Questi sono anche i giorni in cui sembra che tutti sappiano quel che bisogna dire e scrivere. Quale tipo di pacifismo occorra declinare, come schierarsi contro la guerra, quali sono gli elenchi dei “putiniani”, quale atteggiamento prendere nei confronti di Dostoevskij, se parlare o tacere delle iniziative di sabotaggio culturale, e via così.
Bene, io invece non so cosa bisogna scrivere. Vado, come molti, a tentoni. Le poche certezze che ho, e che ho scritto qui da un po’ di tempo, è che la ricerca del nemico di questi ultimi due anni ha fatto i danni che si temevano. Dai rider del marzo 2020 fino a chi si opponeva ai green pass (i quali sarebbero, scopro, pure filo-Putin, ma pazienza. Anzi no, la pazienza si esaurisce, infine).
Io non so. Dichiaro di non sapere quale sia la strada da percorrere. Non ho mai saputo giocare a Risiko, e questo, comunque, non è un gioco. So, perché questo vedo e ascolto e leggo, che ci sono persone che muoiono, persone che non hanno acqua, né modo di ripararsi. So che ci sono persone mandate a morire. Quel poco che so, della guerra, quella che non è un gioco, è quanto mi ha lasciato scritto mio padre in un quadernetto bianco e rosso. Mio padre ventenne, che fu mandato a combattere in Grecia, e che voleva solo comporre i suoi sonetti e dipingere ritratti a olio delle sorelle. Mio padre che mi fermava quando ci si accendeva una sigaretta in tre con lo stesso accendino, dicendomi: “Guarda che è vera la storia del cecchino, che alla terza fiammella spara. E’ vera perché è capitata a me”. Mio padre che quando si trovava a metà di un ponte, e sotto c’era il fiume, e sopra gli aerei che si abbassavano per mitragliare, si disse: “Sono morto. Che peccato, così poco tempo”.
Non morì, non a vent’anni. Ebbe il modo di raccontare, ma non molto, perché voleva soprattutto che ci fosse vita, e una buona vita, dopo quell’orrore. Quando ho svuotato la casa, dopo la morte di mia madre, ho aperto i cassetti della libreria dove c’erano tutte le carte di mio padre in buon ordine, catalogate ed etichettate con la sua bella calligrafia. Solo un oggetto era in fondo al cassetto, come scagliato con rabbia: la medaglia al valore per la guerra.
Questo solo so. E certo è pochissimo. Quindi, quando leggo o ascolto quelli che sanno cosa dire e come dirlo, sono contenta per loro, e per le loro certezze, meno contenta per l’elenco di buoni e cattivi che ci perseguita da due anni a questa parte. Perché se qualcuno mi chiedesse, adesso, cosa dobbiamo fare, risponderei soltanto: il poco che possiamo, aiuti concreti, denaro, ospitalità, parole di pace. Che è poco. Questo lo so. E’ poco.
Grazie per la proclamazione del silenzio e del non so.
Io penso che niente è come appare e la separazione buoni e cattivi mi infastidisce molto. In più ho paura a dire quello che penso e sento.
Antonella A.