LA DECRESCITA E LE DONNE

Perdonate se torno sulla questione di genere all’interno della questione politica. Ci torno perché fin qui l’unica argomentazione che è stata portata dopo il voto è “ci sono tante donne e tanti giovani in Parlamento”. Molto bene, ma ancora una volta attendo di sapere se le politiche delle donne e dei giovani andranno a favorire chi si trova ad appartenere allo stesso genere sessuale e alla stessa fascia anagrafica.
Facciamo un esempio. Qualche giorno fa, sul blog del Fatto quotidiano, Maurizio Pallante (leader e fondatore del Movimento Decrescita Felice) e Andrea Bertaglio scrivono un duro post contro chi parla di decrescita senza conoscerla. Corretto, oltre che legittimo.
Altrettanto corretto è cercare di capire qual è l’idea di alcuni decrescenti sulle donne. Se andiamo a cercare negli archivi del Fatto, in data 24 luglio 2011 gli stessi autori firmano un intervento dove si inchiodano le donne stesse (naturalmente lodandole) a un’idea di differenza “per natura” che le vuole accudenti e non competitive come gli uomini (che è un vecchio leit motiv: ogni volta che una donna conquista una posizione apicale, non si discutono le sue decisioni – che possono essere buone o pessime, come detto altre volte – ma la misura in cui tradisce o asseconda la propria femminilità).  Vi basti l’incipit:
“È difficile non vedere la superiore sensibilità e delicatezza delle caratteristiche femminili, o negare che questo tipo di società, basata sulla competizione in ogni singolo aspetto della vita, sia generata da smanie di stampo tipicamente maschile. Lo conferma anche un concetto chiamato “maschilità di mercato”. In cosa consiste? Nel fatto che essere virili significa essere forti, avere successo, essere capaci, affidabili, dominanti: tutte caratteristiche di quegli avidi bottegai che, nel corso degli ultimi due secoli, hanno preso il sopravvento (diventando ai giorni nostri importanti politici e uomini d’affari) sia sugli aristocratici dallo stile e dai gusti femminei, sia su quegli artigiani che, soddisfatti del loro operato ma non bisognosi di accumulare ricchezze all’infinito, si accontentavano di fare le cose bene e con cura”.
Andiamo avanti. Ancora Pallante, nel saggio Meno è meglio, afferma:
“A far credere che l’estensione dei servizi sociali fosse un progresso e una conquista di civiltà hanno contribuito in misura determinante le rivendicazioni del movimento femminista sul diritto delle donne ad avere un’occupazione a parità di condizioni con gli uomini. Di per sé questa istanza è indiscutibile. In una società che abbia come fine la piena realizzazione di tutti gli esseri umani, senza distinzioni di genere, non dovrebbe essere nemmeno formulata (…) Ma nelle società che hanno finalizzato l’economia alla crescita della produzione di merci, gli esseri umani sono stati ridotti a mezzi per il raggiungimento di quel fine (…). In questo contesto, rivendicare alle donne il diritto d’inserirsi nel mercato del lavoro a parità di condizioni con gli uomini significa, quanto meno, pensare che questa finalizzazione dell’economia sia immodificabile (…). Il welfare state, liberandole dal lavoro di cura dei figli e degli anziani, le mette in condizione di dedicare tutto il loro tempo al lavoro salariato, per avere in cambio il reddito monetario necessario ad acquistare merci senza dipendere da nessuno. E’ questo il modo migliore d’impostare la legittima esigenza di parità di diritti tra uomini e donne? La parità si può conquistare soltanto allineandosi sui comportamenti competitivi maschili necessari alla crescita della produzione di merci? “
La risposta è, naturalmente, no:
“Per collocarsi a parità di diritti nel mondo del lavoro salariato, non è necessario che le donne aboliscano dalla propria vita il tempo della produzione di beni, è sufficiente che lo riducano per inserirvi parzialmente il tempo della produzione di merci, in modo da definire un contesto che consenta agli uomini di risalire dalla profondità del pozzo del fare finalizzato a fare sempre di più.”
Insomma, il part-time salva soprattutto gli uomini, perché è il tirarsi indietro delle donne che consente loro di risalire dal pozzo liberista.
D’accordo, è un’opinione isolata, forse, e forse nessun altro ha la stessa concezione e soprattutto gli stessi obiettivi di Pallante. Che, in un’intervista del dicembre 2010, dichiara:
“Secondo noi, poi, bisognerebbe abolire il tempo pieno. Questo è infatti funzionale al discorso della crescita: i genitori, infatti, devono lavorare dalla mattina alla sera. Pensa che quando ho fatto l’assessore a Rivoli dal ‘90 al ‘95 ho incontrato dei commercianti che chiedevano che l’asilo nido fosse aperto fino alle 19.30…

Ma che cavolo l’hai fatto a fare il figlio allora? La mattina appena sveglio lo prendi, lo imbacucchi e lo porti all’asilo. La sera, quando lo vai a prendere, sei distrutto fisicamente e se tuo figlio fa casino dai pure uno schiaffone perché sei esaurito. Ma che rapporto è questo? Alla fine tutto è funzionale al fatto che noi abbiamo bisogno di produttori e consumatori di merci”.
Allora, fermo restando che è vero, chi critica non conosce abbastanza la filosofia (quella italiana, almeno) della decrescita, non si può che attendere che su questi punti venga chiarita a molte donne e molti uomini che in queste affermazioni non si riconoscono, giusto?

66 pensieri su “LA DECRESCITA E LE DONNE

  1. Condivido seriamente i dubbi e gli interrogativi che animano questo post. Lo dico innanzitutto da maestra in una scuola pubblica a tempo pieno. C’è sempre questa idea che i servizi siano un parcheggio e mai una possibilità educativa, che la cura sia “più cura” se è appannaggio solo del nucleo familiare. E invece non è così, perché i bambini e le bambine a scuola ci stanno bene. Certo, non dappertutto. Certo, le maestre (e i pochissimi maestri – interroghiamoci anche su questo) non sono tutti e tutte uguali. Ma la responsabilità di un abbassamento della qualità delle scuole in Italia è anche di chi politicamente ed economicamente questi servizi li ha demoliti e di chi, perdonatemi ma mi fa rabbia, questi servizi li ha socialmente svalutati.

  2. sono completamente d’accordo con te e con pallante !! le donne che scimmiottano gli uomini ..le donne che pensano che sia meglio fare un qualunque lavoro piuttosto che allevare i figli perchè il lavoro è retribuito
    hanno rinunciato ad essere donne …prima però bisogna rivalutare la maternità…

  3. Ma dai Loredana, cosa c’è di meglio che stare a casa con i propri figli?
    E’ nel nostro DNA… Non siamo noi femmine della specie a partorire e accudire i nostri maschi?
    :-/
    (scherzo, eh!)

