. Non al momento. Ci vorrà un lavoro costante e lunghissimo per cambiarne le regole, laddove un dialogo è quasi impossibile. Sui social è difficile dialogare, se non in rare e luminose eccezioni.  Non impossibile. E soprattutto non è impossibile cambiare.
Se c’è in giro una cosa più importante del mio Io, dimmelo che le sparo subito. (Douglas Adams, Guida galattica per gli autostoppisti)

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