Cercando distopie, quelle meno note, quelle meno citate, ci si imbatte in un Beniamino Placido strepitoso. Era il 24 aprile 1984. Con ogni probabilità, nessuno dei libri citati sarà, distopicamente, reperibile. Ma leggete.
Dio strabenedica gli inglesi. Non gli inglesi protervi e ostinati come la signora Thatcher, che si è comportata come si è comportata nei confronti della Comunità europea, tanto da far venire in mente a Rosario Romeo (“Cristo si è fermato a Londra”, Il Giornale, 28 marzo) quel tal John Aylmer vescovo della Chiesa d’ Inghilterra che nel 1559 proclamava: “Dio è inglese”. Ma quegli inglesi stravaganti e intelligenti di una volta, che si sarebbero divertiti a prenderlo in giro, il loro attuale Primo Ministro. Se lo potevano permettere. Swift, Thomas Love Peacock, G.B. Shaw, H.G. Wells, erano capaci di prendere in giro anche se stessi, oltre alle tradizioni, alle istituzioni della Gran Bretagna. Di inglesi spiritosi come questi non ce ne sono più mica tanti, in giro. Si teme che la razza sia in via di estinzione. Ma si può fare qualcosa per entrare in contatto con il loro spirito? Si può. Ecco qualche suggerimento. Ci si può procurare un libro di Foscolo Focardi, Trattare con gli inglesi (Lucarini, pagg. 222, lire 13.000). E’ una sorta di guida, dettagliata ed appassionata insieme, alle peculiarità del “carattere” inglese. Che viene ricondotto tutto al generale e saggio criterio di economia (economia di energie, di vita: non di denaro). E’ una forma di economia la “privacy”, è una forma di economia lo snobismo, è una forma di economia l’ umorismo. E’ una forma di economia l’ “understatement”, il gusto di dire un po’ meno di quello che si potrebbe o si dovrebbe. Ecco un esempio classico, storico. Il 15 giugno 1815 Napoleone è sconfitto a Waterloo. Il giorno dopo, l’ Observer riporta la notizia nei seguenti termini: “Sanguinosa battaglia nelle Fiandre. Completa disfatta della sollevazione corsa”. Ci si può procurare Castello Crotchet, un romanzo satirico-grottesco scritto nel 1831 da Thomas Love Peacock (Theoria, pagg. 186, lire 15.000), e leggere subito l’ introduzione di Carlo Bernardini. Vi si spiega in cosa consiste la “concezione inglese del mondo… Molto si è scritto su questa concezione, banalmente e non; ma il suo punto vitale, se non mi sbaglio, sta nel ritenere che il ridicolo sia il peggiore dei vizi umani e il prendersi troppo scopertamente sul serio sia un’ imperdonabile volgarità”. Faccio notare che Foscolo Focardi è un ingegnere elettronico, un uomo dell’ informatica, e Carlo Bernardini uno scienziato. C’ è qualcosa nel “carattere inglese”, o nella “concezione inglese del mondo”, che piace agli uomini di scienza, evidentemente.
Ci si può procurare, infine, Erewhon di Samuel Butler, appena uscito negli “Oscar Mondadori” (traduzione di Michele Lo Buono, introduzione di Peter Mudford, pagg. 264, lire 6.500), per convincersi che non c’ è bisogno di essere scienziati per apprezzare lo spirito inglese. Del quale Butler è un rappresentante illustre. E’ di lui che voglio parlare, sia pure schematicamente, come si farebbe in una storia letteraria tradizionale: Vita, Opere, Fortuna. Vita. Samuel Butler vive fra il 1835 e il 1902. Figlio di un pastore anglicano, ha raccontato in un libro autobiografico, The Way of all Flesh (“Cosi muore la carne”, Einaudi 1939) che non ebbe il coraggio di pubblicare in vita, quanto doveva essere insopportabile la vita in una media famiglia vittoriana (e religiosa) inglese dell’ Ottocento. A ventiquattro anni, Butler rinuncia alla carriera religiosa cui la soffocante famiglia lo aveva destinato, e parte per la Nuova Zelanda. A far cosa? A pascere le pecore. Si dimostra così bravo in questa intrapresa pastorale che nel giro di sei anni consegue il suo scopo. Diventa ricco (o almeno benestante); può tornare in Inghilterra e dedicarsi ai suoi studi. Nonchè, naturalmente, alle sue stravaganze, culturali e non. Scrive sui “Sonetti” di Shakesperare: per far arrabbiare i cultori di Shakespeare. Scrive sulla Resurrezione: per sostenere che Gesù è stato deposto dalla Croce quando era ancora vivo. Scrive su Omero (L’ autrice dell’ Odissea): per dimostrare che l’ Odissea è stata scritta non da Omero, ma da una giovane donna di Trapani. Di quest’ ultimo libro mi sono occupato un’ altra volta. E solo per non ripetermi, non dirò che si tratta di un libro serio, che centra alcuni punti di sicuro interesse (la “femminilità” dell’ Odissea contrapposta alla “virilità” dell’ Iliade).