  4. Secondo me non hai ben afferrato la posizione decrescente.
    A me pare di capire, invece, che Pallante lamenta il fatto che perfino la capacità femminile di “prendersi cura” (e cioè offrire servizi) al di fuori della logica di mercato, è stata fagocitata dalla logica del reddito monetario.
    Infatti dice che l’istanza della parità dei diritti è indiscutibile, ma è stata utilizzata dal sistema per tirare dentro anche le donne, in questo pozzo.

  5. Elisabetta: personalmente, non credo che alcuna capacità sia data “per natura”. E mi sembra che insistere sul doppio binario (le donne possono tirare fuori dal pozzo gli uomini grazie al proprio sacrificio) sia decisamente pericoloso. Per non parlare del tempo pieno e degli asili nido.
    In tutto questo, sembra non sia concepibile che una donna possa desiderare e volere un altro tipo di vita e che chi lo fa sia stata ipnotizzata dai mercati. Trovo tutto questo pericoloso e riduttivo: specie se dalla scelta personale si estende a ipotizzare una deprivazione dei sia pur pochissimi diritti sociali.

  6. Due cose cose. Primo: quel che noto io, è che Pallante per primo parla di “caratteristiche femminili” e non di “donne” (almeno nel passo che citi), e attribuisce queste caratteristiche non alle sole donne ma anche ad “aristocratici dallo stile e dai gusti femminei” e ad “artigiani si accontentavano di fare le cose bene e con cura”. Il tema di cosa sia il femminile e più in generale l’identità di genere è filosoficamente molto complesso. La soluzione di Pallante è confusa e contraddittoria (qui pare) ma io credo che un egualitarismo assoluto sia una soluzione altrettanto insoddisfacente.
    Secondo: Il concetto che le rivendicazioni di genere debbano essere contestualizzate ideologicamente in senso più ampio, in una visione politica ed economica che abbrraccia tutta la società, mi pare sacrosanto, onesto e doveroso. Non so se il modo in cui lo fa lui è dei migliori possibili, ma non vedo nulla di terribile nelle sue parole. Soprattutto perché mi pare che in ballo non ci sia solo l’idea che le donne sono da ricacciare a casa per il bene dei figli, ma che i genitori dovrebbero poter passare più tempo con loro e un welfare sensato si pone *anche* questo problema (vedi Svezia, dove c’è quello – i nidi – e quello – i congedi e orari di lavoro ridotti).

  7. Vorrei entrare nel merito del tema della decrescita e delle sue implicazioni per le donne, e più tardi lo farò, se ne avrò il tempo, perché è una roba complicata. Per ora vorrei limitarmi a un aspetto di metodo. Nel post segnalato da Loredana leggo: “Certo, a Stefano Feltri sembra incredibile che anche chi non ha studiato economia si permetta di parlare di una materia apparentemente riservata a esperti di banche, debiti e spread, ma si deve rassegnare all’idea che sempre più persone, toccate da vicino dalle proposte di politici, grandi economisti ed ex rettori universitari che ci hanno portato in una situazione (non solo economica, se mi è permesso farlo notare, ma anche sociale, occupazionale ed ambientale) sotto molti aspetti insostenibile, hanno capito che la crescita infinita del Pil e dei consumi non solo non è possibile su un pianeta dalle risorse finite, ma invece che la soluzione dei problemi che abbiamo ne è la causa (come è stato spiegato decine di volte, tempo fa anche su questo blog)”.
    Ora, provate a sostituire la parola “economia” con la parola “medicina” e “spread” con il nome di una qualche malattia e ditemi se può aver senso un approccio del genere. Che mi ricorda tanto quello di chi sosteneva che la causa dell’AIDS era la povertà e non l’HIV. Ciò che a me dà profondamente fastidio di certi movimenti è la santificazione del dilettantismo, l’arroganza praticona e populista che ritiene di poter sostituire allo studio di una disciplina il puro e semplice senso comune. Il quale, sarà bene ricordarlo, di solito finisce per generare mostri. Che gli economisti non abbiano dato buona prova di sé è un fatto; che in virtù di questo sia opportuno mandarli tutti al diavolo e darci all’economia naive è una follia. Del resto, non mancano esperienze storiche (comuni di vario genere) che si sono quasi sempre concluse male. Io credo in un metodo più equilibrato per risolvere il problema, che recepisca senz’altro molte delle istanze poste da chi parla di decrescita (più tempo per sé e per la propria famiglia, meno competizione sociale sono sicuramente cose desiderabili); tuttavia, che si possa arrivare a questo mettendo a repentaglio le fondamenta stesse delle nostre economie trovo che sia una menzogna. Il crollo di un sistema così imponente non può avvenire senza vittime, Questo ce lo dovremmo ricordare, prima di metterci a pedalare in discesa.

  8. Sorpresa: la naturale vocazione della donna al “prendersi cura”! Lasciamola a casa, o al massino a fare la maestra, dove esplicita la propria “naturale vocazione”.
    Ti riporto il passo sul “mammismo pedagogico” dal mio La scuola è di tutti (pag. 308), perché è lì si va a parare:
    «La donna era confinata dal fascismo in una dimensione subalterna, del tutto coerente con l’arretratezza sociale e culturale dell’Italia, che percepiva questa inferiorità come parte di un ordine immutabile delle cose. Non diversamente, la cultura idealistica individuava, nelle parole di Benedetto Croce, la vocazione alla maternità della donna come realizzazione del proprio fine, e ne deduceva l’esclusione dalla sfera della politica (e del pensiero filosofico). La figura della maestrina dalla penna rossa coniata da De Amicis e ripetuta nelle scuole e nelle case con le letture del libro Cuore contribuiva a sostenere questa idea della naturale subordinazione della donna, facendo della maestra una figura sostitutiva di quella materna. In forme e modi diversi, il mito della “naturale vocazione” all’insegnamento della donna come espressione della peculiare dimensione del “prendersi cura” del femminile perpetua questo stereotipo. Lo stesso accade con quelle concezioni della scuola di base come spontaneo prolungamento della dimensione affettiva familiare, come mostrano bene le già citate parole del ministro Gelmini: “A quell’età, sei, dieci anni, non serve uno specialista di italiano e di matematica. Serve una persona che rappresenti la continuità della figura della madre, del genitore”.
    Ogni scuola che accolga al proprio interno, anche in forma implicita, uno stereotipo sessista, palese o mascherato, è potenzialmente fascista.

