In questi giorni ci sono state parecchie discussioni su Facebook, partendo dall’articolo di Andrea Colamedici sulla stanchezza degli intellettuali al Salone del Libro di Torino. Articolo su cui sento di concordare in diversi punti, in particolare per quanto riguarda molta disillusione nel ripetere un rito bellissimo ma a cui, forse, non si affidano più molte speranze di incidere sul mondo reale. E dal momento che discutere è salutare (tranne quando si interviene parlando del proprio libro negletto, cosa che diventa sempre più frequente), ne è nata una discussione gemella, che riguarda la distanza degli intellettuali dalle giovani persone che leggono, e ne hanno scritto due autori per ragazzi, Enrico Galiano e Manlio Castagna.
Oggi è la volta di un meraviglioso libraio come Giorgio Gizzi/Harry Crum, che in un lungo post interviene su uno dei punti in questione: che riguarda le lettrici, e in particolare le lettrici di romance, da anni sotto accusa per la “pochezza” dei libri che amano e quest’anno alla ribalta delle cronache perché la loro presenza al Salone è stata evidente e importante.
Una delle cause della disillusione di cui parla Colamedici, secondo me, sta proprio qui. Oggi si accusa (a mezza bocca, sia mai) il romance, ieri si accusava il giallo, sempre si accusa la letteratura fantastica. E invece, forse, bisognerebbe parlare del cosiddetto mainstream.
Scrive infatti Gizzi:
“Quel che a me spaventa di più è la regressione degli adulti verso una scrittura facilitata, in netta direzione di sceneggiature addomesticate da cui sono espiantate le perigliosità: la vedo non solo come un fenomeno in atto, ma “in crescenza” esattamente come la perdita dell’attenzione dopo un niente, se non viene sollecitata dall’effettone. E non parliamo della superficialità nel bollare come brutto un libro rispetto a cui siamo noi che leggiamo a non essere all’altezza: i commenti dei libri su Amazon sono esilaranti”.
Perché il problema non è il romance come genere, è il come:
“Se vedessi da libraio le giovanissime tentare il confronto con altri generi, per i quali serve appena più sforzo, senza la spinta del gadget e l’approvazione collettiva e fintamente confortevole della bolla dei social, sarei più tranquillo.
Invece assisto più di frequente all’estensione mortifera del fenomeno, alla sua dilatazione oltre gli anni di elezione: nelle file dei giorni scorsi c’erano trentenni e quarantenni preoccupanti che erano lì in autonomia, non per accompagnare figlie o sorelline”.
Condannare il romance non serve e non è utile a nessuno. E’ sempre esistito, in mille forme, ma al suo interno sono possibili i ribaltamenti.
Faccio un esempio lontano.
Nel 1975 Roberto De Simone diventa “il cavaliere Giambattista Basile” e impara “che la matrigna si può decapitare troncandole la testa in una cassa di biancheria”. Nella ricerca che lo porterà a scrivere una delle più belle opere teatrali del passato recente, La gatta Cenerentola, va sulle tracce della tradizione orale, e impara altro. Nell’introduzione al testo (la vecchia collezione Einaudi di teatro diretta da Paolo Grassi), scrive dunque:
“c’è sempre una grotta e la vergine che perde una scarpa e la cenere e la pianta e le sei sorelle e la madre e la matrigna e la Madonna e tante madonne e un padre cattivo che si sposa sempre per darci una matrigna o magari sposerebbe anche la figlia perché è lui che comanda o crede di comandare finché Cenerentola o una Madonna non diventa gatta e gli graffia il viso fino a farlo tremare dalla paura di essere divorato come un topo. Allora egli, dopo aver inventato la sua verginità, dopo aver mozzato il capo ai figli morti prima di nascere, inventa una chiesa dove è l’unico dio che non può morire perché ha creato tutto lui. Ma intanto si accorge che non può partorire e allora la gatta gli ride dietro e si siede come regina al suo posto calzando la scarpa perduta come vuole lui ma fregandosene altamente perfino della Santa Inquisizione”.
La gatta Cenerentola, peraltro, non termina con l’esultanza da parte della medesima, che anzi non ha nessuna fretta di misurare la scarpa. Quando una delle lavandaie la chiama affinché la prova venga fatta e, insomma, amore e innocenza trionfino, la risposta di Cenerentola è:
“E che nn’haggi’ ‘a fa’ d’ ‘o princepe!…Io ccà sto bbona!…Io nun voglio a nisciuno!”.
Passano gli anni, e quel ritorno alle origini della storia proposto da De Simone viene per lo più dimenticato (purtroppo: chi può, recuperi video e musiche dell’opera). Il malinteso modello Cenerentola – dove la scarpetta viene subito provata e di gatte non c’è traccia – no, e riaffiora soprattutto in molti libri sentimentali. Ma Cenerentola può decapitare la matrigna, ancora oggi (ovviamente in senso figurato) e fare a meno del principe, volendo.
Perché nulla è semplice davvero, se lo si vuole e in senso buono. Basta però essere disponibili a discutere e di questi tempi diventa sempre più difficile, perché mi sembra che la postura sia quella già denunciata da Douglas Adams in Guida Galattica per gli Autostoppisti:
“Se c’è in giro una cosa più importante del mio Io, dimmelo che le sparo subito”.