So che non sono la sola a chiedermi dove sia finito il nostro trauma. Ne parlavo ieri sera con un amico, ne parlo con altri amici tutti i giorni, e in realtà lo so che il trauma c’è eccome, a dispetto dei titoli quasi trillanti dei giornali, o nella migliore delle ipotesi ineluttabilmente indifferenti, perché quel che andava fatto è stato fatto, questo ci dicono. So che non sono la sola a essere circospetta, a uscire poco e con prudenza: oltretutto queste settimane stanno parlando a quella parte di me che tante volte si è chiesta perché le relazioni di lavoro comportino quasi sempre una complicazione gigantesca che sta nel dover camminare in punta di piedi per non offendere nessuno, e quindi una cosa che si potrebbe dire in modo semplice occorre dirla sghemba e infiorettata, e alla mia età posso pur domandarmi che senso abbia. Ecco, quella parte di me non vuole vivere in ritiro a vita, ma nel proprio intimo sa che il ritiro l’ha disintossicata dagli orpelli, per esempio, dal superfluo, dalle cose fatte per abitudine.
Non sto AFFATTO celebrando il lockdown, né la chiusura, né lo smartworking. Conosco i limiti di tutto e parlo solo per me, in questo caso. So quello che non vorrei rifare e che invece finirò per rifare: ho semplicemente intravisto un modo di vivere che a me, e solo a me, è più congeniale.
Mi chiedo: è anche questo un effetto del trauma di cui non parliamo? E perché non ne parliamo, poi? Si tace sulle persone ferite, sui bambini e gli adolescenti, ma non solo loro, perché anche gli adulti e gli anziani sono feriti. “Questi mesi – diceva mia suocera domenica scorsa – questi mesi, cosa sono stati, che incubo sono stati”, e io pensato a due ottantenni chiusi in una casa di due stanze, e certo, lo so che è stato un incubo.
Quando potrò tornare nelle Marche, so che incontrerò altre ferite, perché immaginatevelo un po’ cosa significa passare tre mesi chiusi in una Sae (e magari si tace, quasi sempre, su di loro, e pure sull’astronave di Bertolaso: qui Mario Di Vito, ottimo come sempre, per il Manifesto).
Chi racconterà tutto questo, che andrebbe già raccontato ora, e come, mi chiedo. E intanto rileggo, per puro caso, un vecchissimo articolo che un poeta, Attilio Bertolucci, scrisse nel 1984 su Virginia Woolf e sul suo ultimo giorno: “basta la distrazione di un’ ora in una mattina calma, con un calmo fiume vicino a casa, perché accada l’irreparabile”. Siamo distratti, temo. O qualcuno ci sta raccontando in modo terribilmente distratto, e il fiume non è neanche così calmo.
“perché le relazioni di lavoro comportino quasi sempre una complicazione gigantesca che sta nel dover camminare in punta di piedi per non offendere nessuno, e quindi una cosa che si potrebbe dire in modo semplice occorre dirla sghemba e infiorettata”. Quanto è vero, e quante energie sprecate in questo, che invece potrebbero essere investite in modi più fecondi.
Spesso, Lei da voce ai miei pensieri. Oggi in maniera totalizzante. Ogni volta che ripenso a questi mesi ” chiusi” mi vengono le lacrime agli occhi ma se provo a fare parlare questo nodo in gola, non trovo le giuste parole per quanto sia aggrovigliato.
Quindi, anche oggi, grazie.