  9. Poi sono onestamente stupida dell’eterogeneità di idee che esistono sull’educativo. Certo che i servizi educativi non sono un parcheggio. Certo che sono o almeno dovrebbero essere un’occasione pedagogica e sociale fondamentale, e che è solo in questo senso (quindi nel senso di un vantaggio per i bambini) che possono essere la risposta adeguata al diritto dei genitori di condividere cure e accudimento con la società. Ma 8 ore al nido per un bimbo di 3, 6, 18 mesi non è per forza una tragedia, non è sintomo di genitori menefreghisti ma non è nemmeno la scelta educativa d’elezione, e questo lo dice la psicopedagogia. Disciplina bistrattata in Italia. Allora, se parliamo di questioni di genere e di decrescita insieme, iniziamo a metterci anche la psicopedagogia. Non si può fare un discorso su queste questioni che non sia interdisciplinare e competente in modo completo.

  10. mi pare davvero sia stata proposta una questione importante, a cui forse rispondo senza altrettanta profondità. ma credo che dovrebbero essere le donne a definire un diverso senso della vita e del lavoro, che riguarda tutti e tutte e che dovrebbe ridefinire rapporti salariali e organizzazione del lavoro in tutt’altro modo e per tutti. non è che noi possiamo rinunciare alle nostre capacità e voglia di fare. senza di noi un diverso simbolico e diverse relazioni, non sessisti e patriarcali, non esistono.

  11. Post scriptum
    Avendo ascoltato qualche sensata parola di Latouche e Bonomi in un dibattito di qualche anno fa, mi sono interessato per qualche tempo alla teoria della decrescita. Se me ne sono allontanato in fretta è anche grazie alle sue declinazioni bucolico-nostalgiche, che traspaiono dalle parole di Pallante e Bertaglio. Oltre a prendersela con chi parla della teoria della decrescita senza conoscerla (su questo hanno ragione), Pallante e Bertaglio dovrebbero fare autocritica su quanto i teorici della decrescita ci hanno messo e ci mettono del loro per farla passare per un ritorno ai campi arati. E su quanti non creano equivoco con parole avventate e costruzioni teoriche poco attente, ma ci credono davvero, al ritorno alla vita agreste.

  12. Loredana tu vedi “pericoli”, ok, ma io leggo quello che c’è scritto. Non si possono tirare per i capelli le conclusioni perdonami, al di là delle intenzioni di chi scrive. Pallante non dice da nessuna parte che le donne “si devono sacrificare per gli uomini”. Pallante scrive che il part-time è un diritto, ed è talmente un diritto che non lo è solo per le donne con le loro eventuali e forse effettivamente maggiori in senso statistico (che nulla ci dice sull’identità) attitudini alla cura, ma che lo è anche per gli uomini in questa società. Lui auspica il ritiro dalla competizione di tutti. Ed è ovvio che considerando in modo negativo la competizione e la “sete di potere” sempre e comunque, non fa eccezione per le donne. Femminilizziamoci tutti, dice. Loredana non sei tu che citi sempre De Andre’, “non esistono poteri buoni”? Io non sono d’accordo, né con te, né con de Andre’, né con Pallante…

  13. Non è importante che tu sia d’accordo con me, Tullia. Ognuna è libera di poter fare le proprie scelte (ancora, almeno): purché quelle scelte non vadano a inficiare quelle degli altri. Ripeto: dare per scontata e innata la facoltà femminile della cura è, in partenza, una gabbia. E identificare affermazione con competizione è, per me, un pericolo. Detto ciò, anche per me la questione di genere necessita di un contesto politico: ma non questo.
    Ps. La psicopedagogia (e spero che intervenga in proposito Zauberei) è profondamente divisa sull’asilo nido. Non per tutti gli psicopedagoghi è una sciagura.

  14. E’ incredibile l’indifferenza con cui Pallante liquida una questione – quella della debolezza economica delle donne – che contribuisce enormemente a rendere coloro che si trovano a subire violenza in casa nell’incapacità di liberarsene. Anzi, per Pallante va bene così, è giusto che le donne non abbiano i mezzi per essere autonome e liberarsi, eventualmente, dagli uomini che le picchiano o che cercano di ucciderle (e spesso ci riescono). E’ meglio che le donne guadagnino meno o nulla, così gli uomini – solo loro – possono combattere il dogma neo-liberista e i figli sono felici.
    Del resto non c’è da che stupirsi, visto che Pallante e Massimo Fini se ne andavano a braccetto fino all’altro ieri, lo stesso Massimo Fini che, ricordiamolo, ha definito le donne una razza nemica (qui un po’ di citazioni interessanti http://it.wikiquote.org/wiki/Massimo_Fini) e che lancia invettive contro il sistema ogni due per tre dal blog del proprietario primo partito italiano (quello di Grillo, per chi non lo avesse capito). Mi dispiace Loredana se questo commento ti attirerà addosso i troll (ma diciamo che ci sei abituata). Questi misogini io li vorrei vedere per davvero a sperimentare lo stile di vita “decrescitista” dei nostri bisnonni, che zappavano i campi a braccia combattendo contro il colera. Chi vuole lamentarsi delle madornali cantonate prese dalla sottoscritta nei confronti del decrescitismo e di Fini&Pallante, che invece sono degli eroi dell’uguaglianza, lo riferisca a me, grazie.

  15. Ma nella lettura di un anticapitalista radicale è abbastanza inevitabile identificare affermazione economica e sociale con competizione :/ Quindi non ci piace la decrescita, o non ci piace che la decrescita abbia come conseguenza logica il giudicare male una donna in carriera o che solo aspiri all’indipendenza economica in questo tipo di sistema? Però se è logica è logica… allora diciamo che non ci piace la teoria della decrescita (presente!), non che non ci piace dalla prospettiva femminista…

  16. Tra “il nido è una sciagura” e “8 ore a 3 mesi gli fa bene, è socializzante” esistono credo posizioni più equilibrate 😉

  17. Per esempio il nido è un’opportunità per la mamma di tornare a lavorare? E continuare ad essere economicamente indipendente?