La preparazione filologica di Butler era di prim’ ordine. Ha scritto una bellissima traduzione in prosa dell’ Iliade, che mi sono fortunosamente procurato; e spero – pazienza e fortuna aiutando – di mettere le mani un giorno anche sulla sua altrettanto bella (dicono) traduzione in prosa dell’ Odissea. Come sempre, le stravaganze di Butler non sono gratuite stramberie. Hanno un nocciolo di possibile verità. Fanno riflettere, fanno pensare. Opere. Mi rendo conto che parlando della vita di Butler ho parlato anche delle sue opere significative (si vede che non è facile distinguere l’ una dalle altre, come fanno le storie letterarie). Mi concentrerò allora su questo romanzo appena ripubblicato: Erewhon. Se osservate bene, Erewhon è l’ anagramma di “Nowhere”: in nessun posto, in nessun luogo. Non è una “Utopia” come quella di Tommaso Moro; è una controutopia, o utopia negativa, o distopia, come I viaggi di Gulliver di Swift. Butler lo scrisse nel 1872. Lo ritoccò (Erewhon Revisited) trent’ anni dopo, nel 1901. Di cosa si tratta? Cosa vi si racconta? Si racconta la storia di un normalissimo signore inglese che va a cercare fortuna come allevatore di bestiame in una lontana colonia (il riflesso delle vicende personali dell’ autore è evidente). C’ è, in questa remota colonia, una misteriosa catena di montagne che nessuno ha mai osato valicare. L’ eroe della storia ci prova e si ritrova in un paese strano, molto strano. Chi si ammala, o è colpito da una qualche sventura prima dei settant’ anni, viene portato in tribunale e condannato: colpa sua! Mentre chi è invece affetto da un difetto di carattere morale (l’ avarizia, per esempio) è affettuosamente curato (non è mica colpa sua).
Ma la cosa più strana è l’ assoluta assenza di macchine. Quattrocento anni prima le macchine c’ erano, e prosperavano; poi, su indicazione di un saggio preveggente, furono distrutte: avrebbero soppiantato gli uomini. Si tratta quindi di un discorso contro la Rivoluzione industriale. Discorso che risulta sempre (a me personalmente) un po’ fastidioso, per quel tanto di patetico-pastorale che sempre ha. Ma concediamo a Butler un’ attenuante: lui la Rivoluzione industriale – la prima del mondo occidentale, quella che ha sconvolto l’ Inghilterra fra gli ultimi decenni del Settecento e i primi dell’ Ottocento – l’ ha vista. O quanto meno l’ ha sentita raccontare. Sa che le macchine sono state certamente necessarie, ma altrettanto certamente devastanti (altrimenti come si spiega Marx? Come si spiega tutto il romanticismo inglese?) E poi, la parte più bella di Erewhon non è questa; è la critica – sotto forma di osservazione di un paese inventato – di un paese reale: l’ Inghilterra del secondo Ottocento. Con i suoi valori convenzionali fatti passare per valori assoluti; con i suoi religiosi, i suoi intellettuali, i suoi politici (la Thatcher compresa, se ci fosse stata). Fortuna. G.B. Shaw deve molto a Butler. Gli deve qualcosa anche D.H. Lawrence. Gli deve qualcosa anche James Joyce. Mario Praz lo considerava lo “Swift dell’ età vittoriana”. Leggendolo, ci rendiamo conto di dovergli qualcosa anche noi. Uno scrittore così merita una fortuna migliore.
L’Erewhon di Butler si trova facilmente, in quanto da tempo iscritto nel canone Adelphi. Poi c’è una breve antologia di pensieri edita da Guanda.
Ammettiamo pure che Butler non sia obbligatorio, che non sia davvero un autore imprescindibile, di prim’ordine. Ma fa da tempo parte del mio piccolo Pantheon personale.
Come può non piacermi un uomo di spirito che combattè praticamente da solo SIA contro il cristianesimo e la moralità puritana SIA il darwinismo e l’ortodossia scientifica del tempo?
Posseggo, oltre a Erewhon e a Così Muore la Carne nella vecchia edizione Einaudi, anche The Essential Samuel Butler, una antologia dei Notebooks e l’edizione del 1913 di The Humour of Homer and other essays, fra i quali numerosi sull’arte devozionale in legno delle Alpi. Forse è questo che ha impedito un più ampio riconoscimento del particolare genio di Butler: l’eccessiva dispersione su troppi campi e troppo diversi. Ogni suo libro sembra scritto da una persona diversa: tutte interessanti ma difficilissime da definire e questo rende difficile prendere sul serio un autore, a meno che non si tratti di un genio planetario come Goethe, entrato nel canone già da vivo.
Fra l’altro Placido fa il difficile proprio su quell’aspetto della sua opera che oggi sembra più attuale: l’idea di poter essere sostituiti da macchine ormai capaci di autoprogettarsi e riprodursi ma evidentemente negli anni Ottanta del Novecento certe cose si vedevano meno chiaramente che negli anni Settanta dell’Ottocento…
Attenzione, però: gran parte dei nomi citati da Placido sono irlandesi, niente a che vedere con quell’inglesità della madrepatria con la quale, a ragione, questi mondi anglofoni molto spesso cozzano.