  18. Non riesco a capire le argomentazioni di Pallante&C. Inizio con la prima, semplificata:
    “essere virili significa essere forti, avere successo, essere capaci, affidabili, dominanti: …caratteristiche …che… hanno preso il sopravvento … su quegli artigiani che, …. si accontentavano di fare le cose bene e con cura.”
    Quindi, per una donna, non sta bene essere forte (nell’accezione piú ampia del termine, ma quante donne forti non incontriamo, nella vita di tutti i giorni?), avere successo, essere *capace* ed *affidabile* (é veramente cosí negativo? mi pare che di gente capace ed affidabile ci sia gran bisogno).
    La femminilitá implica perció inaffidabilitá ed incapacitá, cosí, di default biologico?? posso sentirmi un pelino offesa?
    Perché essere *capace ed affidabile* sarebbe in contrasto con quelle persone (artigiani) che vogliono fare le cose *bene e con cura*? credevo che per fare le cose bene ci volessero proprio capacitá ed affidabilitá. Boh.
    E poi, basta con sta solfa che le donne sono portate per i lavori di cura.
    Ne conosco di portate e di non portate, o portate da altri che le hanno irretite da secoli con questa fandonia. E conosco uomini che preferirebbero stare a casa coi figli piuttosto di lavorare.
    Perché invece non dice agli uomini di cominciare a dedicare un po’ di tempo in piú ai loro bambini, ai loro genitori anziani, eccetera?
    Allora gli uomini a lavorare a tempo non pieno e in decrescita perché sennó é stressante, mentre le donne le lasciamo al compito di cura, che non conosce ferie, riposi notturni e fine settimana. Tanto sono piú sceme e deboli, e gliela diamo a bere facilmente, a queste poverette.
    A me sembra la solita menata di un certo tipo di maschio che é perfettamente consapevole di quanto é impegnativo (e spesso frustrante) il lavoro di cura, e lo sbologna volentieri alla donna, facendola pure sentire in colpa e mostruosamente sbagliata se questa rivendica il diritto per sé a realizzarsi anche con altre cose, mentre lui puó dedicarsi ai suoi alti ideali e sentirsi l’unico depositario della salvezza del mondo.

  19. A me sembra che questi signori operino appoggiandosi a stereotipi e congetture, senza uno straccio di riscontro concreto a quanto vanno teorizzando. E così gli artigiani “lavorano con cura”, le donne hanno un atteggiamento “amorevole”, banchieri e manager sono per definizione rapaci, e così via. In questa rappresentazione del mondo manca la gente reale, mancano carne ossa e sangue, manca paradossalmente il quotidiano di ciscuno di noi, proprio quello che si vorrebbe salvaguardare. E’ una caricatura della realtà ed è pericolosa, come tutti i dogmi. Ha in sé una carica potentemente conservatrice e venature vagamente reazionarie. Io sarei del parere di non lasciarsi sedurre dai principi ispiratori dichiarati, che sono senz’altro condivisibili, e di concentrarsi invece sulle conseguenze che da quei principi vengono fatte discendere, che sono in buona parte esiziali. Come quelle che riguardano il femminile, appunto.

  20. Come loredana sa, sono d’accordo con lei su tutta la linea e sulle implicazioni piuttosto ovvie che ricava dagli scritti di Pallante. Già che ci sono dico anche che quoto moltissimo Maurizio.
    Per il resto, nella questione sollevata da Tullia – quello che penso io è.
    1. L’ambizione egualitaria ha molte più possibilità di rispettare le scelte individuali di tutti, rispetto alle progettualità politiche che sclerotizzano la differenza di genere nei ruoli sociali. E’ facile da capire: se c’è il nido per tutti, alcuni potranno scegliere quanto tenerci i figli e se portarceli o meno. Se si stabilisce che bisogna risparmiare sulla pelle delle donne, se fa presto si chiudono i nidi a mezzogiorno e mezzo. Il sessismo infatti, salta all’occhio non solo quando si fanno discorsi sessisti, ma anche quando è evidente la mancata osservazione delle problematiche dovute al sessismo già preesistente. Pallante questa osservazione, nza manco ndo staa de casa.
    2. Sulla psicopedagogia. Si va per mode ed oscillazioni culturali. Lo vedo anche nelle successive mode di inserimento dei bambini. Prima ci si schiacciava sull’aproblematicità del bambino, per cui in tre giorni era fatta, ora ci si schiaccia sulla sua problematicità estrema e l’inserimento può durare più di un mese come modello standard. Stesse oscillazioni sono per l’allattamento e un sacco di altre cose. Credo comunque che la stessa letteratura in merito preveda orientamenti diversi – e confesso di non poterne parlare approfonditamente perchè oramai sono specializzata su pazienti adulti. Ho delle opinioni personali, fondate su osservazioni mie cliniche, ma appunto – parlo a titolo mio personale – anche se professionale.
    Non penso che il nido a tempo pieno sia correlabile a disturbi psicopatologici successivi, se naturalmente la qualità professionale delle persone che ci lavorano è sufficientemente dimostrata e palese. Non credo cioè che in linea di massima, per un bambino dopo i sei mesi, sia un problema separarsi dai care giver. E’ un problema per alcuni bambini, ma di solito superato entrare al nido nel momento in cui stanno imparando a camminare perchè è una fase delicata della conquista dell’autornomia, e che nella prospettiva del piccolo si accompagna a un bisogno costante dell’adulto vicino: per questo molti psicologi dell’età evolutiva e molti pediatri consigliano di iscrivere al nido i piccoli prima di quella fase o dopo quella fase, durante non è la cosa migliore, ma manco una catastrofe.
    Al di la della socializzazione, che prima dei tre anni avviene in maniera pulviscolare diciamo, e i piccolini quando non sono coordinati da maestre sembrano atomi che si scontrano, non si può valutare l’equilibrio psicologico di un bambino senza mettere in campo quello della famiglia. Allora ci sono donne che soffrono molto a separarsi presto dal bambino – rinviano questa sofferenza al piccolo e l’ingresso al nido diventa traumatizzante. Ci sono però molte donne che hanno sia problemi concreti per tenere il figlio a casa, ma anche resistenze di tipo psicologico che con una delega giornaliera al ruolo diventano madri migliori. Non mi vergogno a dire che io sono di questo tipo. Per questo tipo di madri, e per i figli di queste madri il nido è una cosa buona.
    In generale, la psicologia del novecento soffre di una forma di eurocentrismo da una parte, maa anche come dire, di novecento centrismo. Si stabilisce come paradigma ideale di crescita quello che è familiare al luogo e all’epoca in cui è nata la disciplina. Ma questa cura esclusiva della madre per la prole è una trovata del ventesimo secolo, che non combacia affatto con i sistemi in vigore in altre culture o nella stessa Europa un secolo prima, quando di figli se ne facevano dieci, e c’era una rete parentale vasta il cui stile di accudimento ricordava molto di più i nostri nidi di oggi, o le tribù dell’africa che la sehnsucht di pallante. Il gruppo sorvegliava il gruppo dei piccoli, che a sei anni andavano con i padri a lavorare nei campi. Credo comunque che di queste cose la moderna ricerca ne tenga ampiamente conto. Margareth Mead cominciò a contestare la teoria dell’attaccamento nel lontano 1954, e la teoria ne ha fatto tesoro. Sono sicura che simili osservazioni siano filtrate anche nella branca della psicopedagogia.

  21. Secondo me i sostenitori della decrescita hanno ragione quando sottolineano l’assurdità del nostro sistema produttivo. è vero che ci siamo ridotti a macchine che hanno il solo scopo di produrre e consumare, e che questo va a scapito del tempo (e della qualità del tempo) che passiamo con i nostri cari, o semplicemente occupandoci di noi stessi e delle cose che ci piacciono. Questo è un problema che riguarda in particolare la famiglia e l’educazione dei bambini. Per quanto la scuola possa essere formativa, i genitori sono sempre i genitori… E poi quanto è bello prendersi un’ora per giocare con i nostri figli?
    Il problema, però, è che questo non può riguardare solo le donne.
    Da un lato, la questione della diversità di attitudini è stata affrontata e “dimostrata” da alcuni studiosi di psicologia evolutiva… Non è che “siamo fatte” in un certo modo, è che l’ambiente ha selezionato in noi determinate caratteristiche, e altre negli uomini. Parlo di caratteristiche fisiche del nostro cervello. Ad esempio, le donne hanno un campo visivo più ampio degli uomini. Inoltre donne e uomini impegnati nelle stesse attività attivano aree del cervello diverse.
    Dall’altro lato, però, una società “giusta” non deve riprodurre le condizioni della natura, ma dare a tutti le stesse opportunità. Vale a dire, l’evoluzione mi avrà anche resa particolarmente sensibile, empatica, con un campo visivo più ampio etc, però se a me piace la fisica nucleare e voglio lavorare non sta alla società impedirmelo: devo deciderlo io. La società deve venirmi incontro offrendomi la possibilità di farlo senza rinunciare alla maternità, se voglio. Però deve anche darmi l’opportunità di dedicarmi esclusivamente (o quasi) ai miei figli, se lo ritengo importante. E questo vale per tutti, donne e uomini.
    Insomma, il punto è: una società giusta mi mette nelle condizioni di raggiungere gli obiettivi che reputo più giusti per me e per i miei figli.
    La società attuale, però, non lo fa.
    E non lo fa in parte perché siamo costretti a orari di lavoro assurdi (ripeto: donne e uomini), ma in parte perché le istituzioni non offrono alle donne che lavorano i servizi di cui avrebbero bisogno.

  22. Secondo me noi donne dobbiamo superare l’atteggiamento difensivo cronico.
    Non posso garantire sulla posizione di Pallante,
    ma non è l’unico che scrive di decrescita, prova a leggerti qualcosa d’altro, e vedrai che hai male interpretato.
    La decrescita suggerisce un riappropriarsi della vita.
    Se poi non ti interessa, e vuoi restare nel giogo della “produttività”, poco importa essere maschio o femmina.
    I servi per i cittadini non sono messi in discussione, solo viene fatto notare come Anche questi servizi siano offerti al solo e preciso scopo di Aumentare le ore di lavoro salariato a discapito di una economia dello scambio, del dono e della condivisione.
    Nessuno vuole per questo dire che le donne debbano stare a casa,
    piuttosto che, se un genitore lo desidera, lo possa fare.

  23. Stiamo parlando di Pallante, Elisabetta. E, perdonami, nel testo che ho riportato si parla di abolizione del tempo pieno scolastico. E, perdonami ancora, mi auguro che gli esseri umani siano liberi di chiamare il proprio lavoro in modi diversi da “giogo”. E magari di trovarlo, un lavoro.

  24. No, scusa, il titolo è “La decrescita e le donne”
    E’ questo che non mi va bene… non toccatemi la decrescita! 🙂

  25. E magari anche di dire che gli piace, il lavoro che fanno. Comunque, volendo restare su un terreno esclusivamente economico, c’è un bug fondamentale che mina la base stessa della teoria della decrescita, facilissimo da spiegare: il ruolo del progresso scientifico e tecnico. In soldoni, quello che fa la tecnica è permettere di produrre di più a parità di lavoro; ergo, per continuare a lavorare tutti (magari! Ma facciamo finta che sia così) dobbiamo per forza o produrre di più, o arrestare il progresso tecnico. La seconda ipotesi non è attraente come a qualcuno sembra: significa infatti anche arrestare lo sviluppo di invenzioni importanti per la salute, di auto meno inquinanti e, in generale, limitare l’orizzonte evolutivo degli esseri umani. In realtà quello del PIL è un falso problema: la sua crescita continua è insostenibile se ciò che si produce continua ad essere un aggregato di beni materiali che utilizzano risorse non rinnovabili, ma non deve essere necessariamente così. Se domani diventassimo tutti appassionati di massaggi shiatsu e ne chiedessimo una quantità crescente di anno in anno, sostituendo con questo piacere quello che molti di noi ircevono da un’automobile o da un nuovo smartphone, il PIL potrebbe crescere indefinitamente senza danneggiare niente e nessuno. Il problema non è il PIL, è ciò a cui noi diamo valore: il PIL non fa che misurare quello. Ma, impostato così, il problema cessa di essere economico e diventa etico, valoriale. E molto più difficile da affrontare, se non si vuole fondare una qualche nuova forma di totalitarismo.

  26. Forse io non ho studiato. Ma anche le dichiarazioni di cui al post sono opinioni e interpretazioni? Quelle ti stanno bene? Le condividi? E guarda, Elisabetta: di opinioni e di interpretazioni abbiamo bisogno, tutte e tutti, perchè il pensiero acritico rende molto simile a una setta, e non a una filosofia (e iniziare tutti i commenti dicendo “non hai capito”, “non hai studiato”, ecc. non depone molto a favore della seconda e molto a favore della prima, temo).

  27. “Ma che cavolo l’hai fatto a fare il figlio allora? La mattina appena sveglio lo prendi, lo imbacucchi e lo porti all’asilo. ”
    Questa frase mi ha proprio lasciata senza parole. La domanda iniziale sottindende che ci deve essere un perchè alla nascita di un figlio (ma che cavolo l’hai fatto a fare un figlio?, ovvero, perchè l’hai fatto?), e che questo perchè è univoco per tutti.
    In particolare, secondo questa frase uno fa un figlio per passare tanto tempo con lui, e possibilmente questo tempo deve riguardare il dopo pranzo fino a sera.
    Se non è così, allora non dovevi fare un figlio.
    Quindi se lavori a tempo pieno il tuo essere genitore non ha senso.
    Boh, forse la mia interpretazione è estremista. Io spero sia così, spero che non volessero dire questo. Perchè se è questo che volevano dire, c’è da preoccuparsi (per loro, mica per me che sono mamma da 6 mesi e lavoro senza vergogna e anzi, di sti tempi mi va di lusso).

  28. Forse si riferiscono ai tempi cittadini e non solo, quando la sera hai giusto il tempo per le comunicazioni di servizio, se va bene. Così sarebbe stato nella nostra famiglia per almeno 4/5 anni visto che il figliolo andava a letto alle 19.30! -Abbiamo scelto quindi il nido mattutino-
    E il sabato e parte della domenica? Una corsa tra la spesa, la lavatrice e le incombenze inevase.
    Che tempo di qualità rimane per esempio per leggere un bel libro insieme? O semplicemente tempo per noi stessi.
    Non sono per la decrescita felice ma forse per niente di tutto quello che ci viene propinato nei manuali del perfetto genitore, ritengo invece, come Zauberei, che il nido per tutti con personale qualificato sia una benedizione per moltissime madri e padri. Faccio parte della stessa categoria che beneficia della delega giornaliera, anche quando non lavora. E non me ne vergogno, anzi mio figlio ne trae di sicuro giovamento.

  29. Non so se sono io che non ho capito nulla della decrescita felice e degli interventi di Pallante o se è lui che non ha ben presente certi meccanismi del mondo del lavoro o di come nella realtà, e non nei soli saggi e articoli, certe vite di donna si svolgono.
    Incrociando la mia vita a qualche dato mi piacerebbe fare una piccola analisi.
    Prima di tutto bisognerebbe ricordarsi il lodevole principio per cui nasce il lavoro part-time, il cui scopo dovrebbe essere garantire ai lavoratori e alle lavoratrici la possibilità di conciliare i tempi di lavoro e il tempo da dedicare alla famiglia, o in alternativa cercare una seconda occupazione.
    Presupposto ammirevole che se fosse gestito con rigore e serietà potrebbe anche consentire l’abolizione del mostruoso tempo pieno scolastico (Sigh!) come Pallante si augura.
    Ma vivendo in Italia non possiamo esimerci dal verificare il modo in cui una legge in teoria buona viene applicata nella pratica. E qui arrivano i dolori e Pallante si distrae pensando al ritorno alla natura.
    Il part time nella Grande Distribuzione (Settore in cui lavoro e mi scusi Pallante conosco tutte le teorie sull’alienazione, il marketing aggressivo, il mercato alternativo e virtuoso ecc ma per ora vivo di questo) per una donna non è mai una scelta, ma l’unico contratto che le viene proposto, anche se non ne è ha la necessità.
    L’azienda si garantisce così uno sgravio fiscale e un buon ricambio di personale da utilizzare sulla lunghissima fascia oraria lavorativa da coprire, che significa notturni, festivi, e fine settimana compresi, momenti questi in cui i servizi, asili e scuole, sono praticamente inesistenti.
    E la famosa conciliabilità con il tempo da dedicare alla famiglia che fine ha fatto? Si è persa durante la strada e nessuno ha più il coraggio di rivendicarla perché, come spesso si sente ripetere in giro: “in tempi come questi bisogna ritenersi fortunati ad avere un lavoro” e allora vada così e in nome della crisi ma anche della decrescita, a quanto pare, lasciamo decrescere anche i nostri diritti.
    Negli interventi linkati nel post si fa continuo riferimento alla qualità di vita mi piacerebbe sapere se tutto questo viene tenuto in considerazione?
    Scusate lo sfogo ma a volte la scissione tra realtà è teoria è talmente grande che narrare le vite reali mi sembra l’unica via per non soccombere.

  30. Sulla necessità che certe persone escano da certi circuiti che strizzano le loro vite, anche io sono d’accordo. Ma non è una cosa che penso sia legittimo affrontare politicamente e macroeconomicamente, perchè vuol dire, giudicare in modo stringente gli stili di vita, e fare delle proposte che odorano di libertà fintanto che sono legate a voci minoritarie, ma si traducono in stato etico quando dovessero diventare leggi governative. Solo i fascismi di destra e di sinistra esplicitano giuridicamente la struttura che deve avere il rapporto tra i generi e la vita familiare. Io stessa – per il cui stile di vita Pallante me darebbe il nobel almeno attualmente – uso grandissima cautela a discutere questo tipo di organizzazione familiare con amici cari. Mi pare allucinante che se ne faccia un progetto pubblico.
    Ma mi fa anche specie l’idea di femminilità che questo progetto pubblico propone: non è concepibile l’idea di una donna che per esempio ami il suo laavoro, e pare che non esista neanche l’idea di una donna che ami il potere. E questo è persino buffo.

  31. @zauberei magari interpreto male io ma non è concepibile neppure l’idea che un uomo ami il suo lavoro o comunque lo faccia con soddisfazione.
    Per la donna poi vale il messaggio tu che “puoi scegliere” stai a casa che corrisponde alla tua vera natura. E’ questa pretesa di stereotipare e ghettizzare che si evince dagli articoli che mi rende insofferente!

  32. L’idea che un essere umano dica tutte cose giuste per chiunque è infantile e porta a catastrofi umane. Lo spirito santo non c’è.
    In parte certi uomini e certe donne si riconosceranno nelle sue affermazioni e in parte non si riconosceranno, c’est la vie sans Dieu. Ou sans un roi. N’est pas grave.

  33. @ Elisabetta
    Forse non ti è chiaro il problema: una teoria, oltre al suo nucleo duro, ha bisogno anche di divulgatori. E, purtroppo per la teoria della decrescita, divulgatori come questi abbondano. E la coda lunga dei divulgatori è un problema serio non solo per la diffusione delle teoria, ma anche per la loro realizzazione nel concreto. La rivoluzione francese non ò’hanno fatta i filosofi e gli enciclopedisti: l’hanno fatta gli avvocati e i giornalisti che interpretavano e opinavano. Ma non è che puoi negare Robespierre dicendo che nel “Contratto sociale” di Rousseau la ghigliottina non c’era. E una volta che la tua testa è rotolata nel cesto, dell’ermeneutica rousseauiana te ne fai ben poco.

  34. Ma perché c’è ancora chi afferma che le donne sono “per natura” accudenti e gli uomini “per natura” competitivi? Forse che tutti dovrebbero adeguarsi per forza a uno sciocco stereotipo in cui magari non si riconoscono?
    Trovo così irritanti tutte le prescrizioni differenziate in base al genere, tutte le presunte e indimostrate “naturali diversità” tra uomini e donne che vanno oltre l’anatomia!
    Sarebbe tanto disdicevole lasciare a ognuno il diritto di essere se stesso e agire secondo il suo carattere e la sua indole, che non dipendono affatto dalla forma del suo corpo?

  35. Però, Giulia, le qualità del proprio corpo incidono anche sulla formazione del proprio carattere. Almeno così mi sembra.
    Ad ogni modo rimane frustrante lo stereotipo dell’uomo rozzo e virile e della donna comprensiva e paziente. Sembrerebbe l’idea di un cartone animato studiato per formare una generazione di cinghiali che grugniscono e si rincorrono in un giardino di viole sistemato in una scatola.

  36. Mai abolirei il tempo pieno al nido. Deve poter essere una scelta.
    Zauberei dice tante cose e con competenza come sempre. Si tratta, lo dice lei stessa, di materiale sfuggente, che ha alcuni punti fermi che possono essere distinti dalla fuffa, ma che è anche sottoposto a mode non solo divulgative, ma anche scientifiche e culturali.
    Quel che temo, in soldoni, è che per salvaguardare la sacrosanta prospettiva femminista si possa sacrificare l’onestà di un’analisi che tenga conto di tutto. Non penso debba succedere questo, sono convinta che un’idea di società sostenibile da tutti i punti di vista possa essere costruita, ma per farlo dobbiamo prima far emergere le contraddizioni, se ci sono, e il genere di conclusioni a cui giunge Loredana mi sembra presentare il rischio di saltare questo passaggio.
    Semplicemente: nessuno deve “colpevolizzare” chi sceglie A o B, ma nel momento in cui ci poniamo il problema di quale sia il diritto del genitore dobbiamo contemporaneamente porci quello del bene del figlio. Contemporaneamente, senza che l’una cosa escluda l’altra. E senza creare la lobby delle madri e quella dei figli, insomma. Altrimenti avremo solo chi chiede più nidi da un lato, chi congedi più lunghi dall’altro (tanto non avremo nulla di tutto questo…) e penso che i due diritti vadano rivendicati insieme, invece.

  37. Tullia- non ho affatto detto che il materiale è sfuggente oggettivamente – perchè non lo penso. Sfugge a me perchè mi occupo di altro, concetto diverso. Al di la delle mode, se ci sono i punti distinguibili essi ci sono come in tutte le altre discipline.
    Inoltre – quando l’analisi di un fenomeno è malfatta, partendo da una prospettiva femminista, se essa davvero la si considera sacrosanta il problema non è della prospettiva ma della qualità dell’analisi. ma questo, tecnicamente per come funziono io – che appunto sono femminista e di sinistra ma preferisco il corriere della sera anzichè il manifesto e l’unità – vale anche per prospettive ideologiche che non si condividono. Mi infastidisce molto, ammetto – l’eco di certe demonizzaizoni che sono passate per scienziati da strapazzo o da prospettive psicodinamiche ampliamente sorpassate, di quanto il femminismo ha detto del materno. Il rinvio ha un femminismo antico per attaccare quello attuale. Personalmente io ho invece molta più paura di quanto possa far male il reaizonario bambino centrismo sui bambini e il maschilismo capillarmente diffuso alle famiglie tutte, del femminismo. Perchè non vorrei toccare tasti dolenti, mala correlazione tra nido e psicopatologia non la sostiene nessun ricercatore stimato, mentre sulla correlazione tra fusionalità materna e psicopatologia c’è tutta la clinica occidentale sopra a trarne beneficio.

  38. Zauberei, non voglio estenuarci con discussioni fiume però abbi pazienza, voglio risponderti.
    Io non ho detto che il materiale è sfuggente in tutti i sensi e da tutti i punti di vista né che non ci sono punti distinguibili. Ho detto che è sfuggente riferendomi sia agli stessi orientamenti diversi che tu citi (e che sono legittimi), sia all’influenza delle mode e delle oscillazioni culturali (che tu citi) e che producono, come tu dici, “schiacciamenti” su un rischio o su un aspetto piuttosto che su un altro, ambedue documentati. Dando quindi per scontato che stiamo parlando della parte seria e distinguibile della disciplina. E poi, aggiungo, esistono anche delle contraddizioni o semplicemente dei punti di domanda, o almeno appaiono tali a una ingenua non addetta ai lavori come me: per esempio perché la correlazione tra fusionalità (in riferimento all’allattamento “prolungato”) e psicopatologia non viene tenuta in considerazione nelle raccomandazioni sanitarie internazionali sull’allattamento? Esiste un gap tra discipline psicopedagogiche e nutrizionali? Non credo, dato che l’allattamento oltre l’anno è raccomandato anche per i benefici psicologici. E se la questione è fornire una raccomandazione unica per tutti ma in realtà è rivolta davvero al solo terzo mondo, che necessità c’è di parlare a nuora perché suocera intenda? Non si fa prima a precisare: dove c’è povertà il latte materno è più sostenibile e più igienico? Sono domande a cui continuo a non trovare risposte chiare da parte dei professionisti (e credimi, non le pongo in modo retorico). Senza contare che questa associazione con la psicopatologia non è un nesso causa effetto tra tetta e malattia, ma prevede tutta una serie di altre variabili che svolgono un ruolo preciso. Tutta quella serie di altre variabili che fanno del nido in un caso una scelta estremamente positiva, in un altro caso una scelta meno valida. Però l’esperta sei tu e io non sono in grado di contestarti sul tuo terreno, devo ammettere però in tutta onestà che fatico a credere che non esista una problematica rilevabile sulla frequentazione del nido a meno di tre mesi.
    Poi tu dici: “quando l’analisi di un fenomeno è malfatta, partendo da una prospettiva femminista, se essa davvero la si considera sacrosanta il problema non è della prospettiva ma della qualità dell’analisi”. ma è esattamente quello che dico io.

  39. Tullia, io sarò noiosissima. Ma per me il punto è semplice: non si può proporre un modello valido per tutte le donne, colpevolizzandole se non lo scelgono. Nè si può pensare di proporre qualsivoglia modello senza aver ottenuto per tutte anche i diritti “che non ci piacciono”. Non è questione di trovare vie più o meno femministe. E’ di ottenere qualcosa che al momento non c’è. Quando ci sarà piena libertà di scelta, ma vera, benissimo inclinare verso la pasta madre o il surgelato. Questo sta alla coscienza individuale di ognuno: elevare a modello la prima o il secondo è, parimenti, un pericolo.

  40. Tullia per conto mio la spiegazione del terzo mondo è l’unica plausibile. Altre non me ne vengono. Ma l’OMS è un organo politico che agisce in seguito a linee politiche economiche e sanitarie, posso sospettare che la cultura psicodinamica non sia ancora al primo posto e posso sospettare che preferisca dei criteri che non sono quelli che condivido. Ho il sospetto che questo non sia l’unico ambito. In ogni caso è da mo’ che non sono d’accordo con l’oms, come è da mo’ che penso che non ci sia alcuna controindicazione psicologica alla scelta del nido. Ma ripeto questa discussione l’ho già fatta,per altro anche con te, ricordo esattamente quello che tu qualificavi come confusivo ma che a me risultava molto chiaro – se in tanti ti sono sembrati poco chiari, mi chiederei se non ci entra il fatto che continuano a dirti cose che non ti piacciono.
    In ballo infine non c’è il nido a meno di tre mesi, e manco a meno di sei. Dubito di aver fatto un’allusione a una datazione così precoce. L’avccordo generale è dopo i sei mesi, come d’altra parte è concepito s enon ricordo male nei nidi comunali. Se ho dato a intendere che un neonato può andare al nido mi dispiace. Ma io chiudo qui perchè appunto mi interessa relativvamente l’argomento, e non mi occupo più di queste cose, non avrei molto da aggiungere.

  41. @Davide
    Sono contenta che anche tu avverta come frustrante lo stereotipo, che anche a me ricorda un “cartone animato studiato” come nella tua simpatica immagine.
    Credo che l’influenza della forma del corpo sul carattere, ammesso che ci sia, sia trascurabile, se confrontata con quella di tutta una serie di altri fattori: l’educazione che si riceve, le esperienze che si fanno, ad esempio, ma soprattutto un’indole, uno zoccolo duro dell’anima che mi pare prescindere dal corpo e dai suoi limiti.
    Trovo che, nel carattere, quando non si sentono in dovere di “recitare una parte”, di corrispondere allo stereotipo che va per la maggiore, uomini e donne si somiglino moltissimo, nelle forze e nelle debolezze, nei timori e negli entusiasmi. Simili per quanto possano esserlo due persone diverse, naturalmente, perché ciascuno di noi è unico.
    Io credo in questo teorema: presa una coppia di persone di sesso opposto, arbitrariamente diverse nel carattere, è possibile trovare una coppia di persone dello stesso sesso che sono altrettanto diverse; presa una coppia di persone dello stesso sesso, arbitrariamente simili nel carattere, è possibile trovare una coppia di persone di sesso opposto che sono altrettanto simili.
    Ecco perché ritengo non abbia senso fare distinzioni di genere (se si parla di spirito e cervello, non di corpo, evidentemente), perché semplicemente non fanno la differenza.
    E poi, se anche ci fosse una differenza nella distribuzione statistica dei vari tratti caratteriali, non sarebbe comunque giusto porre limitazioni a priori nelle aspirazioni, nelle ambizioni delle persone: perché ci sono sempre le code della gaussiana che vanno oltre la media più o meno tre sigma e hanno diritto a esistere, senza sentirsi additare come “quelli strani”. Una donna ha diritto di fare carriera aggressiva e un uomo di stare a casa per coccolare i figli (se personalmente hanno questa inclinazione, poco importa quanto possa essere minoritaria nel loro genere di appartenenza) senza doversene vergognare.

  42. Zauberei, non è questione di piacere o meno (allattare mi piace, farlo col dubbio che a 19 mesi sia meglio smettere mi piace un po’ meno, quel che mi piacerebbe più di tutto è vederci chiaro): che l’argomento OMS sia solo quello del terzo mondo, non è plausibile. Qualcosa in più la direbbe la tua ipotesi riguardo alla penetrazione della cultura psicodinamica in certi ambiti. Eppure ancora non mi soddisfa. Anche questa non mi pare del tutto plausibile. Del resto tutti gli altri aspetti del ruolo materno nell’accudimento, le linee guida li considerano: contesto sociale, culturale, politico. Non c’è scritto semplicemente partorisci e allatta. C’è scritto che le istituzioni hanno il compito di favorire la sostenibilità e la praticabilità dell’allattamento come scelta della madre. Un gap sul fronte psicologico laddove le raccomandazioni contengono anche espliciti riferimenti psicologici? Se ci fosse una controindicazione così macroscopica possibile che non filtrerebbe?

  43. Riguardo ai nidi, ho sbagliato io: intendevo dai 3 mesi. Qui ai comunali li accettano da 3 mesi in poi.
    Ma il punto è un altro.
    Zauberei scrivi: “Solo i fascismi di destra e di sinistra esplicitano giuridicamente la struttura che deve avere il rapporto tra i generi e la vita familiare.” Ma scusa, non capisco. Qualunque stato, qualunque insieme di leggi rispecchia e rappresenta una certa situazione dei rapporti tra i generi e la vita familiare. Ovviamente anche la democrazia. Si tratta semmai di esplicitare e discutere i valori condivisi, non di fingere che non ne esistano alla base di qualsiasi ordinamento.
    Loredana dice:
    “non si può proporre un modello valido per tutte le donne, colpevolizzandole se non lo scelgono.”
    Ma scusate ancora. Vorrei chiedervi cosa secondo voi è prescrivibile, eticamente e/o giuridicamente, nel rapporto tra genitori e figli, e cosa non lo è. Cosa riguarda solo il privato nucleo familiare e cosa è interesse pubblico. E chi decide: la scienza e basta? Ma la scienza non è alla base di tutte le nostre leggi o di tutti i nostri valori, né esistono soltanto leggi e valori fondati su verità scientificamente dimostrate.
    Nessun modello si deve imporre, ma un modello, se ritenuto giusto, a mio avviso si può benissimo proporre! E infatti lo si fa continuamente, su praticamente tutti gli aspetti della nostra vita. Quando si ragiona da una prospettiva femminista, invece, la maternità pare l’unico ambito che deve restare rigorosamente esentato da qualsiasi indicazione. Siamo passati dall’eccesso di colpevolizzazione alla censura delle proposte educative. Decisamente da un eccesso all’altro…
    Torno ancora una volta sull’epigrafe del tuo libro Loredana. “Non esistono poteri buoni”. La maternità che esalta se stessa attraverso il “potere di creare” ti fa rabbrividire. Ma perché? Un potere può essere usato per fare del male o del bene, a sé o agli altri. E ovviamente alle donne, come pressocché a qualsiasi essere vivente, il potere piace (cosa di cui per fortuna almeno Zauberei non sembra scandalizzata anzi). Pallante non dice, in quel passo più su, che alle donne non piace il potere, piuttosto identifica il femminile come quella categoria che ha a che fare con la cura e il maschile con quella che ha a che fare col potere, e implicitamente suggerisce (forse non ce l’ha esplicito nemmeno lui, ma è questa secondo me l’interpretazione corretta) che entrambe le categorie sono presenti in entrambi i sessi in un mondo dal canto suo maschilizzato.

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